ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 8 novembre 2012

L'impenetrabile

“Quando ci cacciarono dal Vaticano”. Il decano dei vaticanisti Benny Lai racconta la sua Sala Stampa. 


“Eravamo in via del Pellegrino, nei locali dell’Osservatore Romano. Ma poi arrivò Paolo VI. Venne a trovare noi giornalisti nei locali che fungevano da Sala Stampa. Fui io, come più anziano dei vaticanisti, a rivolgergli il saluto iniziale. E lui aveva questi occhi che si aprivano quando ti guardava, improvvisamente. Lui decise che c’era bisogno di uno spazio più grande. Ci spostò ai propilei, dove è tuttora la Sala Stampa. Paolo VI cacciò noi giornalisti dal Vaticano”. La prima tessera di accreditamento presso la Sala Stampa vaticana di Benny Lai risale al 1952 (è il permesso numero 63 rilasciato il 15 marzo del 1962), e ha la firma di Giovan Battista Montini, sostituto alla Segreteria di Stato. Allora si chiamava “Sala Stampa dell’Osservatore Romano”. Mentre la Sala Stampa vaticana festeggia i 50 anni, lui ne festeggia 60 come vaticanista. Ed è una memoria storica vivente.

 “La stanza per la stampa dell’Osservatore Romano esisteva già da prima della guerra. La gestiva monsignor Pucci, e c’erano solo tre corrispondenti, tra cui Guido Bartoloni e Giacomo Pucci, il nipote del monsignore. La chiamavamo la 'banda Pucci'. Dopo la guerra, mi ritrovo anche io a far parte di quella piccola schiera di giornalisti che si occupano di Vaticano. In realtà, io non ci pensavo nemmeno a fare il Vaticano. Mi occupavo di politica, di massoneria. Avevo avvicinato Raoul Palermi, il capo della massoneria italiana che era stato cacciato da Mussolini. E questo mi aveva permesso di fare molti articoli, di avere notorietà. Federico Alessandrini mi chiese se volevo occuparmi di Vaticano per la Gazzetta del Popolo. ‘E che roba è il Vaticano? – dissi – Io ora me ne vado a Panorama, questo nuovo settimanale che sta per essere pubblicato’. Volevo continuarmi a occupare di politica, ero iscritto all’Associazione della Stampa Parlamentare. Ma rompo con la Mondadori. E ho comunque bisogno di lavorare. Così vado da Alessandrini e gli dico: ‘Se vuole ancora fare vaticano, io ci sto’. Lui parla con la Segreteria di  Stato, e mi manda dal sostituto per l’accreditamento. Allora il sostituto della Segreteria di Stato non aveva tutti i compiti che ha oggi. Mi trovo così davanti a Montini. E lui mi guarda, mi ascolta e mentre mi ascolta apre quegli occhi. Aveva quegli occhi che si aprivano piano piano mentre tu gli parlavi. Poi mi firma l’accreditamento. E io mi ritrovo nella stretta cerchia dei primi vaticanisti”.
In quella stanza al primo piano di via del Pellegrino, oggi ci sono pezzi dell’Osservatore Romano. Di fronte, i giornalisti avevano un panificio. Ora, è il retro dell’Annona, il supermercato del Vaticano. È il 1952, e i vaticanisti – che non vengono ancora chiamati così – sono cinque: Giacomo Pucci si occupa dell’Associated Press, Guido Bartoloni scrive per l’Ansa e per l’Agi (cosa eccezionale, perché erano due agenzie concorrenti), e poi per France Press e una agenzia americana; e poi ci sono Silvio Negro e, appunto, Benny Lai.
“Ogni mattina entravamo in Vaticano, e andavano nel nostro ufficio di via del Pellegrino – racconta – non c’erano barriere, il nostro accreditamento ci permetteva di girare liberamente per tutto il territorio vaticano. Andavamo a trovare i nostri amici monsignori nelle loro case, nei loro uffici. A mezzogiorno in punto passava il conte (Dalla Torre, storico direttore dell’Osservatore Romano, ndr) che si affacciava dalla finestra per controllare l’ora sul grande orologio che avevamo nella stanza”.
Da dove prendevano le informazioni i giornalisti allora? “C’era l’Osservatore Romano, da cui prendevamo le notizie del Vaticano, i discorsi. D’altronde, l’ufficio stampa era proprio legato all’Osservatore Romano, anche per non implicare una responsabilità del Vaticano. E poi, potevamo presenziare alle udienze, raccoglievamo notizie. I pettegolezzi erano pochi, li usavamo soprattutto per il colore, ma neanche tanto. Quello che volevamo erano fatti. E venivamo pagati bene per le notizie. C’era voglia di capire il Vaticano, c’era uno spazio quasi fisso sui giornali”.
