ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 22 marzo 2013

Accuse di eresia


Di fronte alle accuse di eresia non ci lasceremo intimorire
Noi, chi?  Tutti coloro, oso affermare, sacerdoti e laici, che hanno aderito idealmente o per iscritto alle ben note S u p p l i c h e  presentate da studiosi qualificati, italiani e stranieri, in questi ultimi tre anni a Benedetto XVI implorandolo di voler autorizzare l’apertura di una pubblica discussione sui contenuti del Concilio Vaticano II.  Prima di abdicare, Benedetto XVI ha riaffermato la sua fede nella assoluta conformità delle dottrine del Concilio alla Tradizione della Chiesa.  Nell’ultimo suo incontro con i sacerdoti del Clero romano egli è giunto a dire – parlando all’impronta in un clima di forte commozione collettiva – che le cattive interpretazioni del Concilio erano da imputarsi soprattutto ai media, all’immagine deformata che essi ne avevano data. 
 Ieri come oggi il compito dell’interprete sarebbe pertanto unicamente quello di riscoprire il vero Vaticano II, il suo autentico spirito originario, vissuto dal giovane Ratzinger in prima persona, per farlo rivivere nella Chiesa. 
[Un dogma ermeneutico trasformato assurdamente in dogma di fede] Nel ribadire quest’impostazione, di fatto ufficiale da quasi cinquant’anni, il Papa non si contraddiceva rispetto alle critiche da lui stesso recentemente rivolte alla costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo e alla dichiarazione Nostra Aetate sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane?  E non si trattava di critiche tanto marginali.  Secondo il Papa,  quella costituzione non ci avrebbe dato un concetto valido di modernità mentre laNostra Aetate avrebbe del tutto trascurato le componenti deviate delle religioni non cristiane, dandone ai fedeli  un’immagine edulcorata ed in sostanza falsa.  Come che sia, possiamo dire che alla fine Papa Ratzinger abbia cercato di imporre (spiritualmente) l’esistenza dell’ortodossia del Vaticano II nella forma di un vero e proprio dogma ermeneutico : il Concilio dovrebbe esser sempre interpretato intendendone le novità come se fossero a priori sempre in armonia con la dottrina precedente (ermeneutica della continuità).  Invece Mons. Müller, ultimo Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha trasformato il “dogma ermeneutico” in dogma di fede, quando ha inopinatamente affermato che chi critica il Vaticano II è per ciò stesso un eretico.    E r e t i c o , dunque, non perché si serva di accertate eresie per criticare i testi del Concilio o perché scivoli nell’eresia, magari inconsapevolmente, nel corso della critica stessa;  eretico per il solo fatto di esercitare una critica, a prescindere dal suo contenuto
Si suppone sempre che il Prefetto di un dicastero vaticano agisca costantemente in accordo con il Pontefice al momento regnante.  Noi però non facciamo il processo alle intenzioni e ci atteniamo ai fatti solamente.  Ed i fatti sono che  questa singolare accusa di eresia è stata formulata dal solo Mons. Müller e in una fonte ufficiosa quale L’Osservatore Romano. Che non crediamo faccia testo quanto un documento ufficiale dell’ex Sant’Uffizio. Ma, cosa più importante, l’imputazione stessa non è stata pubblicamente convalidata dal Papa, che si è limitato a proclamare quello che ho chiamato un dogma ermeneutico.
[Il vero significato di “eresia”] Ci siamo già soffermati sull’assurdità di questa imputazione di eresia.  Ma poiché, come si suol dire, repetita iuvant, conviene illustrarla brevemente ancora una volta, dopo l’inaspettata abdicazione di Benedetto XVI – un vero trauma per tutti noi – nella speranza che la nuova Autorità competente ristabilisca un domani le cose nei loro giusti termini.
“Vien detta eresia l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa” (Codice di Diritto Canonico, c. 751).  Eretico è perciò quel cattolico che neghi ostinatamente qualche verità definita come dogma di fede (verità “di fede divina e cattolica”) o che dubiti ostinatamente di essa.  Nei testi del Vaticano II sono forse state proclamate verità da credersi “di fede divina e cattolica”, come nel Tridentino e nel Vaticano I?  Ciò non risulta da nessun testo del Concilio.  Il Concilio, nelle sue stesse parole, ha voluto darsi un’indole solo pastorale.  Criticare certi concetti contenuti in un Concilio solo pastorale non può pertanto costituire eresia.  L’eresia ha a che fare esclusivamente con il dogma della fede.  È la negazione ostinata di una verità di fede da ritenersi come dogma da parte di tutti i fedeli, o il dubbio ostinato su di essa, mantenuti quindi anche dopo i richiami del Magistero; sia stato il dogma dichiarato in forma solenne dal Papa uti singulus o da un Concilio ecumenico con il Papa o risulti invece dall’infallibilità del Magistero ordinario, che è quello del Papa in plurisecolare comunione spirituale con tutti i vescovi dispersi sulla faccia della terra.
