ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 25 luglio 2014

Perché un Sinodo sulla famiglia?

… a leggere l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium in combinato disposto con il famoso discorso programmatico tenuto dal cardinale Kasper sulle prospettive del sinodo, che tanto ha fatto discutere, e poi l’Instrumentum Laboris, si potrebbe pensare che la famiglia si prepara a ricevere forse un colpo mortale, o meglio, data la situazione attuale, il colpo di grazia.

di Patrizia Fermani
zzfamigliaSi risponderà che la famiglia è sotto un attacco tanto potente, sferrato da tempo su più fronti, da fare temere per la sua stessa sopravvivenza. E dunque è ovvio che la Chiesa concentri la propria attenzione su questo pilastro insostituibile per il singolo e per la società. E’ anche vero che tutte le questioni più scottanti riguardanti la famiglia sono già state affrontate e approfondite in atti del Magistero ben prima che entrassero nella discussione corrente. Ma di tutto ciò ben poco, se non nulla, pare sia arrivato ai fedeli attraverso l’insegnamento e la predicazione dei sacerdoti, evidentemente impegnati su altri fronti e interessati ad altre questioni. E ben poco sia entrato nelle direttive diocesane.

Per questo il Sinodo si è posto un obiettivo pastorale, e in vista di esso è stato diffuso per l’orbe terracqueo cattolico un questionario volto a misurare la effettiva diffusa conoscenza dei nuovi problemi che investono la famiglia, le eventuali opinioni che su di essi si siano formate nei diversi contesti geografici, le soluzioni proposte, nonché le aspettative nei confronti della Chiesa. Su questa base è stato elaborato l’Instrumentum Laboris, che servirà da base di discussione per l’assemblea dei vescovi. Il tutto per rendere più efficace l’insegnamento dei pastori laddove esso risulti inadeguato e deficitario. Fermo restando che i contenuti di tale insegnamento non possono non essere quelli immutabili della dottrina cattolica.
Il proposito, dunque, sembra più che apprezzabile.
Sennonché molti fattori hanno concorso, nell’ultimo anno e negli ultimi tempi in particolare, ad insinuare dei dubbi sulla effettiva determinazione della Chiesa di mantenere fermo il proprio deposito dottrinale. In primo luogo è infatti innegabile come lo stesso Bergoglio, attraverso una miriade di interventi estemporanei, abbia incoraggiato l’idea che proprio il principio della stabilità dottrinale possa essere messo in discussione. In particolare, la Istruzione apostolicaEvangelii Gaudium potrebbe costituire una seria ipoteca posta sul prossimo sinodo sulla famiglia, e così pure lo stessoInstrumentum Laboris.
Infatti, a leggere l’esortazione apostolica in combinato disposto con il famoso discorso programmatico tenuto dal cardinale Kasper sulle prospettive del sinodo, che tanto ha fatto discutere, e poi l’Instrumentum Laboris, si potrebbe pensare che la famiglia si prepara a ricevere forse un colpo mortale, o meglio, data la situazione attuale, il colpo di grazia.
Vale la pena di percorrere anche superficialmente questo itinerario per verificare se tali preoccupazioni possano dirsi fondate, a cominciare dall’Evangelii Gaudium e da quei punti salienti del documento che non lasciano molto spazio all’interpretazione.
Dopo l’enfasi gioiosa dei paragrafi introduttivi, si capisce ben presto che il gaudio travolgente non ci verrà tanto dalla forza dell’Evangelo in sé, quanto da una sua interpretazione profondamente innovativa, ritenuta ormai imprescindibile. E siamo subito avvertiti, a scanso di equivoci, che “qualunque enunciato della Chiesa, in quanto totalità del popolo che evangelizza, deve essere riconosciuto come di iniziativa divina”. Abbiamo dunque due proposizioni: da un lato si dice che la Chiesa è la totalità del popolo che evangelizza e, dall’altro, che l’iniziativa è comunque di Dio. Anche se il “popolo di Dio” e la sua diffusa vocazione sacerdotale è il noto e accreditato stereotipo conciliare, sfugge il senso di un popolo che è allo stesso tempo autore e destinatario della evangelizzazione. Il mandato di Cristo di annunciare il Vangelo era dato agli Apostoli quale minoranza che aveva avuto il privilegio e il munus di essere depositaria dell’annuncio vero ricevuto direttamente dal Suo Autore. Destinatari erano tutti quelli che avrebbero dovuto convertirsi e credere al Vangelo. Una distinzione di ruoli è nella logica delle cose.
