ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 6 giugno 2014

Altra Chiesa...

STORIA: 4 Giugno 1944: quando la Madonna del Divin Amore salvò Roma ed i suoi abitanti


L’esercito nazista abbandona senza opporre resistenza la Città eterna, mentre le forze alleate vi entrano per Porta San Giovanni e per Porta Maggiore, accolte dai romani con straordinarie manifestazioni di esultanza. Dopo quasi nove mesi di occupazione, Roma è salva, intatta. Contro ogni previsione non è stata versata una sola goccia di sangue.

Il pericolo è scampato. È dissolta la paura che incombeva come una nuvola minacciosa: l’incubo che si potesse assistere ad un assedio, ad una battaglia estenuante, ad una carneficina; che si potessero ripetere e moltiplicare i lutti e le distruzioni iniziati con il tremendo bombardamento del luglio del 1943, che fece terra bruciata nel popolare quartiere di San Lorenzo. E per il popolo romano, disorientato e ridotto praticamente alla fame, la liberazione incruenta della città ha una, e una sola artefice: la Santa Vergine del Divino Amore.
A migliaia, obbedendo al suggerimento di papa Pio XII l’avevano implorata, facendo un voto solenne per la salvezza dell’Urbe. Si erano stretti in preghiera, proprio in quelle ore drammatiche e cruciali, nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, nel centro di Roma, dove la cara e familiare immagine della Madonna del Divino Amore era stata trasportata dal Santuario di Castel di Leva.
«Ricordo ancora, dopo più di 50 anni, quando la Madonna arrivò a Roma – racconta un anziano testimone che all’epoca era un giovane militare. – Io ero al Colosseo e, insieme ad alcuni amici, mi unii alla processione. C’era una folla immensa, commovente. Moltissimi erano giovani. Tutta Roma si affidò completamente alla Vergine». Nella chiesa dedicata al fondatore della Compagnia di Gesù, accanto al portale d’ingresso, oggi una lapide ricorda quei giorni di intensa preghiera, di implorazione incessante e fiduciosa, quella testimonianza di grande fede del popolo romano.
I giorni delle Fosse Ardeatine
Il 1944 era cominciato male per la Città eterna. Le forze alleate, sbarcate ad Anzio verso la fine di gennaio, avrebbero dovuto liberare Roma in pochi giorni e invece avanzavano con enorme lentezza. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, con il rapido «trasferimento» a Brindisi del re Vittorio Emanuele III e del governo Badoglio, padroni della città erano i tedeschi. Come scrisse il premio Nobel Salvatore Quasimodo, si viveva «con il piede straniero sopra il cuore».
I tedeschi arrestavano, torturavano, deportavano, fucilavano. E dal cielo pioveva il fuoco dei bombardamenti delle forze alleate.
In questo clima di terrore e di profonda incertezza le strade di Roma erano diventate teatro della lotta partigiana. Bombe a mano erano state lanciate contro gli alberghi degli ufficiali tedeschi in piazza Barberini, in viale Romania, in via Veneto. Il 9 marzo un camion tedesco carico di fusti di benzina diretto al fronte di Cassino venne incendiato al Colosseo: per rappresaglia i nazisti passarono per le armi dieci partigiani.
In un crescendo di violenza e di orrore si arriva alle 14.30 del 23 marzo. In quel giorno e a quell’ora un drappello composto da soldati altoatesini di lingua tedesca del Polizei Regiment Bozen percorre in discesa una stretta strada del centro. Una strada tragicamente destinata a passare alla storia: via Rasella. Il reparto tedesco, composto da uomini non giovanissimi e per lo più impiegati nella guardia a ministeri e uffici, è diretto alla propria caserma. Segue sempre lo stesso percorso, alla stessa ora. Ma il 23 marzo non è una data casuale: è infatti il venticinquesimo anniversario di fondazione della milizia fascista.
Lungo via Rasella, quel giorno, c’è un carretto per la raccolta della spazzatura carico di esplosivo, collegato ad una miccia. Lo ha portato sul posto Rosario Bentivegna, partigiano dei Gap (Gruppi di azione patriottica). Dal carretto esce un filo di fumo, ma i soldati non fanno a tempo ad accorgersene: un’esplosione violenta devasta la strada. Muoiono 33 militari e numerosi civili, tra i quali un bambino. Immediatamente scattano i rastrellamenti da parte degli uomini del generale Meltzer del comando tedesco di Roma, aiutati dai fascisti. Casa per casa, bottega per bottega a centinaia uomini, donne e bambini si ritrovano faccia al muro lungo via Quattro Fontane. Di tanto in tanto echeggiano le raffiche delle mitragliatrici contro le abitazioni.