[Il Vaticano II non ha proclamato dogmi] Ma il Vaticano II non contiene due costituzioni che si fregiano del titolo di “dogmatiche”?  Si tratta della Lumen Gentium sulla Chiesa e della Dei Verbum sulla divina Rivelazione. I loro insegnamenti non contengono pertanto dogmi di fede?  Così dovrebbe essere, per far onore all’aggettivo. E così ritengono in buona fede molti fedeli.  E tuttavia così non è (bisogna pur dirlo apertamente) se si va a controllare i testi.  L’analisi puntuale dei testi di queste due costituzioni “dogmatiche” dimostra inequivocabilmente che esse non contengono alcuna definizione dogmatica.  La “definizione dogmatica”, come è noto, deve mostrare, nelle opportune forme concettuali e linguistiche, una precisa voluntas definiendi o volontà di definire un verità di fede come dogma, essendo il dogma per l’appunto quella verità di fede che si deve accettare senza discutere per via dell’autorità assoluta della fonte che la propugna, la cui infallibilità si presume nella fattispecie garantita in modo specifico dallo Spirito Santo.  Ma la “voluntas definiendi” brilla nei testi del Concilio solo per la sua assenza, anche in quelli delle due costituzioni “dogmatiche”. Perché si sia voluto adornarle di quest’aggettivo, resta quindi un mistero.  Ma c’è dell’altro.
[La qualificazione teologica ufficiale del Concilio è quella di un Concilio solo pastorale]­ Entrambe queste costituzioni contengono in appendice un’identica Notificazioneconcernente la qualificazione teologica di ognuna di loro, nella quale si dice, riportando una dichiarazione della Commissione Dottrinale del Concilio del 6 marzo 1964, che:
“Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. 
Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, secondo le norme dell’interpretazione teologica”. 
Da questa celebre dichiarazione si ricava che:  
1.  “il presente Concilio ha un fine pastorale”:  non mira cioè a dichiarare solennemente nuovi dogmi e a condannare solennemente errori.  Le due cose vanno spesso di pari passo perché le condanne solenni degli errori, oltre a confermare i dogmi, valgono anche come definizioni implicite degli stessi o a contrario.  La loro completa assenza dai testi del Vaticano II significa che il Concilio non ha manifestato alcuna voluntas definiendi.  E quest’impostazione per così dire neutrale del Concilio corrispondeva esattamente a quella indicata da Giovanni XXIII nell’Allocuzione di apertura dello stesso.  Il Vaticano II non ha voluto essere un concilio dogmatico.  Ha voluto essere solo “pastorale”.  (Con quale criterio teologico e canonistico si stia cercando ora di trasformarlo in blocco in “dogmatico”, non si riesce a comprendere).    
2.  Dato il carattere “pastorale” del Concilio, eventuali verità in esso contenute riguardanti “la fede e i costumi” (che sono i campi nei quali il Magistero emana definizioni dogmatiche) dovranno ritenersi come dogmi solo se “apertamente dichiarate come tali” dal Concilio stesso.  Che significa:  “apertamente”?  Che queste verità dovranno ritenersi come dogmi  solo se esplicitamente e specificamente definite caso per caso come dogmi dal Concilio.  Ma, come si è detto, in nessun testo del Concilio – nemmeno in quelli delle due costituzioni “dogmatiche” – si riscontrano evidenti, aperte dichiarazioni dogmatiche.  
3.  Ergo:  gli insegnamenti del Concilio (“altre cose”, rispetto agli eventuali dogmi, tuttavia mai proclamati, ragion per cui la denominazione di “altre cose” risulta inapplicabile) si devono intendere non come dogmi ma in base allo “spirito del Concilio” pastorale, che deve ricavarsi dal contesto stesso (materia trattata, modo di esprimersi) secondo le norme tradizionali dell’interpretazione teologica.  Ciò significa che la loro qualificazione teologica non risulterà dalle forme nette e scolpite della definizione dogmatica ma semplicemente dall’interpretazione dello “spirito del Concilio” ossia dall’intenzione dei Padri conciliari, come reperibile nei testi secondo le regole tradizionali della “interpretazione teologica”. 

