ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 20 aprile 2013

I cattadulti


Cade un “adulto”

Quel cattolicesimo elitario e tecnocratico che né la chiesa né i comunisti hanno mai digerito

Non serve essere cattolico per il Quirinale.Matteo Renzi avrebbe forse fatto meglio a specificare quale tipo di cattolico. Affossato con malagrazia l’epigono un po’ tardo del laburismo e del popolarismo (demo)cristiano, Franco Marini, la rovinosa caduta di ieri di Romano Prodi sulla strada della presidenza della Repubblica suona come la bocciatura di un altro modello cattolico, che ha la stessa età della Costituzione.
E’ il trionfo mancato, ancora una volta, di una particolare piccola ecclesia, di un sodalizio, se non una lobby: insomma la vena aurea di un cattolicesimo minoritario, eppure egemonico, nella storia politica e nei centri di potere dell’Italia e del cattolicesimo italiano. Ruggero Orfei, giornalista e intellettuale d’area, li definì i “dossettiani non democristiani”. Sono i cattolici elitari, progressisti ma non cattocomunisti, forgiati dal magistero di Giuseppe Dossetti, sempre in bilico tra politica e spirito. Quelli che dopo decenni di conflittuale rapporto col dogma del collateralismo brindarono alla fine della Dc come all’inizio “di una nuova fase” (Pietro Scoppola), in cui poter finalmente realizzare la “democrazia dei cristiani”, più tardi “cattolici adulti”. Sotto il totem della Costituzione che, parola di Prodi, per Dossetti valeva in quanto “ethos intessuto di valori universali e transtemporali”. Un manipolo plasmato soprattutto, a cavallo tra Prima e Seconda Repubblica, da Nino Andreatta, la personalità di maggior statura tra gli eredi di Dossetti, l’unico in grado di elaborarne il progetto e adattarlo alla storia. Il “vero padre dell’Ulivo”, come lo salutarono quando morì, aveva in realtà generato per tempo altri due figli. Prodi è appunto figlio della precoce intuizione andreattiana di superare il partito cattolico (e anche quello comunista, a Dio piacendo), nell’embrione ideologico di quello che sarà l’Ulivo a metà degli anni 90. Suo gemello in provetta fu Nanni Bazoli, il “Professor Nessuno” che Andreatta trasformò nel dominus bancario capace di ridisegnare, il potere della finanza bianca tracollata tra lo Ior e l’Ambrosiano, blindandolo nelle mani della sinistra dossettiana. Con un decennio d’anticipo sulla fine del potere dc.
Stando al pallottoliere di Montecitorio di venerdì, tutto questo non basta a giungere al Quirinale. Il sogno di Dossetti, poi sviluppato dagli Andreatta dai Prodi in un continuo scambio con parti del mondo ecclesiale (la Scuola di Bologna) e in un continuo scontro con altre sue anime, è in fondo sempre rimasto identico: laicizzare al massimo la presenza politica dei cattolici, nel segno di una loro modernizzazione, sottraendola così all’ingerenza della gerarchia. E’ ciò che nell’ultimo ventennio si è chiamato ideologia ulivista: qualcosa di difficilmente diluibile persino nel grande pentolone delle “due culture” che è il Partito democratico. Non è un caso che la componente ex popolare e i cosiddetti “prodiani” non si siano mai amalgamati granché (vale anche con gli ex Pci). Penultimo a farne le spese era stato proprio Franco Marini. E ieri, con tutta evidenza, Prodi ha subìto il contrappasso.
C’è che il mondo elitario dei dossettiani ha sempre vantato, o millantato, un’altra genetica rispetto a quelle, pur a volte meticce, delle altre correnti della chiesa italiana: quelle del laburismo popolare, quelli del cattolicesimo senza targhe ma vagamente papalino che ha sempre alimentato il corpaccione della Balena bianca, specie nel suo grande e grasso centro andreottiano, fino alle forze di punta degli anni ruiniani. Di fronte a tutto questo, la cifra intima del prodismo è sempre rimasta quella di un odio antropologico che ne fa quasi una versione clericale dell’azionismo. Vagamente giansenista in religione e tecno-modernista in politica (economica). E’ questa antropologia politica quella che, al culmine della stagione dell’Ulivo, nel 2007, andò a sbattere contro il “non possumus” dei vescovi italiani guidati da Camillo Ruini sul disegno di legge sui Dico. Non fu solo lo scazzo momentaneo tra una legittima rivendicazione di autonomia politica e una gerarchia particolarmente interventista. Fu lo scontro tra visioni diverse della presenza della chiesa nel corpo della Seconda Repubblica. Per i prodiani, il vero punto di scontro simbolico era la condanna di una chiesa che ancora una volta si schierava, e ancora una volta dalla parte della conservazione etica, e per di più sostenuta dalla “parte del male” (Berlusconi). Attorno alla candidatura di Prodi al Quirinale si gioca anche questa versione aggiornata della questione cattolica, anche se molto è cambiato rispetto al passato. Dall’altra parte del Tevere c’è un Papa cui, alle viste,  interessa poco la politica italiana. In Laterano non regna più Ruini, ma non è escluso che ieri sera, don Camillo abbia sorriso.

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