ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 20 maggio 2014

Favola argentina


C’era una volta un Re…


zznzrgl-300x216In un lontano paese, c’era una volta un Re, vedovo, che aveva un’unica figlia che adorava, destinata a ereditare non solo l’ingente patrimonio, ma soprattutto le responsabilità di governo di un intero popolo. Avvenne che la figlia, Principessa, conobbe un bravo Principe e decisero di sposarsi, con grande gioia del Re che non vedeva l’ora di dare una discendenza al suo Casato. Giunse il giorno delle nozze preparate con una magnificenza indescrivibile tra il tripudio non solo della Corte e dei più alti dignitari e nobili convenuti da ogni parte del mondo, ma anche dei sudditi che amavano il loro Re perché era buono, generoso e timorato di Dio, e si impegnava perché non venisse mai meno la Giustizia nel suo Regno.

Accadde però che, proprio il giorno delle nozze, giunti davanti all’ingresso della Chiesa tutta addobbata a festa, il Re Padre prese una decisione alquanto insolita che suscitò molto scalpore perché lì per lì, davanti a tutti, affidò la figlia al suo Primo Ministro perchè la accompagnasse all’altare, e si congedò lasciando come giustificazione questa dichiarazione pubblica: “Cari sposi, ministri e dignitari tutti, visto lo sfarzo della cerimonia e, per contrasto, la miseria di molta gente, ho deciso di far festa con gli ultimi, e pertanto chiedo scusa a tutti gli invitati e i partecipanti, ma in coscienza ritengo doverosa la mia presenza in mezzo ai poveri piuttosto che in mezzo ai ricchi.”
Lo sgomento che ne seguì fu indescrivibile, a tal punto che qualcuno svenne, altri se ne andarono indignati imprecando contro il Re perché veniva meno a un suo preciso dovere di padre, oltre che di regnante, mentre la promessa sposa, con un coraggio da leonessa, procedette a testa alta in mezzo alla Chiesa, accompagnata dal Primo Ministro, fra una schiera di militari in alta uniforme parati a festa che le facevano ala e scudo, verso lo sposo che l’attendeva trepidante ai piedi dell’altare, e senza indugio diedero inizio alla cerimonia, desiderosi com’erano di poter coronare quanto prima il loro progetto d’amore col matrimonio.
All’inizio della cerimonia religiosa si ebbe un silenzio sepolcrale perché molti invitati si sentivano come imbarazzati e quasi coperti di vergogna davanti a questo gesto plateale di umiltà del loro Re, povero con i poveri, mentre loro sfoggiavano indumenti preziosi adatti all’occasione. Tuttavia, mano a mano che i minuti e le ore passavano, si notava un malcontento e un nervosismo generale con commenti duri e severi che non lasciavano dubbi: “Ma i poveri sono sempre qui con noi, perché non andare a festeggiare con loro in qualunque altro momento? Perché umiliare in questa maniera la sua unica figlia tanto amata proprio nel giorno delle sue nozze, rovinando la festa a lei, allo sposo e a tutta l’immensa folla dei sudditi composti ugualmente di ricchi e di poveri i quali avevano almeno il diritto di godere di questa cerimonia unica e irripetibile? Questo insolito gesto potrebbe oltretutto creare dei precedenti imbarazzanti, dei sensi di colpa inutili a chi ha compiti di governo, delle nuove mode o strategie pericolose ecc.”  E giù mugugni, e critiche, e malcontento, e divisioni, e perfino liti, a tal punto che un giorno così bello, se non fosse stato per l’intervento deciso e coraggioso degli sposi che cercarono, col loro sorriso, di sdrammatizzare la cosa focalizzando l’attenzione sul loro amore, si sarebbe trasformato in tragedia!
Per contro altre voci in difesa del Re si alzavano prepotenti:  “Ma no! Non capite nulla! Non vi pare sia stato un gesto esemplare quello del nostro Re? Mica ha lasciato tutti per andare a giocare a golf, ma per rimanere con gli ultimi, con i poveri, con i dimenticati! Esemplare il suo comportamento! C’è da prendere esempio per il futuro ecc. ecc.”.
Fatto sta che di tutto questo scompiglio pro o contro, una cosa ne scaturì con assoluta certezza: quell’apparente gesto di umiltà del Re, oltre a non aver affatto risolto il problema dei poveri, aveva creato molte divisioni, delle crepe insanabili, delle liti irrisolvibili nel suo stesso regno, tra la sua gente, in mezzo al suo popolo, creando discredito anche nei confronti della sua figura che aveva goduto, fino a quel giorno, della stima e dell’affetto di tutti!