Da Berlino un Adolf Hitler furioso ordina la rappresaglia. L’unico modo per evitarla, fanno sapere i nazisti con manifesti e messaggi lanciati via altoparlante, è che gli attentatori si consegnino. Ma nelle poche ore concesse nessuno si fa avanti.
È ormai il 24 marzo. Il federmaresciallo Albert Kesserling, comandante di tutte le forze armate tedesche in Italia, ordina la repressione: dieci italiani dovranno morire per ogni vittima nazista. Nel pomeriggio la polizia, agli ordini del colonnello Herbert Kappler, preleva dalle carceri 335 persone, cinque più del previsto per un errore nella compilazione della lista. Duecento vengono dal terzo braccio di Regina Coeli, le rimanenti dal carcere di via Tasso. Tra di loro ci sono, tra gli altri, 75 ebrei, vari esponenti della resistenza e una decina di fermati subito dopo lo scoppio di via Rasella.
Gli uomini vengono portati nelle vecchie cave di tufo che si trovano sulla via Ardeatina e qui uccise ad una ad una, con un colpo alla testa. Alla fine i nazisti cercano di far saltare in aria le volte delle gallerie nella speranza di cancellare ogni traccia. Ma le mine non esplodono. Così la strage delle Fosse Ardeatine verrà scoperta con l’ingresso degli americani a Roma.
Roma città aperta
Nella primavera del 1944 gli abitanti della capitale sono allo stremo. Le retate dei tedeschi e la mancanza di cibo, l’impossibilità di comunicare con l’esterno hanno creato una situazione molto simile a quella delle fortezze medioevali assediate. E il generoso tentativo di proclamare Roma «città aperta» e quindi sottratta a utilizzazioni ed episodi militari è miseramente fallito. I romani imparano tragicamente a convivere con bombardamenti aerei quasi quotidiani. Quello al quartiere San Lorenzo, del 19 luglio del 1943, con diverse centinaia di vittime, è soltanto il primo di numerosissimi raid aerei alleati. Il 13 agosto ne seguì un altro altrettanto devastante. E poi altri e altri ancora.
Nella latitanza totale delle istituzioni italiane e nello smarrimento generale, la Chiesa rimane l’unico punto di riferimento. Non solo papa Pio XII, che nella coscienza popolare diventa un po’ il simbolo stesso della pace, ma le istituzioni ecclesiastiche (vicariato, parrocchie, ordini religiosi, curia) ricevono le più disparate domande di aiuto, di solidarietà, di informazioni sui dispersi in guerra (la Santa Sede ha organizzato un efficientissimo servizio a questo scopo). Figure come don Giuseppe Morosini, che ispirò il personaggio di don Pietro (Aldo Fabrizi) nel capolavoro cinematografico Roma città aperta di Roberto Rossellini, don Gioacchino Rey (parroco al Quadraro), don Pirro Scavizzi e tanti altri incarnano il volto eroico e caritatevole di Gesù Buon Pastore che mai abbandona il proprio gregge. Le chiese diventano così rifugi antiaerei, i conventi e i seminari danno ospitalità a ebrei e rifugiati politici.
Gli eventi coinvolgono anche la Madonna del Divino Amore, la cui immagine era stata portata a Roma il 24 gennaio del 1944, con l’avvicinarsi del fronte dopo lo sbarco degli alleati ad Anzio (22 gennaio). Fu lo stesso Pio XII a sollecitarne il trasferimento. All’indomani dell’8 settembre del 1943 una bufera di ferro e di fuoco si era infatti abbattuta sul Santuario scambiato per una fortificazione.
L’approssimarsi dello scontro finale consigliò di mettere al riparo l’immagine tanto cara ai romani. La Madonna del Divino Amore prese dunque la via di Roma. Accolta trionfalmente dal popolo, l’icona mariana viene dapprima portata nell’omonima chiesetta del centro, nei pressi di piazza Fontanella Borghese, ma in maggio, dato l’enorme afflusso di fedeli, viene trasferita in San Lorenzo in Lucina.
Nel frattempo, Pio XII si è reso conto che gli alleati vogliono che lo scontro con i tedeschi avvenga proprio nella capitale. La conquista della Città eterna è diventata, per gli angloamericani, un obiettivo che deve avere la precedenza su ogni altro. I supremi comandanti delle forze alleate sanno che il 6 giugno sarebbe stato aperto il secondo fronte in Normandia. Impegnare in Italia il maggior numero di forze naziste, galvanizzando così anche il morale delle truppe con la conquista della capitale, è diventata a quel punto una necessità assoluta.
Nella notte tra l’11 e il 12 maggio ha inizio la battaglia per la conquista di Roma. Alle ore 23, appena prima del sorgere della luna, 650 cannoni aprono il fuoco nel settore del XIII Corpo d’armata inglese, al di sotto dell’Abbazia di Montecassino. Appena dopo si muovono gli americani della Quinta Armata. Imponenti forze militari si scontrano secondo la logica del «palmo di terra».
Dai quartieri dell’Eur e dell’Appio, in lontananza cominciano a sentirsi distintamente i boati delle cannonate e dei bombardamenti aerei.
