ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 5 settembre 2014

Agli ordini della super loggia del GADU

L'Ucraina mette fine al "partenariato strategico" tra papa Francesco e Vladimir Putin (FOTO)

PUTIN
In principio fu il tango, giusto un anno fa. E il mondo all’improvviso, visto dal Vaticano, sembrò diventare una “milonga”, nome delle sale da ballo di Buenos Aires, al passo della diplomazia decisa e decisionista del nuovo Papa. Istintivo e ispirato. Seducente e audace. Che si scrollava di dosso la compostezza seriosa e le pesantezze da caserma sabauda dei piemontesi Sodano e Bertone, ritrovando la fantasia e il ritmo andante dei tempi andati.

Non già tuttavia i tradizionali giri di valzer con i corteggiatori comunisti e arabi, da Gromiko ad Arafat, a cui la Casa Bianca si era ormai assuefatta senza problemi, nell’interpretazione sofisticata e soffice del duo Casaroli - Silvestrini, campioni della scuola emiliano - romagnola e maestri di danza del veneto Pietro Parolin.
Alle morbidezze del “liscio”, innocenti e tutto sommato innocue, subentravano gli spigoli e gli strappi del tango. Provocanti e provocatori. Che lasciano il segno. Alla stregua di un esperto “milonguero”, il pontefice argentino mostrava infatti la propensione a muoversi negli spazi stretti e a non temere gli abbracci intensi, asimmetrici, a cominciare dal più impegnativo: con Vladimir Putin.
La prima mossa risale al settembre 2013, con l’appello di Bergoglio al leader russo, presidente del G 20 di San Pietroburgo, e l’annuncio di una veglia di preghiera universale, in funzione di scudo stellare, sbarrando la strada dei missili e sbalzando di sella Obama sulla via di Damasco, a protezione del protettore dei cristiani, Bashar al - Assad, resuscitato come un Lazzaro a tempo scaduto e sottratto alla sorte tragica di Gheddafi - Saddam.
Sullo sfondo della folgorazione di San Paolo, il colpo di fulmine tra il Papa e lo zar scattò all’istante, anche se a distanza, spettacolarmente contraccambiato dalle colonne del New York Times, alla maniera delle dichiarazioni d’amore scritte sui muri, nel celebre messaggio in cui Putin, rivolto all’America, citava e arruolava tra i suoi supporter il Romano Pontefice. Una lettera destinata a passare alla storia, per l’assolutezza dogmatica e la pragmatica spregiudicatezza con cui l’ex agente del KGB professava i precetti che oggi disinvoltamente calpesta: e che, a parti invertite, vengono declinati da Washington con uguale, sacerdotale solennità.
“E' molto allarmante - scriveva testualmente l’uomo del Cremlino - vedere che per gli Stati Uniti sia diventato normale intervenire militarmente in conflitti interni ad altri paesi… Noi vogliamo, dobbiamo appellarci alle Nazioni Unite perché crediamo che sia l'unico modo per preservare l'ordine e le leggi internazionali…La legge è ancora la legge, e che ci piaccia o no, dobbiamo ancora seguirla…”
Un anno dopo, la promessa e la memoria di Putin si sono smarrite tra Sebastopoli e il Don. Eppure nove mesi fa parvero davvero foriere di una inedita, inaudita Santa Alleanza e confluenza d’intenti tra il Tevere e la Moscova, quando il 25 novembre Vladimir Vladimirovič varcò la soglia della Città Leonina, precedendo di un semestre Barack Obama.
A dispetto delle differenze caratteriali, o forse grazie a queste ultime, come accade nelle passioni brucianti e irrefrenabili, lui e Francesco sembravano fatti per intendersi, conforme al refrain per cui gli opposti si attraggono. Sulla spinta di una motivazione complementare: uno scambio alla pari tra soft e hard power. Fra l’uomo più potente del pianeta secondo Forbes e il più popolare secondo Time.
dudù
Quel giorno, scrivemmo a caldo, nelle sacre stanze andò in scena una esibizione di judo, disciplina ove Putin è maestro e l’abilità consiste, notoriamente, nel fare leva sulla forza dell’avversario. Con vantaggio reciproco. Da una parte i cosacchi, che finalmente abbeveravano i cavalli a San Pietro, attingendo alle fontane del soft power, unica risorsa “energetica” di cui la madre Russia, generalmente feconda di materie prime, geneticamente difetta. Dall’altra l’erede di Stalin, che con magnifico contrappasso offriva al Papa l’hard power delle proprie divisioni, dispiegate in difesa delle comunità mesopotamiche.
Un “partenariato strategico” in grado di schiudere a Bergoglio impensati e insperati orizzonti, accorciando i tempi e il tragitto dell’agognato viaggio a Mosca. Se non fosse che proprio il 25 novembre, a pochi metri e a poche ore dall’incontro con Putin, Francesco riceveva una fatidica premonizione. La coincidenza con la festa di San Giosafat, vescovo cattolico assassinato dagli ortodossi e gettato nella Dvina nel 1623, faceva riemergere dal fiume del tempo lo spettro del passato e lo depositava sulla riva del summit, materializzando il principale ostacolo al cammino dei Papi verso Est.
