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lunedì 25 febbraio 2013

Crisi di fede, ci vuole una reazione


Crisi di fede, ci vuole una reazioneGiuliano Ferrara ha certamente ragione quando, sul Foglio del 22 febbraio, denuncia la strategia della calunnia di cui si fanno strumento in questi giorni i mass-media. La tesi ormai dominante è che Benedetto XVI si è “arreso” davanti a una curia corrotta e ingovernabile, ma ciò che si insinua è che la morbosità sessuale, il crimine e l’intrigo facciano parte della natura stessa della chiesa romana.                                                Questa offensiva mediatica dovrebbe togliere ogni illusione a chi ancora crede nella possibilità di conciliare la chiesa con i “poteri forti” laicisti che oggi tentano di schiacciarla. La reazione cattolica dovrebbe essere virile e combattiva e partire dall’ammissione dell’esistenza di una crisi di fede di cui l’innegabile decadenza morale degli ambienti ecclesiastici è, insieme, causa e conseguenza. L’espressione più recente di tale crisi dottrinale è l’assenso dato dalla Conferenza episcopale tedesca alla cosiddetta “pillola del giorno dopo”, in casi estremi come lo stupro.

Questa dichiarazione sembra rappresentare la simbolica rivincita dell’episcopato centroeuropeo sull’Humanae Vitae del 25 luglio 1968. L’enciclica di Paolo VI, che condannava categoricamente la contraccezione, fu apertamente contestata da un gruppo di vescovi “renani”, gli stessi che avevano applaudito il cardinale Suenens, quando nell’aula del Concilio Vaticano II, il 29 ottobre 1964, egli aveva rivendicato il controllo delle nascite, pronunciando con tono veemente, le parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”.
Oggi i vescovi tedeschi rialzano con clamore una bandiera mai ammainata. L’ombra del Vaticano II avvolge del resto l’atto di rinuncia di Benedetto XVI, avvenuto
proprio mentre sono in corso le celebrazioni del suo cinquantesimo anniversario. Non a caso, l’ultimo discorso, programmatico e retrospettivo del Papa al clero di Roma, lo scorso 14 febbraio, ha colto le origini della crisi religiosa nel “Concilio virtuale” che al Vaticano II si sarebbe sovrapposto. Il Concilio dei mezzi di comunicazione, secondo Benedetto XVI, “era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite
i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri, un Concilio” – ha aggiunto – “accessibile a tutti”, “dominante, più efficiente” causa di “tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari
chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata… e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale”.
Nell’èra della comunicazione sociale, in cui è vero ciò che è comunicato, il Concilio virtuale non fu però meno reale di quello che si svolgeva all’interno della basilica di San Pietro, tanto più che il Vaticano II volle essere un Concilio pastorale, che affidava il suo messaggio ai nuovi strumenti espressivi. Oggi più di allora i mass media sono in grado non solo di rappresentare la realtà, ma di determinarla grazie al potere e alla forza di suggestione che possiedono.
Lo stesso Benedetto XVI ne ha ripetutamente parlato, sottolineando il loro potere di manipolazione. Un gesto storico, come il suo atto di rinuncia al pontificato,
è inevitabilmente destinato a essere anche un evento mediatico. E quale altra immagine può trasmettere se non quella di un uomo e di una istituzione privi della forza per combattere il male che avanza? Come meravigliarsi dell’uso della parola “resa”?
Di fronte a questa evidenza, i migliori cattolici non ammettono che la ragione ultima e vera della rinuncia sia quella esposta dal Papa con queste ormai celebri parole: “Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me
affidato”.
Per difendere il gesto “umile e coraggioso” di Benedetto XVI, ci si affanna a ricercarne le recondite intenzioni, rinunciando a esaminare quelle che possono essere le oggettive conseguenze. Secondo alcuni il Papa ha voluto invitarci a distogliere il nostro sguardo miope dalla temporalità del potere; altri hanno pensato che il gesto sarebbe stata la “merce di scambio” per qualche ultimo clamoroso atto del pontificato, come la riconciliazione con la Fraternità San Pio X. C’è perfino chi ha parlato di “ritirata strategica”, per aiutare il nuovo Papa a organizzare il “dopo Ratzinger”. Tranne qualche lodevole eccezione, come quella dell’arcivescovo di Digione, Roland Minnerath, che ha sottolineato l’importanza delle potenziali “conseguenze collaterali” della decisione,
pochi tra i cattolici ammettono che possa trattarsi di un gesto destinato a indebolire il Papato, quasi che a portare nocumento al Papato sia l’oggettiva constatazione del fatto, e delle sue conseguenze, e non il fatto stesso.
Il Papato in se stesso naturalmente non è toccato. Il Sommo Pontefice, che non può essere deposto da nessuno, nemmeno da un Concilio, ha il pieno diritto di rinunciare alla sua missione. Quando abdica egli esercita un atto sovrano che in nulla scalfisce il suo supremo potere di giurisdizione. Il Papa resta, ontologicamente, l’unico supremo legislatore della chiesa universale. Si tratta di un dogma di fede. I canoni 331 e 333 del nuovo codice di diritto canonico, definiscono l’autorità del Pontefice romano come un potere di governo supremo, perché nessuna autorità è a lui uguale e nessuno può giudicarlo; plenario, perché, nelle cose di fede e di morale, è un potere illimitato in estensione ed intensità; universale, perché è esteso su tutti e singoli vescovi e su tutti e singoli i fedeli; immediato, perché il Papa può esercitare il suo diritto di intervento diretto in qualsiasi momento, in ogni campo, su qualsiasi persona.
A questo supremo potere di governo, si aggiunge quello di magistero, che comporta a determinate condizioni, il carisma dell’infallibilità. Benedetto XVI, pur godendo di tutti questi poteri, non ha ritenuto opportuno esercitarli nella sua pienezza. Con atto libero e consapevole, ha rinunciato a esercitare non solo il potere di infallibilità del suo Magistero, ma anche il supremo potere di governo, fino al punto di rimettere a Cristo e alla chiesa il munus che il 19 aprile 2005 aveva accettato. Il suo pontificato è ora consegnato alla storia.
Possiamo aggiungere che se il successore di Benedetto XVI vorrà applicare un programma “ratzingeriano”, che vada dalla difesa dei princìpi non negoziabili all ’ i mplementazione del motu proprio Summorum Pontificum, dovrà farlo con quelle forze fisiche e morali, ovvero con quell’energia, di cui Benedetto XVI l’11 febbraio 2013, si è pubblicamente confessato incapace. Ma come pensare che la realizzazione di questo programma non provochi ancor più violenti attacchi alla chiesa da parte delle lobby secolariste?
Se poi il nuovo eletto capovolgerà la linea di governo ratzingeriana, per avventurarsi nella sabbie mobili dell’eterodossia, nell’illusione di addomesticare il mondo, come immaginare che ciò non provochi una reazione dei difensori della Tradizione? Le parole persecuzione, scisma ed eresia hanno accompagnato la chiesa in duemila anni di storia. Se qualcuno oggi non ne vuol sentir parlare, è perché ha rinunziato a combattere. Ma la guerra purtroppo è in atto.
Roberto de Mattei

(di Roberto de Mattei su Il Foglio del 23-02-2013) 


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