ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 22 maggio 2014

Non una vox

Qualche ragione buona (di preti) per il matrimonio unico con Cristo

“Rispetto tutti i confratelli in difficoltà, siamo uomini. Io però sono ben contento di essere celibe, perché ho interpretato il sacerdozio non come un mestiere. Fare il prete non è come fare il meccanico o l’ingegnere. Questa è una missione. E’ questa la grande differenza”. Padre Piero Gheddo, ottantacinquenne decano dei missionari italiani (è entrato nel Pontificio istituto missioni estere nel 1945), tra i fondatori dell’Editrice Missionaria Italiana, commenta con il Foglio la lettera che ventisei fidanzate di sacerdoti hanno inviato – a mezzo raccomandata – a Papa Francesco, chiedendogli di abolire il celibato sacerdotale, norma ecclesiastica millenaria ma non dogma.
Il sacerdozio, dice padre Gheddo, “è una vocazione totalitaria, naturalmente se interpretato bene. Ma anche il matrimonio, secondo quanto dice la chiesa, è una vocazione totalitaria. Ne consegue perciò che entrambe queste vocazioni prendono tutta la vita, ti accompagnano per sempre”. E dunque sono in contraddizione l’una con l’altra. Il problema, osserva il nostro interlocutore, è che tanti, “più che a un’esperienza che occupa ogni istante dell’esistenza terrena, guardano al sacerdozio come a un passaggio che può durare dieci, vent’anni. A una prova, quasi un esperimento, e questo è sbagliato. Invece, quanto più uno si dedica alla missione, al compito che la chiesa gli assegna, tanto più comprende che è lì che trova la propria realizzazione”.

Nella lettera delle ventisei compagne dei preti si parla di “straziante dolore”, di “devastante situazione”, di “frustrazione di un amore non completo che non può sperare in un figlio, che non può esistere alla luce del Sole”. Secondo padre Gheddo, tali lacerazioni interiori si manifestano perché questi sacerdoti non hanno ben compreso la vera natura del sacerdozio: “Il prete per essere veramente prete deve essere tutto di Cristo. Deve vivere come ha vissuto lui, imitarlo. Il prete deve portare Cristo nel mondo non solo con la parola, ma anche con la vita, e se non è interamente innamorato di Cristo, se non dedica tutta la sua vita all’imitazione di Cristo, al popolo fedele e all’obbedienza alla chiesa, è un’anima divisa”. La ragione di questa situazione, di questi dubbi e tormenti sta nella formazione dei sacerdoti: “E’ nei seminari che si deve dire chiaramente che il prete deve essere totalmente di Gesù. Non si può dire sì, ma ecco… No. Un prete deve lasciar perdere tutto. Io sono stato ordinato sacerdote nel 1953 e temo che oggi nei seminari sia difficile prepararsi bene come accadeva ai miei tempi, si studiano troppe materie”, dice padre Gheddo, a giudizio del quale “è sempre più difficile essere cristiani, tra tutte queste distrazioni, occasioni, laicizzazioni. E’ complicato per un uomo comune capire dove si trova, qual è il suo posto. Lo capisce se vede un prete davvero cattolico, un prete che ha il fuoco dentro”.

Don Pierre Cabantous, parroco e direttore della Scuola di formazione teologica S. Pier Crisologo di Ravenna, non dà troppa importanza al caso delle fidanzate dei sacerdoti che s’appellano al Papa: “I preti sono come gli aerei, si parla di loro solo quando cadono”. Sono ventisei i preti che vorrebbero sposarsi? Pazienza, è come se dicessi che siccome ci sono ventisei adulteri non è più valida la legge sull’indissolubilità del matrimonio”. Non si sente offeso, il nostro interlocutore, per il quale la faccenda non è altro “che una minestra riscaldata, anche se è uscita proprio alla vigilia dell’Assemblea generale della Cei, il che mi fa dire che a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende”. E’ una polemica – osserva don Cabantous – “che nasce da chi non ha mai compreso la vera natura del sacerdozio. Basterebbe ricordare che il celibato si fonda non tanto sulla norma, ma sull’affezione totale a Cristo”.
Concetto decisivo, ma sul quale ormai ci si sofferma solo superficialmente, anche perché “ormai, chi vive la propria verginità con letizia e gioia è visto come un marziano”, sottolinea riprendendo una definizione formulata da Francesco all’alba di Santa Marta poco più d’una settimana fa. “Eppure, tanti vivono così, e ciò non vuol certo dire che si voglia chiudere gli occhi dinanzi alla nativa fragilità umana.
Ma noi preti dovremmo cercare di testimoniare l’amore di Cristo. E poi, anche tecnicamente, vorrei vedere come si potrebbe seguire una parrocchia avendo una famiglia. Si rischierebbe di non fare bene né l’una né l’altra cosa”. Don Cabantous si rivolge anche a quanti, teologi e matrimonialisti, invocano la svolta per il bene della chiesa: “Ma di cosa parlano? Dovrebbero leggersi la straordinaria omelia pronunciata da Papa Benedetto XVI a conclusione dell’anno sacerdotale, nel 2010. Come si fa a dire a una monaca di clausura che vive con letizia la sua verginità che ciò è sbagliato? A quanti parlano di abolizione del celibato come bene per la chiesa vorrei ripetere quanto disse Giovanni Paolo II a Tor Vergata, nell’anno del grande Giubileo del 2000: ‘Se sentite che Cristo vi chiama, non ditegli di no’. Sapessero, quei teologi che prendono a esempio la chiesa d’oriente e quella ortodossa, quante vocazioni nacquero in quel momento”. Certo, prosegue sconsolato il direttore della Scuola di formazione teologica S. Pier Crisologo, “mi rendo conto che se si guarda questa realtà con occhi mondani, non la si comprende, è inutile”.

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