ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 14 settembre 2012

Il tramonto della devozione popolare per i Santi ha spogliato il mondo di una nota gentile



È impossibile fare una passeggiata in campagna, in qualunque parte d’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, nelle zone di montagna come in quelle di pianura, nelle aree industrializzate come in quelle rurali, senza imbattersi, ogni poche centinaia di metri, in qualche capitello, ossia in qualche edicola sacra dedicata alla Vergine o ai Santi.
Ed è impossibile capire qualcosa della storia medievale, in particolare delle corporazioni, delle confraternite, della vita pubblica e di quella privata, dell’economia e della spiritualità, prescindendo dall’enorme importanza che il culto dei Santi ha avuto nell’accompagnare passo per passo le trasformazioni della società nel corso dei secoli.

Ogni categoria di lavoratori aveva il suo santo patrono; ogni genere di malattia aveva il suo santo intercessore; non vi era evento o situazione che, nel corso della vita umana, non facessero capo al culto di un determinato santo: per proteggere dagli infortuni, dagli incendi, dal cattivo raccolto, da tutto ciò che minaccia e sminuisce la vita.
Il culto dei Santi non si limitava all’erezione di innumerevoli capitelli, specialmente agli incroci stradali e nei luoghi più suggestivi, perfino tra i rami degli alberi, e alle relative devozioni; vi erano anche altre forme di devozione popolare, che, se da un lato sconfinavano sovente nella superstizione e, addirittura, verso pratiche di origine pre-cristiana, e quindi pagana, dall’altro costituivano forse la più spontanea, la più fresca, la più potente manifestazione della vita religiosa a livello dei singoli e delle comunità, certo una delle più sentite.
Anche la scansione del calendario dei lavori agricoli era ispirata dal culto dei Santi: in pratica, tutto l’anno era segnato dalla successione della ricorrenza dei diversi Santi che presidevano o segnavano l’inizio di questa o quella attività umana, questa o quel momento nel grande ciclo della natura: «San Benedetto, la rondine sotto il tetto» (il 21 marzo, equinozio di primavera); «le lacrime di San Lorenzo» (espressione che indicava sia la notte del 10 agosto, sia il gruppo stellare delle Pleiadi); e così via.
Il culto dei Santi era fondamentale sia per le comunità - locali e professionali -, sia per i singoli individui; se ogni paese e villaggio avevano il loro santo patrono, e così ogni arte e mestiere, con tanto di solenne processione annuale, la devozione “privata”, chiamiamola così, era una faccenda del tutto personale: ogni persona si sentiva spontaneamente attratta verso un determinato santo o una determinata santa, per quel particolare aspetto dell’amore divino che in essi traluceva, nella loro vita, nei loro atti esemplari; e ad essi era portata a rivolgersi nelle difficoltà dell’esistenza, via via che queste insorgevano.
E ciò, almeno nelle aree meno direttamente investite dalla modernità, fino ad anni recentissimi: chi non sa come, nell’Italia meridionale più rurale e profonda, la venerazione di San Pio da Pietrelcina rivestiva, e in verità riveste ancora, un carattere schiettamente popolare, proprio per la fisionomia schiettamente, umanamente popolare del personaggio stesso? È noto cosa è accaduto quando il mistico cappuccino, sprovvisto di cultura ma ricchissimo di umanità, si è trovato a faccia a faccia con il francescano padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica ed esponente della concezione moderna della scienza, venuto ad esaminarne le stigmate ma animato da un fortissimo pregiudizio, ossia che l’unico, vero stigmatizzato della storia sia stato Francesco d’Assisi: si è verificata una incomprensione totale, e la conseguenza è stata un lunghissimo periodo di ostracismo, quasi di persecuzione, da pare della gerarchia ecclesiastica verso l’umile frate.
Un discorso analogo, quanto all’importanza da esso svolta nella devozione popolare,  si può fare per il culto degli Angeli. Sempre nell’Italia meridionale, e non lontano dal convento di San Pio, sullo sperone del Gargano, precisamente a Monte Sant’Angelo, meta di pellegrinaggio fin dal VI secolo, è viva tuttora la devozione per uno dei messaggeri divini più noti e amati dalle persone semplici: San Michele Arcangelo.
Se ai Santi ci si rivolgeva nelle difficoltà ordinarie della vita, agli Angeli ci si rivolgeva in quelle straordinarie, come creature più vicine a Dio, molto più perfette e più potenti di qualsiasi soggetto umano, per quanto ammirevole nella fede e nella carità; né si dimentichi la parte che essi svolgevano nei rituali di esorcismo, per la liberazione dalla possessione diabolica.
E, naturalmente, la stesse cose si possono dire, e a maggior ragione, per quanto riguarda il culto mariano, talmente diffuso nei Paesi cattolici e talmente impregnato di umori popolari, peraltro istituzionalizzati dalla Chiesa, almeno nelle manifestazioni più imponenti (come a Fatima o a Lourdes), da essere pressoché inseparabile dalla fede nella divinità di Gesù Cristo e dalla credenza nella Santissima Trinità.
Ha scritto Ulderico Bernardi  nel breve ma efficace saggio introduttivo «Devozione popolare» al pregevole volume di Giorgio Mies «Santi nell’arte fra Piave e Livenza», Sinistra Piave Servizi Editore, 1989, pp. 8-9):

