ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 27 febbraio 2013

Missione compiuta?


Un modello di papato in affanno spiega il gran gesto della rinuncia

Con la decisione epocale di dimettersi da papa i128 febbraio 2013, Benedetto XVI ha chiuso non solo la parabola del suo pontificato ma una stagione plurisecolare.
E ha permesso di comprendere in
modo traumatico un fenomeno che si intuiva oscuramente, senza riuscire a metterlo a fuoco perché considerato troppo inverosimile: il Vaticano è stato spinto quasi a forza dalla parte opposta di un
simbolico confessionale. La Chiesa, «maestra di vita» per antonomasia, è stata costretta dalla propria crisi di identità nella posizione scomoda, e per molti versi inedita, di chi deve spiegare e confessare i propri «peccati»; giustificarsi; farsi accettare; e convincere l'opinione pubblica che si sta ravvedendo, che è pentita, che cambierà modo di agire.
Si tratti dello scandalo della pedofilia, della trasparenza delle finanze della Santa Sede, delle tasse sugli immobili della Chiesa o degli intrecci con una Seconda Repubblica italiana nella fase finale della sua parabola, il Vaticano sembra condannato a sedere sul banco degli accusati. A volte si ha perfino l'impressione che sia diventato una sorta di «imputato globale», messo sotto accusa dalla
cultura occidentale. E come se gli si rimproverasse di non essere più lo stesso, di avere tolto la bussola
morale a milioni di cittadini europei. Anche se non è chiaro fino a che punto sia stato lo stesso
Occidente a perdere le coordinate etiche. Ma è difficile sottrarsi all'impressione che la Chiesa viva una
fase declinante; che la sua proiezione mondiale debba fare i conti con la consapevolezza di essere
diventata una minoranza circondata dalla diffidenza o dall'indifferenza. Si tratta di un «impero» che
può essere spinto dalle difficoltà a chiudersi in se stesso in modo orgoglioso ma perdente, di fatto
favorendo la propria emarginazione; oppure indotto ad aprirsi in positivo a quella che viene chiamata
modernità, sfidando la condizione scomoda di chi si vede contestare il primato morale.
Per ironia della sorte, ormai la Chiesa viene messa all'indice perfino quando è vittima e non
responsabile di quello che accade: vittima anche nel senso più letterale del termine, al confine fra vita e
morte. Quando si scorrono le cronache sulle stragi di cristiani in alcuni Paesi islamici e in Africa, è
difficile non parlare di persecuzione. Eppure, dopo le ambigue primavere arabe, le minoranze religiose
legate al Vaticano sono additate come colpevoli per essere state alleate dei dittatori laici travolti dalle
rivolte scoppiate nel Maghreb e in Egitto negli ultimi due anni: dal libico Gheddafi all'egiziano Mubarak.
La Chiesa è messa dalla parte dei «perdenti», ma non nel senso nobile del termine. È accusata dalle
nuove élite islamiche di essere stata complice di regimi autoritari, sebbene la ragione fosse quella della
pura sopravvivenza. La protezione da parte di tali dittature, pagata peraltro a caro prezzo in termini di
libertà, salvava le piccole comunità cristiane dal pericolo di essere sterminate e costrette ad andarsene.
Come sta accadendo adesso.
Ma il caso più eclatante di un Vaticano vittima che alla fine si ritrova comunque nei panni dell'imputato è
quello dei processi per la fuga di notizie riservate, che ha coinvolto addirittura l'Appartamento: parola alla
quale la maiuscola fa assumere il significato di qualcosa di sacrale e inviolabile, perché si tratta
dell'abitazione e degli uffici del papa. È stata una vicenda triste, dolorosa e traumatica per Benedetto
XVI. E sconvolgente per chi è abituato a pensare alla Chiesa come a una «società perfetta» almeno nelle
sue stanze più alte, dotata di una superiorità morale, di un'unità e di un'armonia che mancano altrove e che
sono una delle principali fonti della sua legittimazione. Anche in quel caso, il fatto che l'imputato fosse il