Inoltre ci si deve chiedere se bisognerà riconoscere come di iniziativa divina anche le strade storte che il popolo possa imboccare, a meno di ritenere che, per il principio di immanenza, qualunque strada scelta dal popolo di Dio sia buona, compresa quella del vitello d’oro. Non per nulla Ratzinger, spiegando il significato veterotestamentario del “popolo di Dio”, lo identificava in Israele che esce per cercare Dio e lungo il cammino costruisce quel vitello d’oro che sarà poi distrutto da Mosè.
Intanto, sempre secondo l’esortazione, per rendere effettivo tale impellente rinnovamento occorre una “conversione” del papato, da realizzarsi anzitutto con un decentramento ai vescovi di questioni anche dottrinali. A sua volta, l’episcopato deve seguire il gregge che con l’olfatto sa imboccare le strade giuste perché è aiutato dallo Spirito Santo a riconoscere i “segni dei tempi”. Insomma, per la proprietà transitiva, anche le questioni dottrinali sono affidate al gregge dietro al quale si metteranno in buon ordine vescovi e pontefice. Il gregge audace e creatore (meglio dire creativo) deve rompere gli schemi (33). Infatti “Cristo può anche rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina” (11).
Ora, la creatività di Dio Padre Onnipotente è fuori discussione. Un po’ meno immediata quella del Figlio, che non fa la Propria ma la Sua Volontà. Anzi, come scriveva ancora J. R. in “Dio e il mondo”, “i comandamenti acquistano una forma definitiva con Cristo che vi svela il volto del Padre”. Ma il cattolicesimo di Bergoglio è quello protestantizzato dal Concilio che ha sostituito al Padre creatore l’uomo creativo, appunto, di cui Gesù rappresenta il modello supremo. Così Egli, per certa cultura del progressismo nostalgico ancora duro a morire, è potuto diventare persino il primo rivoluzionario marxista della storia, precursore del Che, e prima di Emiliano Zapata e di Pancho Villa, forse anche modello per la Ibarruri, o magari per Ulrike Meinoff, sempre capace di indicare a tutti trionfalmente il sendero luminoso di una salvezza tutta terrena.
In questa prospettiva dovremmo dunque trovare le strade nuove (31) dove ci conduce il mito della libertà fine a se stessa, che ha soppiantato come valore assoluto la verità.
La libertà richiede che si eliminino i divieti (33) secondo il dogma sessantottino del “vietato vietare” che tanti frutti culturali e morali ha portato alla civiltà occidentale. Quindi bisogna previamente liberarsi dalle norme, quantomeno da quelle che limitano appunto la libertà, e dai lacci della dottrina (39), l’attaccamento alla quale dà luogo nientemeno che ad un elitarismo narcisista (93). In secondo luogo dai superati precetti ecclesiali (42) “che possono essere stati molto efficaci in altre epoche ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita”, e dal correlativo linguaggio tradizionale (41). Bisogna guardare al progresso del mondo attuale che si dipana in ogni campo, compreso quello della educazione (sic!), altrimenti si finisce per andare contro i bisogni concreti della storia (95).
L’idea portante ossessivamente ripetuta è dunque quella della necessità di liberarsi dalla legge (45), perché il cuore del Vangelo è l’amore salvifico di Dio e non la sua verità (36). Infatti anche il Vaticano II “ ha posto una gerarchia delle verità nella dottrina cattolica e questa gerarchia vale per i dogmi come per l’insegnamento morale”.
Dunque bisogna liberarsi dalla idea obsoleta che ci sia una verità da imporre a tutti, perché la verità non va imposta (165), “ma semplicemente proposta”, di certo in omaggio al principio del pluralismo democratico. Ne emerge la confusione insanabile tra la questione di metodo e quella di contenuto, mentre si sostituisce il principio liberale della libertà del consenso, che prescinde dal fondamento etico oggettivo della verità proposta e rinuncia preventivamente a farla valere anche qualora essa sia la condizione per la salvezza. Eppure ad un bambino non chiedo se è d’accordo sulla necessità di assumere l’antibiotico per curare la polmonite. Glielo do e basta.