E su quale sia l’autentico “spirito del Concilio”, a causa appunto delle ambiguità e delle storture presenti in certi suoi testi, e a causa del linguaggio atipico in generale adottato, che non è quello tradizionale della Chiesa ma arieggia alle volgate secolari, non si sta litigando da 50 anni? 

[Nemmeno il Papa può far diventare dogmatici testi che non lo sono, a meno che non si sostituisca ad essi proclamandoli lui come dogmi]   Conclusione:  accusare di eresia chi critica il Vaticano II, per il solo fatto di criticarlo, significa ritenere dogmatico il Vaticano II, nella sua totalità.  Ma questo non corrisponde al vero, come si è visto.  Così come non corrisponde al vero ritenere dogmatiche le due costituzioni conciliari che pur si fregiano (ma invano) del titolo di “dogmatiche”.  I testi stessi del Concilio sono chiarissimi in proposito, non consentono altra interpretazione.  Caesar non est supra gramaticos, come disse quell’antico ad un imperatore romano, che voleva dettar legge anche nella grammatica.  Anzi, se ci sono due concetti che risultano con chiarezza cristallina dai testi tormentati del Vaticano II, essi sono proprio i seguenti:  — il fine del Concilio è pastorale e non dogmatico  — il Concilio non ha proclamato dogmi di sorta né condannato errori.


[Chi critica un Concilio solo pastorale non è per ciò stesso eretico e non gli si  può applicare nessuna sanzione latae sententiae ossia in modo automatico]  Noi che critichiamo in modo rispettoso ed il più possibile scientifico i testi del pastorale Vaticano II là ove non si accordano con la dottrina tradizionale della Chiesa, auspicando del resto interventi chiarificatori da parte della Prima Sedes, non commettiamo pertanto alcun peccato di eresia e non incorriamo in alcun modo nella sanzione per esso prevista, costituita dalla scomunica latae sententiae (CDC, c. 1364 § 1).  Quest’ultima, oltre a non poter esser irrogata per via giornalistica, con un articolo su L’Osservatore Romano, non può comunque applicarsi quando il reato non sussite, nel modo più assoluto (Paolo Pasqualucci, 4.3.2013).

