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giovedì 17 ottobre 2013

Il Papa che demitizza il Papa

Per il prof. Faggioli, Bergoglio sta finalmente attuando il Concilio e questa è la vera discontinuità. E’ onesto, non relativista, ma la sua teologia ancora non è chiara. Avrà problemi con la chiesa americana
“Il Papa sta demitizzando il papato. Fatto evidente, questione centrale in Jorge Mario Bergoglio, ma che non è affatto farina del suo sacco”. Massimo Faggioli, storico del Cristianesimo alla University of St. Thomas di Minneapolis e St. Paul, per sua definizione “cattolico di scuola Concilio Vaticano II”, dice al Foglio che Francesco non sta facendo altro che attuare il Concilio. Certo, “lui è molto furbo, non dice che i suoi gesti derivano da lì, ma è chiarissimo”.
Non fa cose eclatanti, come Paolo VI che mise all’asta il triregno simboleggiante da secoli l’autorità del padre dei principi e dei re, del rettore del mondo e del vicario di Cristo in Terra. Non ordina a monsignori e camerieri vari di astenersi dall’usare espressioni barocche come “dalle auguste labbra” per segnalare che il Papa ha parlato. “Queste cose erano già iniziate molto tempo fa, sono in atto da cinquant’anni”, aggiunge il nostro interlocutore. Non sono una novità. Lo sconcerto mostrato dai perplessi e nostalgici dei tempi andati, semmai, deriva dal fatto “che la demitizzazione viene attuata da uno che non ha i titoli per farlo: un gesuita, un latinoamericano, uno che non ha la formazione accademica dei predecessori. Bergoglio è visto come un parvenu nella storia della chiesa. Insomma, è uno che dà fastidio. La demitizzazione sarebbe stata più accettata se l’avesse fatta uno come Angelo Scola”, ad esempio. A ogni modo, “fino a qualche settimana fa, nello spettro di giudizi su Papa Francesco c’erano due estremi: da una parte quelli che vedevano in Bergoglio un Papa post cattolico, dall’altra quelli che dicevano che rispetto a Ratzinger nulla era cambiato. Ora i secondi sono scomparsi, non si sentono né si vedono più. Perché è chiaro che il gesuita preso quasi alla fine del mondo ha portato delle novità”. Innanzitutto, proviene da un contesto culturale e geografico radicalmente diverso da quello in cui si sono formati i suoi predecessori: “Per il cattolicesimo europeo e nordamericano, l’ultimo mezzo secolo è stato interpretato esclusivamente alla luce della secolarizzazione, del declino, della perdita di influenza nella sfera pubblica. E, conseguentemente, il Concilio è stato indicato come la causa di tutto questo. Bergoglio invece ha una percezione diversa, il suo modo di vedere la chiesa non è lo stesso di Ratzinger”. La realtà cattolica latinoamericana è stata quasi un corpo separato rispetto a quella occidentale, un mondo diverso che poco ha avuto in comune con l’Europa preda dell’avanzata laicista.
“L’aspetto interessante di Francesco è che non è ancora evidente il tipo di cultura teologica che esprime”, commenta Faggioli: “Per ora si può dire che è una teologia spirituale, il che comporta che la sua visione di chiesa sia essenzialmente spirituale e pastorale, e quindi non dogmatica, storica o sociologica”. Lo storico del Cristianesimo contesta però che quello di Bergoglio sia, per usare le parole del superiore della Fraternità di San Pio X, Bernard Fellay, “un relativismo assoluto”. Niente affatto: “Tentiamo di applicare al Papa attuale una categoria di matrice ratzingeriana. Francesco, molto più semplicemente, rappresenta bene i dilemmi dei cattolici d’oggi. I tradizionalisti dicono che è un Papa che eccede, che vuole parlare più al mondo, al di fuori della chiesa che dentro la chiesa. Non sono d’accordo”. Il Papa soldato d’Ignazio devoto a Pedro Arrupe “mette in chiaro il fatto che nella vita di tutti i giorni del cattolico ci sono dilemmi e paradossi. Ci sono, cioè, certe cose cui non può essere applicato un teorema per dire che due più due fa quattro. E ciò comporta dei compromessi, delle mediazioni. Questo non è relativismo. E’ sincerità, onestà. Bergoglio è un Papa che non pretende che le cose siano semplici, come spesso facevano i suoi predecessori”. Il suo, insomma, è un approccio pastorale radicato nel Concilio. Francesco, però, non vuole esaltarne spirito e atti. Non si pone neppure il problema: “E’ diventato prete nel 1969 – dice Faggioli – e per lui il Vaticano II non è più materia di discussione. E’ un fatto. Mai mette in dubbio che la sua chiesa debba essere quella uscita dall’assise ecumenica voluta da Roncalli. Bergoglio non pensa il Concilio come un tema di discussione”. Lo si vede anche dalla liturgia: “Il Papa su questo fronte ha usato prudenza, parlando di ermeneutica della continuità e della discontinuità. Però è chiaro che per lui la liturgia della chiesa non può che essere quella conciliare, nonostante i tentativi di questo ultimo decennio tesi a invertire la rotta”. E questo è un punto di rottura con i predecessori: “Wojtyla e Ratzinger erano così legati al Concilio che il loro Magistero ne era quasi un sequel”.
Se a San Pietro le folle trattano il Pontefice argentino alla stregua di una rockstar, tirandogli rosari, pupazzi, bandiere e t-shirt d’ogni sorta, a migliaia di chilometri di distanza c’è chi guarda con diffidenza al nuovo corso. “La chiesa americana è il punto critico di Francesco”, sottolinea Faggioli – che ha curato la traduzione dell’intervista papale alla Civiltà Cattolica per America magazine. “Il fatto è che quella degli Stati Uniti è una chiesa polarizzata come nessun’altra al mondo; inoltre Bergoglio ha una conoscenza della realtà anglofona abbastanza scarsa. Basti vedere come parla della teologia delle donne, è chiaro che non è il suo linguaggio”. E questi aspetti non vengono taciuti, tutt’altro. “Per Francesco rappresenteranno un problema, perché spesso i problemi della chiesa americana si ripercuotono poi sulla chiesa intera”. E il fatto che “il politicamente corretto non sia il suo linguaggio”, non lo aiuta.

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