Apprendiamo poco dopo che anche le verità (come ha insegnato il marxismo e il Corano) possono essere diverse, che di volta in volta bisogna utilizzare quella funzionale alle contingenze del caso, e che comunque esiste anche una gerarchia delle verità (36) secondo la quale bisogna dare spazio a quelle ritenute più importanti, per la metafisica bergogliana. Sul punto viene chiamato in causa persino S. Tommaso. Solo che il malcapitato dottore angelico, lungi dall’avere sostenuto la gerarchia delle verità, che avrebbe contraddetto la sua intera filosofia, ha osservato che c’è una gerarchia delle virtù, cosa che è evidentemente, tutt’altra storia.
Data la molteplicità delle verità, non bisogna “rinchiudersi nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili”. Ed ecco espresso in modo lapidario un altro asse portante del pensiero di Bergoglio, secondo il quale con la norma va abolito, ovviamente, anche il giudizio. La conclusione è inevitabile, perché se viene meno la norma sulla quale va modellato il comportamento viene meno anche il criterio per poter giudicare. Ma non in virtù del presunto dettato evangelico. Infatti è evidente come la domanda retorica che servirà al vescovo di Roma per passare alla storia si fonda su una lettura rovesciata del passo di Giovanni 17,24 che raccomanda di giudicare non secondo il punto di vista personale, ma secondo ciò che è giusto (katà ten dikaian krisin).
Giovanni non interdice affatto la possibilità di giudicare, che sarebbe come interdire la possibilità di distinguere tra il bene e il male, ma riafferma come il solo criterio vero di giudizio sia quello fornito  da ciò che è giusto. E l’unico criterio di giustizia oggettivamente valido è ovviamente la legge divina, proprio quella della quale invece siamo invitatati ora a disfarci con tanta insistenza. La norma pone l’esigenza dell’osservanza e la trasgressione quella del giudizio. Tertium non datur. E abolita la norma e il giudizio sulla trasgressione viene abolito anche il peccato, che per il Vangelo della famiglia altro non è se non la violazione delle norme della creazione. E di tale abolizione avremo conferma programmatica, come vedremo, proprio attraverso l’Instrumentum Laboris.
Intanto è confortante andare a rileggere le belle pagine con cui l’arcivescovo di Monaco che diventerà Benedetto XVI affrontava con fede intatta e bellezza di pensiero il tema de quo.
Sempre dall’Evangelii Gaudium apprendiamo che, se bisogna liberarsi dal miraggio di una verità assoluta, altrettanto pericolose sono le “verità soggettive” dei “neopelagiani”, che “si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme e sono fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato” con la relativa “presunta sicurezza dottrinale e disciplinare” (94).
A questo punto l’orizzonte ermeneutico si fa sempre più chiaro: non rimane che affidarsi allo spirito del tempo.
Non manca un qualche riferimento specifico al tema della famiglia laddove al numero 66 vengono citati i vescovi francesi secondo i quali il matrimonio “nasce dalla profondità dell’impegno assunto dagli sposi che accettano di entrare in una comunione di vita totale”. Un po’ poco per il matrimonio cattolico che quell’impegno lo intende perpetuo, ma quanto basta per fare entrare nello schema anche altre forme di comunione di vita.
Colpisce infine come a proposito dell’omicidio, quale contravvenzione ad una norma fondamentale della convivenza umana, vengano menzionate le vittime della povertà, ma non quelle dell’aborto.
L’Evangelii Gaudium contiene molte cose succose anche nella parte successiva, ma fin qui ce n’è già a sufficienza per indirizzare il Sinodo sulla famiglia verso la liberazione dai principi regolatori di matrimonio, filiazione e doveri relativi, cioè ci sono tutti i presupposti per arrivare al Sinodo senza il fardello della legge posta dalla Creazione, e dal peccato che segna la sua violazione.