Noi, chi?  Tutti coloro, oso affermare, sacerdoti e laici, che hanno aderito idealmente o per iscritto alle ben note S u p p l i c h e  presentate da studiosi qualificati, italiani e stranieri, in questi ultimi tre anni a Benedetto XVI implorandolo di voler autorizzare l’apertura di una pubblica discussione sui contenuti del Concilio Vaticano II.  Prima di abdicare, Benedetto XVI ha riaffermato la sua fede nella assoluta conformità delle dottrine del Concilio alla Tradizione della Chiesa.  Nell’ultimo suo incontro con i sacerdoti del Clero romano egli è giunto a dire – parlando all’impronta in un clima di forte commozione collettiva – che le cattive interpretazioni del Concilio erano da imputarsi soprattutto ai media, all’immagine deformata che essi ne avevano data.  Ieri come oggi il compito dell’interprete sarebbe pertanto unicamente quello di riscoprire il vero Vaticano II, il suo autentico spirito originario, vissuto dal giovane Ratzinger in prima persona, per farlo rivivere nella Chiesa. 
[Un dogma ermeneutico trasformato assurdamente in dogma di fede] Nel ribadire quest’impostazione, di fatto ufficiale da quasi cinquant’anni, il Papa non si contraddiceva rispetto alle critiche da lui stesso recentemente rivolte alla costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo e alla dichiarazione Nostra Aetate sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane?  E non si trattava di critiche tanto marginali.  Secondo il Papa,  quella costituzione non ci avrebbe dato un concetto valido di modernità mentre laNostra Aetate avrebbe del tutto trascurato le componenti deviate delle religioni non cristiane, dandone ai fedeli  un’immagine edulcorata ed in sostanza falsa.  Come che sia, possiamo dire che alla fine Papa Ratzinger abbia cercato di imporre (spiritualmente) l’esistenza dell’ortodossia del Vaticano II nella forma di un vero e proprio dogma ermeneutico : il Concilio dovrebbe esser sempre interpretato intendendone le novità come se fossero a priori sempre in armonia con la dottrina precedente (ermeneutica della continuità).  Invece Mons. Müller, ultimo Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha trasformato il “dogma ermeneutico” in dogma di fede, quando ha inopinatamente affermato che chi critica il Vaticano II è per ciò stesso un eretico.    E r e t i c o , dunque, non perché si serva di accertate eresie per criticare i testi del Concilio o perché scivoli nell’eresia, magari inconsapevolmente, nel corso della critica stessa;  eretico per il solo fatto di esercitare una critica, a prescindere dal suo contenuto
Si suppone sempre che il Prefetto di un dicastero vaticano agisca costantemente in accordo con il Pontefice al momento regnante.  Noi però non facciamo il processo alle intenzioni e ci atteniamo ai fatti solamente.  Ed i fatti sono che  questa singolare accusa di eresia è stata formulata dal solo Mons. Müller e in una fonte ufficiosa quale L’Osservatore Romano. Che non crediamo faccia testo quanto un documento ufficiale dell’ex Sant’Uffizio. Ma, cosa più importante, l’imputazione stessa non è stata pubblicamente convalidata dal Papa, che si è limitato a proclamare quello che ho chiamato un dogma ermeneutico.
[Il vero significato di “eresia”] Ci siamo già soffermati sull’assurdità di questa imputazione di eresia.  Ma poiché, come si suol dire, repetita iuvant, conviene illustrarla brevemente ancora una volta, dopo l’inaspettata abdicazione di Benedetto XVI – un vero trauma per tutti noi – nella speranza che la nuova Autorità competente ristabilisca un domani le cose nei loro giusti termini.
“Vien detta eresia l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa” (Codice di Diritto Canonico, c. 751).  Eretico è perciò quel cattolico che neghi ostinatamente qualche verità definita come dogma di fede (verità “di fede divina e cattolica”) o che dubiti ostinatamente di essa.  Nei testi del Vaticano II sono forse state proclamate verità da credersi “di fede divina e cattolica”, come nel Tridentino e nel Vaticano I?  Ciò non risulta da nessun testo del Concilio.  Il Concilio, nelle sue stesse parole, ha voluto darsi un’indole solo pastorale.  Criticare certi concetti contenuti in un Concilio solo pastorale non può pertanto costituire eresia.  L’eresia ha a che fare esclusivamente con il dogma della fede.  È la negazione ostinata di una verità di fede da ritenersi come dogma da parte di tutti i fedeli, o il dubbio ostinato su di essa, mantenuti quindi anche dopo i richiami del Magistero; sia stato il dogma dichiarato in forma solenne dal Papa uti singulus o da un Concilio ecumenico con il Papa o risulti invece dall’infallibilità del Magistero ordinario, che è quello del Papa in plurisecolare comunione spirituale con tutti i vescovi dispersi sulla faccia della terra.
[Il Vaticano II non ha proclamato dogmi] Ma il Vaticano II non contiene due costituzioni che si fregiano del titolo di “dogmatiche”?  Si tratta della Lumen Gentium sulla Chiesa e della Dei Verbum sulla divina Rivelazione. I loro insegnamenti non contengono pertanto dogmi di fede?  Così dovrebbe essere, per far onore all’aggettivo. E così ritengono in buona fede molti fedeli.  E tuttavia così non è (bisogna pur dirlo apertamente) se si va a controllare i testi.  L’analisi puntuale dei testi di queste due costituzioni “dogmatiche” dimostra inequivocabilmente che esse non contengono alcuna definizione dogmatica.  La “definizione dogmatica”, come è noto, deve mostrare, nelle opportune forme concettuali e linguistiche, una precisa voluntas definiendi o volontà di definire un verità di fede come dogma, essendo il dogma per l’appunto quella verità di fede che si deve accettare senza discutere per via dell’autorità assoluta della fonte che la propugna, la cui infallibilità si presume nella fattispecie garantita in modo specifico dallo Spirito Santo.  Ma la “voluntas definiendi” brilla nei testi del Concilio solo per la sua assenza, anche in quelli delle due costituzioni “dogmatiche”. Perché si sia voluto adornarle di quest’aggettivo, resta quindi un mistero.  Ma c’è dell’altro.
[La qualificazione teologica ufficiale del Concilio è quella di un Concilio solo pastorale]­ Entrambe queste costituzioni contengono in appendice un’identica Notificazioneconcernente la qualificazione teologica di ognuna di loro, nella quale si dice, riportando una dichiarazione della Commissione Dottrinale del Concilio del 6 marzo 1964, che:
“Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. 
Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, secondo le norme dell’interpretazione teologica”. 
Da questa celebre dichiarazione si ricava che:  
1.  “il presente Concilio ha un fine pastorale”:  non mira cioè a dichiarare solennemente nuovi dogmi e a condannare solennemente errori.  Le due cose vanno spesso di pari passo perché le condanne solenni degli errori, oltre a confermare i dogmi, valgono anche come definizioni implicite degli stessi o a contrario.  La loro completa assenza dai testi del Vaticano II significa che il Concilio non ha manifestato alcuna voluntas definiendi.  E quest’impostazione per così dire neutrale del Concilio corrispondeva esattamente a quella indicata da Giovanni XXIII nell’Allocuzione di apertura dello stesso.  Il Vaticano II non ha voluto essere un concilio dogmatico.  Ha voluto essere solo “pastorale”.  (Con quale criterio teologico e canonistico si stia cercando ora di trasformarlo in blocco in “dogmatico”, non si riesce a comprendere).    
2.  Dato il carattere “pastorale” del Concilio, eventuali verità in esso contenute riguardanti “la fede e i costumi” (che sono i campi nei quali il Magistero emana definizioni dogmatiche) dovranno ritenersi come dogmi solo se “apertamente dichiarate come tali” dal Concilio stesso.  Che significa:  “apertamente”?  Che queste verità dovranno ritenersi come dogmi  solo se esplicitamente e specificamente definite caso per caso come dogmi dal Concilio.  Ma, come si è detto, in nessun testo del Concilio – nemmeno in quelli delle due costituzioni “dogmatiche” – si riscontrano evidenti, aperte dichiarazioni dogmatiche.  
3.  Ergo:  gli insegnamenti del Concilio (“altre cose”, rispetto agli eventuali dogmi, tuttavia mai proclamati, ragion per cui la denominazione di “altre cose” risulta inapplicabile) si devono intendere non come dogmi ma in base allo “spirito del Concilio” pastorale, che deve ricavarsi dal contesto stesso (materia trattata, modo di esprimersi) secondo le norme tradizionali dell’interpretazione teologica.  Ciò significa che la loro qualificazione teologica non risulterà dalle forme nette e scolpite della definizione dogmatica ma semplicemente dall’interpretazione dello “spirito del Concilio” ossia dall’intenzione dei Padri conciliari, come reperibile nei testi secondo le regole tradizionali della “interpretazione teologica”. 

