ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 10 gennaio 2013

Un Campari con... Mons. Livi



Antonio Livi (Prato, 1938) è professore emerito di Filosofia nell'Università Lateranense, socio ordinario dell'Accademia di San Tommaso e presidente dell'ISCA (International Science and Commonsense Association). Formatosi alla scuola di Étienne Gilson, ne ha portato avanti le ricerche gnoseologiche, in rapporto prima alle condizioni di possibilità di una “filosofia cristiana”, poi alla giustificazione del realismo metafisico.


Prof. Livi, iniziamo subito da una domanda tanto impegnativa quanto urgente: che cosa è stato realmente il Concilio Vaticano II e cosa rappresenta oggi per la Chiesa?

Per i cattolici (gli unici che abbiano vero e sincero interesse per un evento ecclesiale come un concilio ecumenico) il Vaticano II è stato un atto solenne del magistero ecclesiastico. I vescovi di tutto il mondo, riuniti a Roma nel 1962 su invito del papa Giovanni XXIII, hanno voluto fornire alla Chiesa dei documenti dottrinali e delle norme liturgiche e disciplinari che servissero al rinnovamento della catechesi e al potenziamento dell’evangelizzazione in tutto il mondo. Come volle subito chiarire Giovanni XXIII, lo scopo di questo concilio, a differenza di quelli che lo avevano preceduto (nel Cinquecento, il Concilio di Trento, e nell'Ottocento il Vaticano I), non era di formulare nuove dottrine (nuovi dogmi) e tanto meno di abolire i dogmi precedentemente formulati dalla Chiesa, ma di “aggiornare” la pastorale. Ciò ha determinato il carattere dei documenti elaborati dal Vaticano II, sia quando era ancora in vita Giovanni XXIII sia quando gli succedette Paolo VI. Il carattere dei documenti elaborati dal Vaticano II è denominato “pastorale”, nel senso che in essi non c’è alcuna variazione nella dottrina tradizionale della Chiesa ma solo lo sviluppo omogeneo di tale dottrina dal punto di vista delle espressioni linguistiche e delle applicazioni storiche, sia sul piano della liturgia e della catechesi che sul piano della disciplina ecclesiastica. Siffatto carattere “pastorale”, nel senso che ho precisato, è stato poi coerentemente e costantemente riaffermato dai papi che hanno governato la Chiesa dopo che il Concilio ebbe termine (1965) e Paolo VI morì (1978), ossia Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Quest’ultimo ha poi precisato, in termini teologici, come debbano essere interpretati documenti elaborati dal Vaticano II: essi vanno intesi come espressione di una «riforma nella continuità», mai come una rottura con la Tradizione. Purtroppo, mentre il Concilio stesso e i papi che si sono poi succeduti sulla Cattedra di Pietro hanno chiarito sufficientemente che cosa debbano recepire i fedeli cattolici dai documenti del Vaticano II, alcuni teologi e molti osservatori esterni alla Chiesa (i cosiddetti “laici”, che in realtà sono semplicemente degli atei) hanno immesso nell'opinione pubblica, anche cattolica, la falsa idea che il concilio Vaticano II fosse una rivoluzione dottrinale operata, appunto, dall'ala progressista degli intellettuali, espressione di una fantomatica “Chiesa dal basso” che avrebbe abbattuto il potere oppressivo della gerarchia ecclesiastica, descritta come conservatrice e anti-democratica. Insomma, un evento pastorale della Chiesa – che, come tale, interessa solo i fedeli e solo da essi deve essere recepito come normativo ­– viene a essere presentato come la vittoria di una fazione ideologico-politica all'interno di un’assemblea di teologi cui spetterebbe il compito di decidere quale sia la fede della Chiesa.

Nel suo ultimo libro, Vera e falsa teologia (Casa Editrice Leonardo da Vinci, 2012), Lei ci aiuta a distinguere l'autentica “scienza della fede” da un'equivoca “filosofia religiosa”. Quali sono le principali manipolazioni che si riscontrano in ambito dogmatico e morale?