In seguito è venuta la sconcertante relazione del cardinale Kasper al Concistoro straordinario sulla famiglia del 20 febbraio 2014. Una sortita non casuale e non irrilevante da parte di chi tiene entrambe le chiavi del cuore di Federigo come Federigo stesso ha tenuto a far sapere urbi et orbi quando nel primo angelus lo ha eletto a proprio alter ego teologico. E Kasper, dopo una vita passata in seconda fila a cercare di contrastare il pensiero cattolico ratzingeriano, ora recupera con malcelata euforia il tempo perduto. (Per una esposizione esauriente della teologia Kasperiana, quale è espressa nella Relazione basta leggere quanto scrive Danilo Castellano nel numero di aprile di “Instaurare Omnia in Christo”). Le premesse di quel discorso erano già tutte in una sua opera del 1975 intitolata “Fede e storia” in cui si legge fra l’altro: “la realtà di un mondo senza Dio, di fronte alla quale ci troviamo, è in parte solo la reazione ad un Dio senza mondo”. La tesi è che il male del mondo dipende dalla inveterata pretesa della Chiesa di imporre Comandamenti e Vangelo secondo una interpretazione estranea alla vita della comunità cristiana e che essa sola può essere maestra a se stessa. È la stessa idea che troviamo nell’Evangelii Gaudium: del gregge che può lasciarsi alle spalle la guida, per affidarsi al fai da te. Dunque, i mali della secolarizzazione sarebbero venuti anche dalla sfiducia della Chiesa verso il mondo, una sfiducia che le ha impedito di coglierne i “valori” e la capacità di autoregolarsi. Una cecità imperdonabile che Bruno Forte, anche lui in grande ascesa nel firmamento bergogliano, attribuiva persino – guarda un po’ – alla esasperata accentuazione del sacro della Chiesa preconciliare ( La Chiesa della Trinità).
Su quelle premesse Kasper ha portato l’attacco a tutti quei principi e a quelle regole ritenute prive di una base scritturale e comunque inadeguate allo spirito del tempo. Quello che si avvia ad essere identificato con lo Spirito Santo.
In definitiva, questa teologia “cattolica” non ha trovato di meglio che addossare il misterium iniquitatis, che è esploso con inaudita violenza nel novecento e prosegue ora in altre forme più subdole, alla inadeguatezza dei precetti piuttosto che alla loro violazione.
Ora, tale teologia, dopo avere riabilitato il mondo, decide che il male non esiste perché il mondo è hegelianamente anche buono e non va corretto, ma accarezzato in un dialogo permanente di condivisione semi amorosa. Perché il mondo, come diceva ancora Bruno Forte, “riconosciuto come il luogo del Vangelo nella storia è diventato partner del dialogo della salvezza”. Insomma la realtà è capace di governare se stessa attraverso una fede fatta su misura.
Messe da parte le norme perché nocive, e riabilitato il mondo, manca soltanto la formalizzazione di un nuovo codice che sancisca la pace ufficiale tra Chiesa e mondo e un patto di non belligeranza.
Proprio a questo potrebbe provvedere il Sinodo sulla base di quanto ha predisposto l’Instrumentum Laboris, preceduto come abbiamo visto dal famoso questionario che, come efficace strumento di marketing, può servire le eventuali finalità di adeguamento alle leggi di mercato.
Il documento può sembrare innocuo a chi, aprendolo a caso, vi legga i numerosi riferimenti alla consolidata dottrina della Chiesa sulla famiglia e sui temi limitrofi.
Dunque nulla di nuovo sotto il sole? Purtroppo no. Perché, attraverso un percorso tortuoso quanto ambiguo, emerge l’intento di assecondare le ansie creative e innovative dell’Evangelii Gaudium e di superare proprio l’ostacolo di quella dottrina parte del depositum fidei che, se non può essere abrogata per decreto, deve essere relegata in una teca a lato, in funzione ornamentale come è avvenuto per il tabernacolo nella chiesa postconciliare.
Infatti, poiché il depositum fidei che riguarda l’etica della famiglia si radica nella legge naturale, è proprio questa che viene attaccata frontalmente.
L’operazione è disarmante nella sua quasi patetica evidenza: poiché il vangelo della famiglia si fonda sulla legge naturale, che nel pensiero cristiano coincide con la legge di Dio, e poiché è prematuro cambiare quest’ultima, si cambia il contenuto della legge naturale come se fosse cosa diversa dalla prima.
Si parte dal presupposto che essa sia divenuta ostica agli intervistati, come lo è probabilmente anche agli intervistatori. La sua “inattualità” sarebbe poi dimostrata dal fatto che viene contestata attraverso la pratica massiccia del divorzio e la diffusione delle famiglie allargate. Che non ne viene più compreso il significato anche da chi di fatto la osserva, mentre in altri casi è del tutto ignorata, come accade per le popolazioni aborigene che con le loro usanze la contraddicono.
Non vale la pena di soffermarsi sulla confusione tra natura, contenuto e applicazione della legge naturale che emerge da queste e da altre osservazioni sparse nel testo, e che potrebbe essere anche intenzionale. Quello che emerge in modo preoccupante è infatti il disegno dichiarato di sostituire la legge naturale con tutt’altra cosa, con la sua contraffazione laica e razionalistica.