«I mugnai dei mulini a vento si affidavano a San Biagio, e così i medici e i musici. Sotto il mantello di San benedetto da Norcia si rifugiavano i calderai. Campanari, architetti e minatori contavano su Santa Barbara. Ma il dominio degli intercessori si estendeva dai mestieri alle malattie: a chi doleva la gola serviva un boccone del pane di San Biagio; San Benedetto era invocato per cacciare febbri, risipola e perfino incantesimi. Santa Barbara era contro il fuoco, il temporale e la morte improvvisa.
A ciascuna fatica e disgrazia il suo misericordioso soccorritore. Un rimedio, una speranza, un credo accorato nei taumaturghi, comunque attenti e vigili, in secoli duri per la condizione umana, specie per i più poveri.
Allora, nei secoli della ruralità, quando le opere delle stagioni erano scandite dai Santi, chiamati a segnare semine e raccolte, cimature, trasporto dei letami, bacchiatura delle noci, fioriture delle uve, maturazione dei mosti. A ogni operazione la sua data santa. E attenzione alla luna, naturalmente, che col calare e crescere governa flussi e letarghi delle linfe lungo le vene arboree.
Anche la luna sta in cielo, come i Santi, ma il suo è un andare indifferente, meccanico, dai cicli conosciuti e sempre uguali, per quante volte si è fatta tonda e chiara e altrettante volte abbuiata.
Chi può invece conoscere la logica celeste della Provvidenza, che governa il cielo, la terra e ogni luogo, che decide le immense cose dell’universo, dove astri, uomini, bestie e piante sono frammenti miserevoli, seppure tutti riconducibili alla percezione [ma forse “perfezione”] del Creatore di tutto?
Potenti ambasciatori delle umane aspettative, i Santi perpetuano nella eternità del Cielo la loro suprema virtù: il donare.
In vita hanno offerto alla cristianità i loro sacrifici e le mortificazioni corporali, talvolta anche la vita nel martirio, trasfigurando ogni sofferenza in carità. Dopo la morte questa principale loro virtù si espande nello Spirito, e l’ascolto si affina, cogliendo il sommesso mormorio di preghiera che sale da tane bocche giovani e anziane, bisognose di pace, do affetti, di risorse, per bisogni nuovi ed antichi come il mondo.
E a loro si chiede il lume che rischiara la via per avvicinarsi al Signore, fonte di ogni sollievo.
Si chiedeva e si chiede. Perché, se è cambiata la faccia dei paesi, e le stagioni dei campi, e i mestieri di una volta, e tutto è trasformato nel lavoro di fabbrica, indifferente al clima, alle albe e ai tramonti, la fede nei Santi continua, spesso ignota, segreta.
Il lavoro industriale ha cancellato i ritmi naturali e religiosi delle culture contadine. Oggi valgono scadenze burocratiche, un calendario svuotato di riferimenti devoti. L’universo della precisione tecnica ha confinato ogni altera unità di misura nei moti riposti dell’anima.
Pochi sanno ancora delle consuetudini d’un tempo in cui uomini e donne di devozione, avevano per orologio la corona del Rosario: “Il tempo di dire una corona… due corone…”. Con questo pio strumento misuravano un tratto di strada, la durata di un’attesa. E i capitelli dedicati a Maria, ad Antonio, a Rocco, ad Anna, raccoglievano gli sguardi imploranti dei viandanti ad ogni incrocio, tanti errano.
Poi, con la mutazione dei mestieri e dei costumi sono venute le Jessiche, i Christian, le Pamele e i Manuel. Nomi sconosciuti di santi inesistenti. Ma loro, i Patroni di sempre, non cessano per questo di effondere il bene. Dalle loro mani che frangono quello stesso pane essenziale ed eterno che non conosce mutamenti, scendono costanti briciole di consolazione per chi vuole riceverle nelle mani alzate nella preghiera…»