Nel libro accenno all'uso scriteriato in teologia di sistemi filosofici incompatibili con la logica della fede. Si tratta dell’immanentismo, sia nella sua forma razionalistica (Hegel) che in quella estetizzante (Schelling), irrazionalistica (Kierkegaard, Gadamer) o fenomenologica (Husserl, Heidegger). Dico “uso scriteriato” perché il criterio fondamentale per l’uso di categorie filosofiche in teologia non può che essere quello indicato dalla Chiesa nell'epoca moderna e contemporanea (dalla costituzione dogmatica Dei Filius del concilio Vaticano I all'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II), ossia il rispetto della specifica natura epistemica del dogma, nel quale i misteri soprannaturali sono espressi in termini razionali, essenzialmente realistici. Ciò significa che solo le categorie filosofiche improntate alla metafisica realistica sono idonee a servire da strumento concettuale di una vera e propria “scienza della fede” quale deve essere la teologia cattolica, che altrimenti si perde in discorsi che direi senza capo né coda (dove il “capo” rappresenta il dogma, e la “coda” la finalità pastorale che è propria della teologia cattolica). Infatti, la missione ecclesiale della teologia – che consiste nella trasmissione della fede cattolica attraverso l’approfondimento del dogma e le proposte di deduzioni speculative e di applicazioni storico-pragmatiche - fallisce completamente quando le categorie filosofiche utilizzate nel lavoro teologico stravolgono il contenuto aletico e il valore salvifico del dogma stesso, così come vengono percepiti da tutti i credenti sulla base delle certezze del senso comune. Casi emblematici (nel mio trattato illustro analiticamente) sono, in teologia dogmatica, la proliferazione di discorsi di stampo razionalistico (hegeliano e schellighiano) che riducono il mistero soprannaturale della Trinità e dell’Incarnazione del Verbo a teorie panlogistiche; in teologia morale, la proliferazione di discorsi di stampo ideologico (marxistico) che riducono la prassi cristiana all'impegno politico-sociale, in un orizzonte temporale dove il Regno di Dio è la realizzazione di una società perfetta ad opera dell’uomo e del suo progresso civile.

Compito della teologia non è solo di ripetere, con lo scopo di adattarlo, tutto quello che è stato detto nel passato, ma innanzitutto riflettere (specialmente in tempi di crisi), risalire ai principi a partire dai fatti, e illuminare questi con quelli. Quali sono, a suo avviso, le maggiori sfide per un teologo contemporaneo?

Prima di rispondere, e per meglio rispondere, permettetemi di tornare a ribadire che il compito della teologia non è quello che avete descritto. Se per teologia bisogna intendere la “scienza della fede”, essa si distingue da tutte le altre forme di riflessione sulla verità rivelata, come l’ascetica e la mistica, la pastorale e il diritto canonico, la psicologia e la sociologia religiosa: varie forme di riflessione sulla verità rivelata con le quali si intende, come voi giustamente dite, «risalire ai principi a partire dai fatti, e illuminare questi con quelli», ossia si intende sostanzialmente “vivere”, cioè mettere in pratica, il Vangelo. Ma questo è un compito che spetta primariamente al Magistero (e infatti ho detto che proprio questo fu lo scopo del Vaticano II), al quale spetta poi di convalidare il lavoro svolto in questa direzione da altre “agenzie” ecclesiali, ossia dai “privati”, come quando la Chiesa conferma con la sua approvazione la validità dei diversi “carismi” che contraddistinguono del diverse spiritualità o cammini di santità e di apostolato. Ma, così come la spiritualità francescana o domenicana, approvata dalla Chiesa nel Medioevo, non invalida la spiritualità benedettina o quella agostiniana, che già dal quinto secolo avevano dato tanti frutti di santità e di apostolato, così ogni altra interpretazione del Vangelo ha carattere ipotetico, è relativa ai tempi e ai luoghi, può essere giudicata conveniente o necessaria da qualcuno e invece sconveniente o controproducente da altri, pur nell'unità della fede e della spirito apostolico. Ora, la teologia è parimenti un’ipotesi di interpretazione del Vangelo (nel suo nucleo di “fede divina e cattolica”, che è il dogma), ma a differenza delle altre forme di interpretazione, non riguarda direttamente la vita di fede, la contingenza storica, la metodologia apostolica (nella testimonianza della carità, nell’opera missionaria, nel governo ecclesiastico, nei rapporti con le altre religioni eccetera), ma riguarda propriamente ed essenzialmente la verità della fede: non tanto l’ortoprassi quanto l’ortodossia. Le forme di teologia che, in questo senso, non rispettano lo statuto epistemologico proprio della “scienza della fede” degenerano in espressioni di vero e proprio assolutismo ideologico: sto pensando alla cosiddetta “teologia della liberazione” e in generale alla “teologia politica”, alla “teologia al femminile” e alle alte forme di teologia dialettica secolarizzata alle quali mi sono riferito prima.
In una lettera a Romano Amerio, Augusto Del Noce scrive: “A me pare che quella restaurazione cattolica di cui il mondo ha bisogno abbia come problema filosofico ultimo quello dell'ordine delle essenze”. Cosa può dirci in merito, anche alla luce dei suoi studi sul senso comune e la logica aletica?

L’ordine delle essenze è l’ordine metafisico che, per quanto riguarda la natura delle cose, richiede l’intuizione della Trascendenza. L’esistenza evidente delle cose (la cui essenza è il limite e la contingenza) rimanda all'esistenza (necessaria, non ipotetica) del loro Fondamento, che è il Creatore. L’intelletto umano, già al livello delle certezze del senso comune, percepisce la differenza ontologica fondamentale, quella che distingue la natura da Dio, l’immanenza dalla Trascendenza. Di qui, in teologia, la necessaria distinzione tra l’ordine naturale dall'ordine soprannaturale. Se la reale consistenza ontologica di tutte le realtà dell’esperienza – le quali sono intrinsecamene ordinate a Dio come loro primo Principio e ultimo Fine – non viene tenuta nella debita considerazione, ecco che si smarrisce quella recta ratio che serve alla teologia per conservare e trasmettere integralmente il significato salvifico della verità rivelata. Lo faceva notare accoratamente il papa Giovanni Paolo II nella Fides et ratio (1998) quando chiedeva ai teologi di utilizzare la metafisica realistica sull’esempio di Tommaso d’Aquino; più recentemente, lo hanno fatto notare i padri sinodali al termine del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, quando hanno consegnato al papa le proposte per il documento post-sinodale, e tra queste proposte, al numero 17, hanno scritto che i teologi debbono oggi tornare a mettere in risalto l’importanza dei praeambula fidei e della legge morale naturale: due nozioni filosofiche che riguardano appunto l’ordine delle essenze.