maggiordomo storico di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, ha gettato sull'intera vicenda una luce surreale.
Alla sbarra è andato lui. Eppure, il suo arresto è stato quello virtuale di una cerchia di solidarietà e di
abitudini, di silenzi e di imperdonabili leggerezze. Sia perché alla fine lo scandalo è stato circoscritto in
modo tale da fare apparire il maggiordomo insieme colpevole e capro espiatorio; sia perché non ci si è
potuti non chiedere che tipo di ambiente umano lo abbia spinto a comportarsi in quel modo criminale.
Sorprende il fatto che per anni abbia potuto agire indisturbato, senza che l'intelligence vaticana abbia
mai sospettato nulla. Le voci contraddittorie su un perdono papale al suo maggiordomo «Paoletto» dopo la
condanna, prima dato per scontato, poi rimandato fino a pochi giorni prima del Natale 2012, hanno aggiunto confusione e sospetti sul processo. Soprattutto, al fondo è rimasta una sensazione sgradevole. E
cioè che dentro le Sacre Mura abbiano trovato un habitat ideale i cosiddetti «Corvi»: personaggi
spregevoli che in certi tribunali malati di faide e intrighi fanno uscire in modo anonimo notizie riservate e
diffamanti, e che in Vaticano hanno agito per danneggiare l'uno o l'altro cardinale e perfino Benedetto
XVI. Quei palazzi che incutono rispetto e timore sono diventati in modo imprevedibile e sconcertante il
nido dei Corvi. Li hanno cresciuti e moltiplicati, senza che nessuno sia riuscito a vedere o abbia voluto
capire dove nascessero e perché. È il paradosso di una Chiesa che ha per ragione sociale il primato morale,
la difesa del significato più autentico dei valori della vita, l'insegnamento della fede. E invece mostra
discordia, standard etici e comportamenti non solo discutibili ma contraddittori rispetto ai valori che
promuove; e dunque rivela un divario sconcertante fra ciò che predica e quello che fa.
Dopo il tramonto di «un» Vaticano, quello plasmato dalla guerra fredda, stiamo assistendo alle
conseguenze di questo declino. È finito il monopolio del giudizio su ciò che è bene e male per
l'Occidente. Dal Paradiso virtuale, il Vaticano è passato a rappresentare il Purgatorio di una lunga
espiazione della quale non si vede ancora la fine. Ed è diventato più evidente che la crisi è soprattutto
quella di un sistema di governo inadeguato ai nuovi tempi. Il cuore del paradosso infatti pulsa a Roma, la
Roma pontificia. È dalla capitale del cattolicesimo che si propagano onde di incertezza e
disorientamento. Ed è questo che fa più paura e preoccupa: storicamente, le grandi crisi degli imperi
e delle istituzioni si rivelano e si consumano quando partono dal centro, e non dalla periferia. Ma
l'affanno all'interno del «suo» Occidente non dilata solo l'immagine del declino vaticano: riflette la crisi di
identità del Vecchio Continente che combatte una sorta di guerra civile fra cristianesimo e indifferenza, fra
valori religiosi e individualismo, senza riuscire a trovare un punto di compromesso.
La conseguenza è una rapida evoluzione verso un «mondo post-occidentale», come l'ha definito il
Rapporto sui trend mondiali di qui al 2030 del National Intelligence Council. Il declino dell'impero
vaticano accompagna quello degli Usa e di un'Unione Europea in crisi economica e demografica.
Mostra un modello di papato e di governo ecclesiastico centralizzato, sfidati da una realtà
inesorabilmente frammentata e decentrata; dominata da attori non statali e da religioni «fai da te», e da
coordinate culturali che la classe dirigente vaticana fatica a elaborare e utilizzare.
D'altronde, la dicotomia Vaticano-Chiesa mai come adesso, forse, è vistosa e in qualche misura
positiva. Altrove la Chiesa cattolica è viva e vitale: perfino in alcuni Paesi di un Occidente che tende a
osservarla come un retaggio del passato, e che sembra deciso a sottrarle a uno a uno i vecchi privilegi.
Negli Stati Uniti, in America Latina, e soprattutto nell'Africa che non teme il martirio, il