E su quale sia l’autentico “spirito del Concilio”, a causa appunto delle ambiguità e delle storture presenti in certi suoi testi, e a causa del linguaggio atipico in generale adottato, che non è quello tradizionale della Chiesa ma arieggia alle volgate secolari, non si sta litigando da 50 anni? 

[Nemmeno il Papa può far diventare dogmatici testi che non lo sono, a meno che non si sostituisca ad essi proclamandoli lui come dogmi]   Conclusione:  accusare di eresia chi critica il Vaticano II, per il solo fatto di criticarlo, significa ritenere dogmatico il Vaticano II, nella sua totalità.  Ma questo non corrisponde al vero, come si è visto.  Così come non corrisponde al vero ritenere dogmatiche le due costituzioni conciliari che pur si fregiano (ma invano) del titolo di “dogmatiche”.  I testi stessi del Concilio sono chiarissimi in proposito, non consentono altra interpretazione.  Caesar non est supra gramaticos, come disse quell’antico ad un imperatore romano, che voleva dettar legge anche nella grammatica.  Anzi, se ci sono due concetti che risultano con chiarezza cristallina dai testi tormentati del Vaticano II, essi sono proprio i seguenti:  — il fine del Concilio è pastorale e non dogmatico  — il Concilio non ha proclamato dogmi di sorta né condannato errori.


[Chi critica un Concilio solo pastorale non è per ciò stesso eretico e non gli si  può applicare nessuna sanzione latae sententiae ossia in modo automatico]  Noi che critichiamo in modo rispettoso ed il più possibile scientifico i testi del pastorale Vaticano II là ove non si accordano con la dottrina tradizionale della Chiesa, auspicando del resto interventi chiarificatori da parte della Prima Sedes, non commettiamo pertanto alcun peccato di eresia e non incorriamo in alcun modo nella sanzione per esso prevista, costituita dalla scomunica latae sententiae (CDC, c. 1364 § 1).  Quest’ultima, oltre a non poter esser irrogata per via giornalistica, con un articolo su L’Osservatore Romano, non può comunque applicarsi quando il reato non sussite, nel modo più assoluto (Paolo Pasqualucci, 4.3.2013).


Article printed from Concilio Vaticano II: http://www.conciliovaticanosecondo.it
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