ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 4 luglio 2014

Se gli alberi si devono giudicare dai frutti …



di Corrado Gnerre
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Abbiamo già avuto più volte modo di intrattenerci su quel grande scrittore cattolico del ‘900 italiano qual è stato Giovannino Guareschi. Un cattolico, ma anche uno scrittore tutto di un pezzo, nel senso che non solo sapeva scrivere francamente, senza “peli sulla lingua” come si suol dire, ma anche con quella capacità di “parlare al cuore” che fa di uno scrittore un grande scrittore.

Guareschi è stato anche un “profeta”, uno che ha saputo capire prima di tanti altri i nostri tempi e soprattutto quali sarebbero state le terribili conseguenze di certi nefasti errori. Ovviamente tutto questo non gli derivava da chissà quali carismi, ma solamente dalla sua straordinaria capacità di saper “guardare le cose”, di vederle con quello stupore infantile e contadino che gli dava la possibilità di leggere la realtà attraverso il buon senso, che filosoficamente possiamo anche definire (anche se non c’è una perfetta coincidenza) “senso comune”.
Guareschi ha parlato di tante cose e c’invita a capire tante cose. Per esempio ci dice molto su quella che è oggi una moda molto consolidata tra tanti – troppi – cattolici: l’irenismo. Per la serie: mai litigare, mai far polemica, bisogna sorvolare sulla verità… l’importante è conservare il dialogo e l’armonia. Non è di molto tempo fa l’affermazione di un noto vescovo italiano, monsignor Galantino, niente di meno che segretario della Conferenza Episcopale Italiana, che alla domanda rivoltagli da un giornalista su cosa eventualmente dire a un credente omosessuale, ha risposto affermando che in questi casi bisogna mettersi in ascolto piuttosto che parlare… come se Nostro Signore Gesù Cristo non avesse parlato, denunciato, condannato chiaramente e duramente il peccato… e come se le opere di misericordia spirituale non fossero, appunto, di “misericordia”.
Torniamo a Guareschi. Nel suo Don Camillo e i giovani d’oggi c’è un significativo dialogo. Il pretino progressista, don Chichì, sentenzia rivolgendosi al rude parroco della Bassa: “Don Camillo, la Chiesa è una grande nave che, da secoli, era alla fonda. Ora bisogna salpare le ancore e riprendere il mare! E bisogna rinnovare l’equipaggio: liberarsi senza pietà dei cattivi marinai e puntare la prua verso l’altra sponda. E’ là che la nave troverà le nuove forze per ringiovanire l’equipaggio. Questa è l’ora del dialogo, reverendo!” Ma don Camillo risponde: “Litigare è l’unico dialogo possibile coi comunisti. Dopo vent’anni di litigi, qui siamo ancora tutti vivi: non vedo migliore coesistenza di questa. I comunisti mi portano i loro figli da battezzare e si sposano davanti all’altare mentre io concedo ad essi, come a tutti gli altri, il solo diritto di obbedire alle leggi di Dio. La mia chiesa non è la grande nave che dice lei, ma una povera piccola barca: però ha sempre navigato dall’una all’altra sponda. (…) Lei allontana molti uomini del vecchio equipaggio per imbarcarne di nuovi sull’altra sponda: badi che non le succeda di perdere i vecchi senza trovare i nuovi. Ricorda la storia di quei fraticelli che fecero pipì sulle mele piccole e brutte perché erano sicuri che ne sarebbero arrivate di grosse e bellissime poi queste non arrivarono e i poveretti dovettero mangiare le piccole e brutte?”
Due punti importanti su cui riflettere.
Il primo. Don Camillo dice:“Litigare è l’unico dialogo possibile coi comunisti. Dopo vent’anni di litigi, qui siamo ancora tutti vivi … Qui Guareschi, ovviamente, non fa riferimento al litigio in quanto litigio, ma al fatto che la scelta di rimanere se stessi, di continuare a testimoniare la verità sempre e comunque siano le uniche possibilità per rimanere “vivi”. Vivi come uomini che ancora riconoscono un ordine naturale. Il contrario di ciò che sta avvenendo oggi. Chi è chiamato a proclamare la verità, ha paura di farlo… e diviene una sorta di zombie: non si capisce perché esiste. Oggi verrebbe da chiedersi di tanti sacerdoti che hanno paura di proclamare la verità: ma perché sono sacerdoti? perché esistono? Chi non avverte l’entusiasmo della verità, di difenderla, di annunciarla, di amarla è come uno zombie, nel senso che la sua vita finisce con l’essere organizzata sul disconoscimento dell’ordine naturale delle cose.Don Camillo lo dice: il fatto che io litigo con i comunisti non solo mi ha conservato “vivo”, ma ha fatto sì che i comunisti si conservassero “vivi”. Infatti, quelli del paese del Prete della Bassa erano comunisti molto spesso a parole ma assai poco nei fatti: “I comunisti mi portano i loro figli da battezzare e si sposano davanti all’altare mentre io concedo ad essi, come a tutti gli altri, il solo diritto di obbedire alle leggi di Dio.” 
Veniamo al secondo punto. Don Camillo fa capire quanto sciocca sia la pretesa di “annacquare” la verità per cercare di attirare: si finisce in questo caso non solo di non attirare nessuno, ma anche di perdere chi in precedenza aveva aderito. I dati sono quelli che sono. L’apertura al “mondo” degli ambienti ecclesiali, voluta dalla teologia postconciliare, non ha “convertito” il mondo, ha piuttosto “mondanizzato” la Chiesa. Notizia di qualche mese fa. Secondo dati diffusi dalla Congregazione Vaticana per gli Istituti di Vita Consacrata solo oltre 2600 i religiosi e le religiose che abbandonano ogni anno i loro Ordini. Per la precisione, tra il 2008 e il 2012 sono state complessivamente decise 12.123 dispense formali dalla vita religiosa, premessa per la successiva riduzione allo stato laicale con una media annua di 2.624,6 casi.
Se gli alberi si devono giudicare dai frutti …
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 – di Corrado Gnerre


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