La base programmatica di questa operazione la si trova ai n. 20 e 21 e al rinvio a quanto già enunciato dalla Commissione Teologica Internazionale nel 2009 (35) in un documento intitolato non a caso “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale”. Qui dunque si afferma che “la relazione tra Vangelo della famiglia e legge naturale poggia sul necessario rapporto tra il Vangelo e l’umano in tutte le sue declinazioni storiche e culturali. La legge naturale risponde così all’esigenza di fondare sulla ragione i diritti dell’uomo e rende possibile un dialogo interculturale e interreligioso e di fondare la pace universale”. E poiché si dice che attualmente “la legge naturale non è più da considerarsi universale perché non esiste più un sistema di riferimento comune”, è evidente come suo elemento essenziale sia divenuto anche per il Magistero la universalità assicurata da un sistema di riferimento comune esterno, quello del fascio dei “diritti dell’uomo” fondati sulla ragione e codificati dalla nuova morale laica sovranazionale alla quale tutti devono guardare. Quella aggiornata alle svariate Dichiarazioni dei Diritti e dalle Costituzioni buone per ogni apertura alle pretese di tutti e ai doveri di nessuno.
Eppure, come diceva Benedetto XVI, per la Chiesa la legge naturale “è quella indicazione interiore che si riverbera in noi dalla creazione”. Ed è compito della evangelizzazione portare gli uomini a scoprirne il contenuto, laddove essi non l’abbiano riconosciuto. Essa è tale non perché osservata statisticamente dal maggior numero di persone possibile, ma perché ha il valore intrinseco datole dalla Provvidenza divina. E la legge giusta deve essere riconosciuta anche se non obbedita, perché preesiste alla obbedienza dell’uomo e rimane oltre la sua disobbedienza. Ci si dimentica che la legge naturale che si manifesta nel logos cristiano non ci dice ciò che facciamo, ma ciò che dobbiamo fare. Essa opera sul piano della obbligazione morale, è la traduzione di un imperativo che sussiste indipendentemente dalle statistiche sulla sua osservanza e che dovrebbe essere svelato anche a chi non è stato in grado di riconoscerne il valore proprio attraverso la missione evangelizzatrice. Perché, cosa significa mai portare la buona Novella se non indicare la via di salvezza? Quella che richiede di essere intrapresa per il bene del singolo e della collettività anche se non risparmia le difficoltà e non riceve una ricompensa esistenziale immediata?
La sofferenza stessa della vita, che l’uomo moderno cerca di allontanare e di eludere pateticamente, diventa sopportabile solo se sentita come parte di un disegno guidato comunque da una Provvidenza che sa e vede oltre quello che noi riusciamo a vedere e di cui ci possiamo dare ragione. Ma la Provvidenza è uscita ormai da tempo dal sentire e dal linguaggio comune e se ne è perduto il significato profondo per gli uomini che, non riconoscendone più il mistero, non trovano più neppure le risorse morali per portare il fardello della esistenza.
Eppure prendiamo atto di questa trovata surreale che ha già fatto la sua strada: dovendo disfarsi della Legge divina che le impedisce di abbracciare il mondo, la Chiesa si mette sotto il controllo di una legge e di un potere oscuri, che sono di per sé incontrollabili. Sposa la legge del mondo nella sua forma falsamente giuridica e falsamente morale dei Diritti Umani, che si legittimano per il fatto di chiamarsi umani e si impongono per l’aggettivo intimidatorio che li dice inviolabili. Come quello di uccidere il proprio figlio e di rinnegare in via anagrafica la propria maternità. Perché la loro “umanità” discende semplicemente dall’essere ciò che l’uomo via via immagina di poter pretendere. Eppure quell’aggettivo è suonato suggestivo e al suo fascino neppure un Wojtyla è riuscito a sottrarsi.
Quello delle dichiarazioni universali dei diritti umani è l’ultima spiaggia cui è approdata un’idea di legge naturale antitetica a quella cristiana di legge divina data all’uomo per la sua salvezza e iscritta, prima ancora che nel suo cuore, dove spesso fa fatica a d essere individuata, nel quadro della creazione, dove non può fare a meno di essere letta attraverso il racconto biblico e l’insegnamento di Cristo.