Poi arriva Giovanni XXIII. “Il Papa – ricorda Benny Lai – voleva girare il Vaticano, conoscerlo tutto. E quando passava il Papa noi venivamo chiusi a chiave dentro la nostra stanza, e riuscivamo a vedere il Papa dalla finestra, ma non potevamo uscire. Poi arriva il Concilio, i giornalisti accreditati diventano molti di più. L’Ufficio del Stampa dello Stato di Città del Vaticano diventa Ufficio del Servizio Stampa della Pontificia Commissione Centrale Preparatoria del Concilio Vaticano II. Cambia anche il modo di lavorare. Padre Roberto Tucci teneva ogni giorno una sorta di briefing, in cui riassumeva i temi che erano stati discussi nell’assise conciliare. Cominciavano ad arrivare nuovi vaticanisti, più giovani. Io definii il nostro lavoro come quello di vaticanisti – prima questo termine non esisteva -, e sostenni che eravamo degli inviati all’estero”.
La salute di Giovanni XXIII peggiora. “Luciano Casimirri, che gestiva l’ufficio stampa – ricorda Benny Lai – veniva continuamente ad aggiornarci delle condizioni di salute del Papa. Un bollettino medico continuo, che ci estenuava. Alla notizia della morte, ci siamo come liberati”. E arriva Paolo VI. “Non vedevo Paolo VI dai tempi in cui mi aveva firmato il primo accreditamento. Ci venne a trovare nell’ufficio informazioni. Poi, con la scusa che c’era bisogno di maggiore spazio, spostò la Sala Stampa alla fine di via della Conciliazione, fuori dalle Mura Vaticane. Il nostro permesso non ci permetteva più mobilità completa dentro il Vaticano. È cambiato il nostro modo di lavorare. I monsignori nostri amici ormai li vedevamo fuori, al bar. La verità è che Paolo VI ha voluto i giornalisti fuori dal Vaticano”.
Comincia a cambiare tutto il lavoro dei vaticanisti. “Dopo il Concilio – ricorda Benny Lai – si fece una vera e propria Sala Stampa della Santa Sede, direttore mons. Angelo Fausto Vallainc, che già dirigeva l'ufficio stampa del Concilio. Oltre alle informazioni generali, ognuno cercava di comprendere e raccontare come poteva il mondo della Chiesa, un mondo che stava cambiando. Io avevo accesso alle notizie più nascoste. Avevo incontrato per caso a Roma padre Damaso, il confessore del cardinal Giuseppe Siri. Questi mi presentò Siri. E Siri si apriva completamente con me”. Benny Lai si ferma, va al computer, fa sentire una registrazione. “Così parlava il cardinale con me”. E si sente la voce di Siri, nitida, netta, che spiega in maniera precisa come “c’è chi studia per diventare Papa. È una scuola che si fa da prima. Dipende dall’incarico, dalla fortuna di avere un incarico adeguato alle proprie capacità, dalla fedeltà che si dimostra nei confronti di quell’incarico”. “Avevo la fortuna – chiosa Benny Lai – di avere non solo Siri, ma anche altri confidenti che parlavamo così, in maniera netta, precisa. Io raccoglievo le loro parole, e poi raccontavo tutto negli articoli, senza tradire mai una fonte, un’amicizia, una frequentazione. Per questo le mie notizie erano precise, chiare. Ora il mestiere di vaticanista come lo facevo io non esiste più”.
Lo dice con una vena di malinconia, Benny Lai. Il quale poi fa segnare uno scarto netto alla comunicazione vaticana nel momento in cui Giovanni Paolo II viene eletto Papa. “Prima – racconta – avevo rapporti diretti con i segretari dei Papi. Sento ancora monsignor Capovilla, il segretario di Giovanni XXIII, che è mio amico. Ma con il segretario di Giovanni Paolo II, Stanislao Dziwisz, nessuno riusciva ad avere un rapporto, se non pochissime persone. Era cominciato un altro stile di comunicazione. Il Papa era aperto al mondo, si sapeva comunicare. Ma tutto quello che c’era intorno a lui era impenetrabile”.
Scritto da Andrea Gagliarducci   

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