Simone Weil, nella Lettera a un religioso, osserva: “La concezione tomistica della fede implica un “totalitarismo” altrettanto soffocante e forse più di quello di Hitler. Giacché se la mente aderisce completamente, non soltanto a tutto ciò che la Chiesa ha riconosciuto appartenente alla fede più rigorosa ma anche a tutto ciò che non riconoscerà mai come tale, l'intelligenza deve essere imbavagliata e ridotta a compiere mansioni servili”. Come rispondere ad un'obiezione di questo tipo?

E un’obiezione priva di senso, soprattutto nell'epoca in cui la filosofia ebrea scriveva queste prole. Forse non conosceva un’altra filosofia ebrea, poi divenuta cattolica, quale fu Edith Stein. Non conosceva, in Gran Bretagna, intellettuali cattolici come Chesterton ed Eliot. Certamente la povera Simone Weil conosceva troppo pochi tomisti per comprendere che cosa fosse davvero il tomismo dei suoi tempi. Ai suoi tempi c’erano tomisti di grande spessore intellettuale e anche spirituale, come il domenicano Réginald Garrigou-Lagrange, il quale polemizzò con i teologi modernisti e con i seguaci di Bergson ma senza atteggiarsi a espressione dell’unica dottrina possibile in seno alla Chiesa cattolica. Altri tomisti laici, come Jacques Maritain ed Etienne Gilson erano su posizioni molto affini a quelle della Weil. La Scuola di Lovanio era convinta di poter adottare, in un quadro dottrinale tomistico, il trascedentalismo kantiano. I religiosi non tomisti, come tanti di scuola scotista (francescani) o suareziana (gesuiti), e i laici come Maurice Blondel o Gustavo Bontadini non si sentivano oppressi da imposizioni dottrinali che limitassero la loro indipendenza di pensiero su temi di libera discussione, cioè su temi che non mettevano in discussione il dogma.

Nel ringraziarLa per il tempo concessoci, Le chiediamo un consiglio per quei giovani desiderosi d'intraprendere gli studi filosofici: come districarsi tra le false “filosofie” spesso così rovinose nelle loro conseguenze pratiche e morali?

Il consiglio che posso dare è di fare come ho fatto io, che ho cominciato a studiare la filosofia alla Sapienza di Roma, avendo lì solo professori di ispirazione liberal-massonica o marxisti, ma avendo allo stesso tempo tale amore appassionato per la sapienza (che non esclude, anzi implica la verità della religione e della prassi politica) da fare più l’autodidatta che il semplice alunno. L’autodidatta legge quello che gli sembra diverso o migliore rispetto a quello che gli insegnano dalle cattedre universitarie; l’autodidatta cerca la dialettica delle idee, il confronto critico; l’autodidatta pratica quella che Romano Guardini chiama l'autoformazione, e l'autoformazione consiste nel domandarsi sempre quale sia la “giustificazione epistemica” di ogni asserto, su quali principi si basa (se si basa su qualche principio) un’affermazione o una negazione in rapporto all'esistenza di Dio, alla natura dell’uomo, all'etica nella vita personale e nei rapporti sociali. Molto prima di teorizzare, nella mia logica aletica, la “giustificazione epistemica”, io avevo intuito che l’unico modo di districarmi tra tante voci discordanti che reclamavano il mio assenso era restare ancorato alle certezze inequivocabili del senso comune, e giudicare da lì quanto potessero essere accettabili le varie proposte di interpretazione della realtà. Mi accorsi molto presto che l’Università mi propinava tante teorie infondate, con una sola giustificazione, quella sociologico-storicistica, nel senso che ciascuna di esse aveva un’autorità pubblicamente riconosciuta (nel mondo accademico, s’intende) e quindi bisognava “crederci”. Bisognava partire da Kant, bisognava tener conto di Hegel, bisognava accettare la scuola dei “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche e Freud)… Io invece avevo letto Tommaso d’Aquino il quale scrive che «argumentum ex auctoritate infirmissum est». Poi, tanti anni dopo, ho rinfacciato a Gianni Vattimo, in un’altra università, che quel modo di fare filosofia è puro e semplice fideismo; Vattimo, invece di offendersi, accettò di buon grado la mia definizione, visto che sostiene le sue teorie ermeneutiche (il “pensiero debole”) esclusivamente sulla base dell’autorità di Nietzsche di Heidegger.
a cura di Giovanni Covino e Marco Massignan

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