La legge naturale identificata con il plafond dei diritti umani è la negazione stessa dello orizzonte cattolico, sia sotto il profilo concettuale, sia per le conseguenze nefaste che l’allargarsi aberrante di essi produce ai danni della comunità umana, sia per il loro vizio di origine e per la trama di equivoci che si va aggravando col tempo attorno ad essi.
Il vizio di origine consiste nel fatto che sulla scia delle fluviali Dichiarazioni e Costituzioni che li hanno consacrati, i “diritti” sono andati a sostituire il “diritto”, oscurandone la funzione e stravolgendone il significato.
Diritto è ciò che l’uomo si dà per tutelare una esperienza e una sapienza acquisita a fatica, ma riconosciuta come un bene irrinunciabile da preservare e tramandare a vantaggio di tutti. E’ la sapienza acquistata da una collettività, non senza fatica, per regolare la propria vita comunitaria. Il diritto preserva un sistema di valori riconosciuti attraverso la composizione delle aspirazioni individuali, le pretese che vengono compensate dagli impegni assunti in cambio nei confronti degli altri, cioè attraverso la rete dei diritti e dei doveri. E a garantire la irrinunciabilità e sacralità di quei valori c’è la legge divina, scritta e sentita come garanzia superiore di giustizia.
Ma già i prototipi di tali Dichiarazioni, a cominciare da quella francese, hanno spostato tutto il peso sulle pretese quali realizzazioni della libertà eletta a bene e dono principale dell’uomo. Una libertà che non soffre limitazioni e restrizioni per non perdere il proprio significato di emancipazione da ogni finitezza e da ogni fatica. Per trovare una solida base di ancoraggio, i diritti, al pari di tutto il “diritto”, avrebbero dovuto guardare alla “natura umana” nello orizzonte di una società ricivilizzata dal Cristianesimo. Da una teologia che vede l’uomo come colui che riceve da Dio il proprio status e i doni di creatura eletta ma decaduta per l’atto di disobbedienza.
Ma una volta staccato il legame ideale con la paternità divina, l’uomo è figlio di se stesso e lo stato è la sua proiezione ipostatizzata: ora i diritti umani sono quelli che l’uomo si attribuisce attraverso le leggi dello Stato, attraverso le Costituzioni.
Quando poi anche lo Stato svapora in una entità sovranazionale, in un potere senza più volto e senza responsabilità, inafferrabile quanto invasivo, al quale non possiamo neppure ribellarci per l’impossibilità di identificare il bersaglio, diritto umano diventa un contenitore al quale questo potere senza volto concede l’accesso purché sia funzionale allo allargamento del proprio spazio di controllo universale. Ogni pretesa degli umani che il potere senza volto acconsente di inserire nella gora dei diritti diventa diritto umano, dove l’attributo non ha un contenuto di valore ma sta ad indicare soltanto il beneficiario umano immediato, anzi particolare.
Dalla aspirazione alla trascendenza ideale del diritto come qualificante i valori oggettivi riconosciuti dalla società umana, si è passati alla contabilizzazione di pretese contingenti funzionali agli egoismi particolari, ma anche a poteri sconosciuti.
Se la Chiesa si metterà al servizio di tutto questo, non avrà più nulla da dire e nessun motivo di esistere.
Dopo le proposizioni di fondo l’Instrumentum Laboris abbozza incidentalmente quelle indicazioni che sembrano più in sintonia con i risultati del questionario.
Si va dalla critica implicita alle comunità parrocchiali in cui si coglie il rifiuto per i divorziati e genitori single (omosex?), a quella per la Chiesa che esclude e non accompagna, mentre al n. 80 arriva la citazione diretta dell’E.G . in cui viene raccomandato di tenere aperta la casa del Padre “…con il rifiuto di una visione legalistica superata dalla misericordia che deve curare le ferite”. E dopo una rassegna dettagliata delle tante situazioni aberranti venutesi a creare, e delle loro conseguenze, si fa notare come molte Conferenze sottolineino la “necessità che la Chiesa eserciti una più ampia misericordia, compassione, clemenza ed indulgenza, più attenzione e separati e divorziati” (92) mentre gli omosessuali debbono essere accolti con rispetto, compassione delicatezza, mentre, non a caso, al n. 111 viene riferita la approvazione crescente per le leggi che regolarizzano le unioni omosessuali. Segue al n.118 l’auspicio di un giusto “equilibrio tra accoglienza misericordiosa e accompagnamento graduale verso una autentica maturità cristiana e umana”.