cattolicesimo appare consolidato, comunque meno fragile. Ma dentro la Città del Vaticano si sta
consumando la fine di un modello di governo e di una concezione del papato; e la decadenza di
una nomenklatura ecclesiastica che rischia di passare alla storia con un carico di responsabilità
esagerato rispetto  a quelle che realmente ha a livello individuale. Il «papa teologo» ha denunciato di
volta in volta quello che non andava, dipingendo affreschi inquietanti della realtà all'interno delle
Sacre Mura. Ha analizzato il male, cercato i rimedi. Ma si è sempre avuta l'impressione che mancasse
qualcosa, perché gli aggiustamenti, per quanto radicali, non mettevano in discussione il sistema.
Tentavano di risolvere il problema che di volta in volta esplodeva, ma non lo anticipavano, non
riuscivano a prevederlo: insomma, non cambiavano un terreno di gioco che invece nel mondo era
stato già sconvolto. È significativo che in alcuni ambienti ostili si tenda a raffigurare il Vaticano
come un «secondo Cremlino»: non quello trionfale e controverso del nuovo zar dei petrorubli
Vladimir Putin, ma il Cremlino dell'Unione Sovietica, crollato con la sua classe dirigente insieme
al comunismo. Dopo il simbolo del potere sovietico, predicono i nemici del Vaticano, cadrà anche il
baluardo morale dell'anticomunismo. Pur avendo vinto la guerra fredda, il Vaticano sarà sconfitto
nel prossimo futuro, perché è venuto a mancare il suo storico avversario. È questa la tesi radicale, e
a dir poco discutibile, che aleggia soprattutto in alcuni circoli del nord Europa: gli stessi che
vagheggiano un'alleanza virtuosa delle nazioni protestanti e finanziariamente affidabili, contro il
«lassismo» fiscale e impunito dei Paesi cattolici del Mediterraneo, a cui si aggiunge il sovraccarico
della Grecia ortodossa.
Anche la crisi economica è rimbalzata addosso alla Chiesa cattolica in modo paradossale. Nata nel
2008 nelle stanze più potenti e segrete di Wall Street, la strada della Borsa di New York, e delle sue banched'affari, si è propagata in Europa come un'epidemia provocata da un virus difficile da individuare. Ma,
invece di spingere ad analizzarne le origini, ha finito per risvegliare vecchi fantasmi del passato europeo,
facendo riemergere le rughe e i veleni delle guerre di religione. Ha messo a forza sul banco degli
imputati, inginocchiati come peccatori incalliti, la cultura e i popoli a maggioranza cattolica; e, sotto
sotto, una Chiesa che assolvendo troppo facilmente si assolve troppo e che dunque si sarebbe
«italianizzata» nel modo peggiore: al punto da evocare il concetto di «spread morale» su un ideale
mercato della fede, che si intreccia allo «spread» dei titoli di Stato italiani sovrastati dalla «bontà»
finanziaria di quelli tedeschi. Paradosso nel paradosso, questo è avvenuto mentre sul soglio di Pietro
sedeva un Papa tedesco bavarese che rifletteva nella sua persona tutta la ricchezza e le complessità
dell'identità europea. L'ultimo atto d'accusa, l'alleanza che negli ultimi quindici anni la Chiesa italiana e il
Vaticano hanno di fatto siglato con il centrodestra berlusconiano, lascia un segno a dir poco controverso sui
rapporti fra Stato e Chiesa e sul cattolicesimo politico, che riemerge residuale e confuso. La stessa
esigenza di una «nuova classe di politici cattolici», per quanto rilanciata in continuazione, si sta
rilevando velleitaria, smentita com'è da una realtà di protagonismi e invidie. Sembra sottovalutare il
problema altrettanto acuto di una nomenklatura ecclesiastica all'altezza dei tempi nella lettura della
società italiana. In fondo, il passo indietro del Papa si può interpretare anche come ammissione di una

inadeguatezza collettiva.

di Massimo Franco
in “Corriere della Sera” del 27 febbraio 2013
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201302/130227franco.pdf


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