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Chiedo scusa del paragone forse poco azzeccato tuttavia, con i dovuti distinguo che si devono porre in questi casi, devo confessare che, davanti al secondo rifiuto per il secondo anno dal suo pontificato da parte di Papa Francesco di celebrare solennemente la grande e unica solennità del Giovedì Santo nel “cuore” della cristianità che è San Pietro e in mondovisione con tutti i suoi figli sparsi in tutto il mondo, buoni e cattivi, consacrati o laici, ricchi o poveri, com’era sempre stato fatto in precedenza, adducendo la motivazione di un gesto di carità fin troppo plateale e pretestuoso, mi sono sentita letteralmente trafiggere il cuore, vedendo nella figlia tradita dal Re non solo tutto il popolo cristiano, cioè tutti i suoi figli che si aspettavano da lui la solenne cerimonia, ma la stessa Chiesa, che era pronta a festeggiare Gesù Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote in uno degli eventi più importanti della storia della salvezza cristiana, per mano dello stesso Vicario di Cristo, il Papa. E questo non certo per mancanza di rispetto e di considerazione che si deve avere verso tutti, di qualunque condizione e stato sociale, ma per il rispetto sommo che si deve avere innanzitutto per Gesù Cristo e la sua volontà che precede qualunque altro motivo umano.
Ma è successo che, mentre per altri gesti sconcertanti di questo strano Papa si sono levati commenti pro o contro, critiche o lodi, perché è proprio il suo stile contraddittorio a suscitare vespai e divisioni, davanti alla decisione gravissima di rinunciare alla solenne celebrazione del Giovedì Santo, il silenzio l’ha fatto da padrone, anzi sembra che la gente abbia accolto con compiacimento questa notizia perché il Papa andava a compiere un’opera di misericordia sopraffina! E così tutti gli animi si sono rasserenati! E invece è sbagliatissimo! È una gravissima omissione passata sotto silenzio perfino da chi ne conosce bene l’importanza e la gravità: Vescovi e Sacerdoti ! “Ma perche?” Si chiede la gente che non è a conoscenza della dottrina cristiana.
  • Perché il Giovedì Santo è il primo dei tre giorni del Triduo pasquale che precedono la Pasqua, cioè la domenica di Risurrezione, giorno importantissimo, da paragonare per solennità alla stessa Pasqua perché giorno dell’Istituzione di ben due Sacramenti voluti da Gesù Cristo: il Sacerdozio e l’Eucaristia, Sacramenti fondanti e costitutivi della Chiesa Cattolica che Gesù ha in un certo senso, “convalidato, confermato” il giorno seguente, Venerdì Santo, con la sua Passione e Morte in croce. Staccare la Pasqua dal Venerdì e dal Giovedì Santo non ha senso perché sono un tutt’uno, una continuità che sfocia nella Risurrezione gloriosa! Non celebrare la Messa “In Coena Domini” del Giovedì Santo è un gesto di disobbedienza davanti a un preciso mandato che Gesù Cristo trasmise ai suoi Apostoli: “Fate questo in memoria di me!”. In un certo senso è come rifiutarsi di celebrare la Pasqua, o celebrarne solo “un pezzo”, a scelta!
  • Inoltre focalizzare l’attenzione del giovedì santo solo sul gesto della lavanda dei piedi che è marginale e secondario rispetto a tutta la celebrazione, è assai pericoloso. A maggior ragione se si pensa che Gesù lavò i piedi non a degli sconosciuti, ma ai suoi Apostoli che erano lì presenti, cioè a coloro che erano destinati a trasmettere il suo mandato e i suoi Sacramenti, mentre Papa Francesco nemmeno si recò in una Chiesa consacrata ma in un Istituto qualunque, in una stanza priva di tabernacolo a compiere un gesto che, per quanto umile e misericordioso, (neppure sappiamo se fu accompagnato o meno dalla Messa!) non poteva certo sostituire un mandato divino per volere di Gesù Cristo come quello del Giovedì Santo celebrato con Vescovi e Sacerdoti, successori degli Apostoli, e con tutto il popolo di Dio bisognoso di esser confermato nella fede soprattutto attraverso la Liturgia della Chiesa.
Questo potrebbe anche avere delle gravi ripercussioni perché, se per caso anche i Vescovi decidessero, sull’esempio del Papa, di fare lo stesso negli anni a venire? Di sostituire la celebrazione liturgica del Giovedì Santo con un gesto di carità? Ma è meglio obbedire a Dio o agli uomini? E’ più importante il mandato di Gesù Cristo, la liturgia della Chiesa dalla quale scaturiscono grazie e benedizioni divine per tutta l’umanità che ci trascendono, o le nostre iniziative personali, spesso arbitrarie, che attirano i media sul nostro “io”, privandoci però di quei doni divini che fanno la santità? E senza santità la Chiesa affonda inesorabilmente in un mare di sabbie mobili.
Forse che, alla fine, non siamo tutti dei “poveracci” pieni di tribolazioni e bisognosi della Parola di Dio, della Sua Salvezza, del suo Perdono e della sua Grazia? Forse che, alla fine, non ci presenteremo tutti, poveri e ricchi, davanti al cospetto di Dio per essere da Lui giudicati sul nostro operato? E allora finchè siamo sulla terra abbiamo tutti il dovere di aiutarci con la correzione fraterna e la preghiera perché nessuno di noi è confermato in grazia, nemmeno i Consacrati del Signore, perché tutti abbiamo il dovere di spendere bene il tempo che ci resta da vivere, con le sue tribolazioni e i suoi dolori, quel tempo da santificare che sarà la “moneta” con cui potremo comprare l’eternità.[1]. (di Patrizia Stella su “Riscossa Cristiana”) 
[1] Ferdinando Rancan, La moneta del tempo, ed. Fede & Cultura.

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