Che significato sia da attribuire alla raccomandazione di usare “delicatezza” verso gli omosessuali è difficile dire. Si tratta forse di una nuova virtù teologale ad hoc? Di certo non si accorda con la pretesa normalità, e connessa libertà, della propria condizione, che gli omosessuali brandiscono per estorcere a proprio favore da una società moralmente disarmata surreali benefici giuridici. E si accorda ancora meno con i tentativi ormai quasi riusciti delle loro potentissime lobby internazionali di impossessarsi della innocenza e della libertà e della vita di intere generazioni da sottrarre alle famiglie per avviarle al panomosessismo.
Infatti fra tanta misericordia non si dice nulla sulla minaccia che questi movimenti, organizzati capillarmente su scala internazionale, stanno traducendo nella imposizione dei devastanti programmi di educazione sessuale e di tutte le aberrazioni che la nuova cultura della libertà senza luce di ragione ha imposto inalberando proprio la bandiera dei “diritti umani”.
Al n. 138 arriva poi la quadratura del cerchio: di fronte a quelle realtà familiari che possono essere definite come irregolari (l’eufemismo è d’obbligo se viene meno il criterio per definirle come peccaminose), si raccomanda di non generare nei bambini e ragazzi coinvolti l’idea di una discriminazione dei loro genitori, nella consapevolezza che “irregolari sono le situazioni, non le persone”.. La spiegazione finale riassume un po’ tutte le distorsioni logiche e purtroppo anche teologiche che hanno eroso il pensiero cristiano, e che in questi atti magisteriali sfiorano il grottesco. La famosa invenzione roncalliana della separazione ontologica tra peccato e peccatore, escogitata come sappiamo per i brutali motivi di una avventata politica ecclesiastica, hanno fatto fortuna al punto di sedurre anche tanti ignari di strategie politiche. Le azioni si distinguono dai fatti, in quanto sono il frutto della coscienza e della volontà dell’uomo, che ne acquista così la paternità e anche la responsabilità. Tanto che sia l’inferno sia le patrie galere hanno sempre ospitato peccatori e rei, e non peccati e reati. Ora, se non si vuol più avere a che fare con i peccatori, bisogna abolire il peccato e prima ancora la legge. Ma se la legge viene abolita, nessun peccato può sopravvivere, neppure la corruzione, l’evasione fiscale, l’ingiustizia sociale o il tradizionalismo liturgico dei neopelagiani..
L’evangelizzazione di cui si parla con una frequenza inversamente proporzionale alla comprensione del suo significato reale non può consistere nell’adeguare l’annuncio alla realtà come si vorrebbe, come se la realtà avesse inglobata anche la propria sapienza, cosa che lo renderebbe del tutto inutile, ma deve porsi come ciò che guida le esistenze e le aiuta a tenere una direzione. È l’indicazione della via vera da percorrere, non il monitoraggio a scopo statistico di quella che viene percorsa.
Ecco invece che l’instrumentum laboris, mentre compie questo monitoraggio rilevando proprio quale sia la perdita dello orientamento nella comunità cristiana e mentre riconosce che sia venuta meno la solida mano della Chiesa, si propone quale rimedio un adeguamento del linguaggio “in modo da comunicare i valori del Vangelo in modo comprensibile all’uomo di oggi”. Ma va da sé che, se di un nuovo Vangelo della famiglia si deve trattare in virtù dell’afflato creativo dell’Evangelii Gaudium e della teologia Kasperiana, il nuovo linguaggio posto a “migliorare il quadro concettuale di riferimento” (sic!) altro non è se non un adeguamento della dottrina alla prassi, anzi una dimenticanza della dottrina tout court.
Non ci si propone di riavvicinare la prassi alla dottrina attraverso la pastorale, ma con una operazione inversa, creare una nuova dottrina dettata dalla prassi e agevolata dalla pastorale.
Ecco perché il Sinodo sulla famiglia minaccia di essere il trampolino di lancio non solo di una nuova pastorale, ma di una nuova teologia. Anzi di una nuova religione: quella elaborata nelle stanze delle ineffabili organizzazioni internazionali che, oltre a vegliare sul nostro benessere materiale, ci assicurano anche una luminosa vita spirituale omologata, su delega espressa della Chiesa Cattolica.

-  di Patrizia Fermani



Redazione
http://www.riscossacristiana.it/perche-sinodo-sulla-famiglia-di-patrizia-fermani/

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