Certo, come osserva lo stesso Giorgio Mies, con l’avvento della modernità il culto dei Santi ha dovuto subire la concorrenza di una nuova categoria di intercessori laici: i tecnici e gli scienziati, ai quali l’uomo di oggi chiede salute e benessere e che ad essi si affida con abbandono pressoché totale, con un fideismo non certo inferiore - aggiungiamo noi - a quello che i nostri progenitori riservavano a San Giuseppe, San Rocco o Sant’Antonio da Padova.
Questa osservazione ci porta alle soglie della questione vera: il culto dei Santi non è stato sostituito dall’agnosticismo e dall’indifferentismo religioso, ma da una nuova forma di venerazione laica per gli esponenti del mondo della scienza, vale a dire, se si guarda dritto alla sostanza delle cose e si lasciano perdere i dettagli, da un neopaganesimo ateo e materialista.
Infatti, si tenga presente che nel culto dei Santi ci si rivolge a delle creature umane, affinché queste intercedano presso Dio; nel moderno culto della scienza e degli scienziati, ci si rivolge a un sapere divinizzati e ai suoi sacerdoti come se questi fossero dotati di poteri infallibili, taumaturgici e salvifici: e ciò anche in quei rami più recenti e discutibili della scienza occidentale, come la psicanalisi, ove la figura del terapeuta si sostituisce a quella del sacerdote e il suo lettino si sostituisce al sacramento della confessione. In altre parole, non si cerca più la salvezza dell’anima, ma il benessere ed una lunga vita qui ed ora
Non è in questione una supposta, inevitabile antinomia fra scienza e fede, antinomia della quale nulla sapevano e nulla sanno grandissime figure di scienziati e matematici, come Enrico Medi o Luigi Fantappié, che erano anche uomini di fede; bensì la Vulgata pseudo-scientifica che viene somministrata, giorno per giorno, dai mass-media e dalla cultura “ufficiale”, i quali, dopo decenni di opera martellante, sono riusciti ad instillare nella mente delle persone comuni, senza un’ombra di ragionamento, che o si crede in Dio, negli Angeli e nei Santi, oppure si crede nella Scienza con la S maiuscola e nelle sue applicazioni tecnologiche: visibili, queste ultime, tangibili, anzi altamente spettacolari, mentre le opere divine sono a dir poco ipotetiche e pare che vengano da Qualcuno che, se c’è, pare ben deciso a tenersi nascosto.
Questo è il punto: la tecnoscienza è efficace, produce risultati: manda satelliti artificiali su Marte e perfino oltre il Sistema solare, opera trapianti di organi, combatte la sterilità mediante l’inseminazione artificiale e sa clonare gli esseri viventi; la fede, non si sa quale efficacia possieda, e comunque non si tratta di un’efficacia sperimentabile o misurabile: e l’uomo moderno vuole vedere i risultati, vuol misurare l’efficacia pratica e immediata di una qualunque cosa, prima di giudicarla utile o necessaria per la propria vita.
Così, il culto dei Santi sta rapidamente perdendo terreno; anche molte persone che si dicono credenti ostentano un atteggiamento di sufficienza e quasi di compatimento verso tale manifestazione della religiosità popolare, che ad esse appare rozza e poco evoluta. È un bene, questo, per la nostra vita? Prima di rispondere, un po’ frettolosamente, che la risposta a questa domanda dipende esclusivamente dalla credenza nell’efficacia, o meno, della preghiera, si rifletta bene a cosa realmente è la preghiera: non un passe-partout vagamente superstizioso, ma il colloquio fiducioso fra l’uomo e l’Altra Dimensione, fondato sulla chiave di volta dell’Amore divino.
Tale colloquio, quando si traduce in segni esteriori, visibili, non solo individuali, ma comunitari, come nella devozione verso i Santi, riveste l’intera società di un manto di gentilezza, come un giardino fiorito in mezzo al traffico e al cemento d’una città indaffarata e rumorosa. Una nota gentile, che può passare quasi inosservata; ma, se un giorno viene a mancare, lo si sente, eccome…
di Francesco Lamendola - 14/09/2012

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 



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