Pio XII e la Madonna del Divino Amore
Con la battaglia alle porte, istintivamente il popolo guarda al Pontefice che non li ha abbandonati.
Pio XII comprende che occorre immediatamente affrettarsi ai ripari: ormai con le sole armi della fede. Si sta avvicinando il giorno di Pentecoste, la festa titolare del Santuario di Castel di Leva: quale momento più propizio per implorare solennemente la salvezza della città? Il 28 maggio ha così inizio l’ottavario della Pentecoste e la novena della Madonna del Divino Amore. I romani accolgono l’invito immediatamente. L’affluenza è così massiccia – La Civiltà Cattolica riferisce di 15.000 comunioni distribuite quotidianamente – che la basilica di San Lorenzo in Lucina non è più sufficiente a contenere le folle imploranti e l’immagine della Madonna viene quindi trasferita nella più ampia chiesa di Sant’Ignazio.
Il 4 giugno, lo stesso giorno in cui termina l’ottavario, si decide la sorte di Roma. Tutto sembra preludere ad un’aspra battaglia «casa per casa». I tedeschi, determinati ad una forte resistenza, presidiano la città e hanno già minato i ponti del Tevere per coprirsi l’eventuale ritirata. Dall’altra parte, il generale alleato Harold George Alexander ha deciso che i suoi duemila carri armati avrebbero inseguito il nemico fino alla distruzione di Roma.
Alle 18 nella chiesa gremitissima, rispondendo all’invito di Pio XII, viene letto il testo del voto dei romani alla Vergine perché alla città vengano risparmiati gli orrori della guerra. Per contro, i fedeli promettono di correggere la propria condotta morale, di rinnovare il Santuario e di realizzare un’opera di carità a Castel di Leva.
Il voto viene espresso in gran fretta, per via del coprifuoco che sarebbe scattato alle 19. Pio XII, intanto, che avrebbe voluto partecipare personalmente alla preghiera, viene avvertito di non lasciare il Vaticano, per non essere deportato. A leggere il voto, in luogo del Papa, è il camerlengo dei parroci, padre Gremigni, che poi diventerà vescovo di Novara.
Quasi contemporaneamente, l’ordine di resistenza viene revocato. I tedeschi lasciano la città e le truppe alleate vi fanno il loro ingresso, alle 19.45, senza colpo ferire. Il prodigio della salvezza di Roma, tanto implorato, si è compiuto.
Lo strano modo in cui cessarono le ostilità stupì anche il primo ministro inglese Winston Churchill, il quale, nel suo memoriale Da Teheran a Roma, annotò che «la conquista era avvenuta in modo imprevisto».
«Fu un momento di grande gioia», racconta oggi Giuliana Cavallini, che all’epoca studiava al Magistero “Maria Assunta” a via dell’Erba. «Ricordo l’ansia di quelle ore cariche di tensione e di paura, ci aspettavamo che la battaglia cominciasse da un momento all’altro. Ci fecero calzare le scarpe migliori e i vestiti più resistenti nel caso avessimo dovuto fuggire. E invece, grazie a Dio e alla Madonna, non accadde nulla». La Vergine illuminò la mente e toccò il cuore dei belligeranti. Come «miracolosamente» le parti avverse si resero conto del danno irreparabile che sarebbe ricaduto su tutta l’umanità se Roma avesse subito gli effetti di uno scontro armato o anche di una parziale distruzione del suo patrimonio di fede e di civiltà.
La signora Cavallini è una delle migliaia di romani che il giorno seguente, in un moto spontaneo di riconoscenza, si ritrovarono in piazza San Pietro, per ringraziare anche Pio XII, il «defensor civitatis», che tanto si era adoperato per l’incolumità della città e dei suoi abitanti. «I romani – ricorda ancora l’anziana signora – erano a conoscenza della sua opera ad alto livello. Tutti volevamo esprimere la nostra riconoscenza al papa per il grande contributo che aveva dato alla liberazione della città».
L’11 giugno, come per oltre quattro mesi avevano fatto migliaia e migliaia di romani, lo stesso Pio XII si recò nella chiesa di Sant’Ignazio ed elevò la sua preghiera di ringraziamento ai piedi della Madonna del Divino Amore. Attorno al Papa si strinsero, come scrisse L’Osservatore Romano, decine di migliaia di persone, di cui molte a piedi scalzi. «Noi oggi siamo qui – disse allora Pio XII – non solo per chiedere i suoi celesti favori, ma innanzitutto per ringraziarla di ciò che è accaduto, contro le umane previsioni nel supremo interesse della Città eterna e dei suoi abitanti… La nostra Madre Immacolata ancora una volta ha salvato Roma da gravissimi imminenti pericoli… ha ispirato, a chi ne aveva in mano la sorte, particolari sensi di reverenza e di moderazione».

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.