Attorno alle spoglie del martire, traslate a Roma nella Basilica Vaticana, si erano radunati per la ricorrenza tremila fedeli provenienti da Kiev e discendenti dagli ucraini dell’Ovest, culturalmente i più contigui all’Europa, che nel lontano 1596, su pressione dei conquistatori polacchi e poi austriaci, lasciarono l’Ortodossia per tornare all’unità con la Sede Apostolica, originando il fenomeno storico dell’Uniatismo. Concetto religioso e categoria geopolitica. In sintesi, l’incorporazione progressiva di pezzi dell’Oriente cristiano, obbligati ma non omologati, che convolavano nelle braccia dell’Occidente ma conservavano l’abito nuziale delle proprie tradizioni e convenienze. In un matrimonio d’amore, testimoniato da inossidabili fedeltà e feroci persecuzioni, e insieme d’interesse.
Fu quello, agli occhi del Cremlino, il primo e nefasto “trattato di associazione” fra l’Ucraina e l’Unione Europea, con sorprendenti analogie e assonanze, a quattro secoli di distanza, tra economia e liturgia: come gli Uniati, detti per questo greco - cattolici, si aggregarono a Roma senza rinunciare al cerimoniale bizantino - slavo e sottomettersi alla regola del celibato, così l’Ucraina si accinge oggi a integrarsi nel mercato europeo, ma senza officiare i riti burocratici di Bruxelles e, soprattutto, praticare la castità monetaria imposta da Berlino.
La costituzione di due “Ucraine”, che si va definendo e cristallizzando in queste ore, chiude dunque una faglia confessionale di mezzo millennio e conduce al pettine in modo brutale ma dirimente un nodo antico, sancendo una nuova divisione tra Est e Ovest, su base non più ideologica bensì spirituale. Anche la Russia, del resto, aveva proceduto già nel 1589 all’annessione religiosa delle province orientali, subordinandole al Patriarcato di Mosca e trasferendo a Nord il primato appartenuto a Kiev.
Non caso, tra le misure urgenti adottate attualmente dai ribelli della repubblica separatista, il vescovo greco - cattolico di Donetsk “è stato cacciato dalla sua sede e la sua cancelleria è stata sequestrata con tutti i documenti”, al pari di una spia o quinta colonna, come ha denunciato alla Radio Vaticana l’arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, quarantenne capo degli Uniati. Un patriota battagliero e irriducibile, poliglotta e globalizzato, che il Papa conosce assai bene, provenendo entrambi da Buenos Aires, e al quale ha negato la porpora nel concistoro di febbraio, per mantenere un profilo basso, evitando di urtare la suscettibilità del Cremlino e scivolare in un testacoda di polemiche.
Come avevamo evidenziato all’inizio dell’anno, l’Ucraina costituisce il test più delicato, complicato, perfino incomprensibile per il Pontefice argentino, cresciuto nella mitologia della “patria grande” e cultore dell’unità ecumenica del continente. La sfida che avrebbe voluto evitare ma che è venuta fuori dall’urna della storia, nel centenario della guerra che innescò l’implosione dell’Europa e in contemporanea con l’esplosione del Medio Oriente.
Dopo avere puntato sullo strappo con gli Stati Uniti, per mandare un segnale forte alle opinioni pubbliche del mondo arabo, e sull’abbraccio asimmetrico con Putin, il Papa si vede costretto a ricominciare da capo. Il magnetismo dell’ “Estero Interno”, nelle priorità del Cremlino, ha fatto premio sul richiamo dell’ “Oriente Esterno”. L’ambizione atavica di riunire i russi alla madre patria, tra la Crimea e il Donbass, ha prevalso sulla missione storica di proteggere i cristiani, da Betlemme a Mossul.
Sicché, rimasta senza cavalleria e cavaliere, la Santa Sede riconsidera la disponibilità dello spasimante d’oltreoceano, a suo tempo respinto, che in mancanza di legioni angeliche manda in soccorso gli stormi dei droni. 
Come nel tango, gli sguardi del Vaticano e dell’America si incrociano invitanti, con un cenno del capo, un timido ma preciso “cabeceo”, riscoprendo se non l’attrazione, l’univoca direzione. Non la passione, ma una medesima propensione.
Da un angolo all’altro dell’immensa milonga del mondo, Francesco e Obama si ritrovano allineati sugli stessi fronti e accomunati dagli stessi fini: ambedue intenti a consolidare l’avanzata nell’Oriente lontano, accerchiando la Cina, e a scongiurare la ritirata dall’Oriente vicino, accerchiati dall’Islam. Memori della regola e dello spirito del tango. Dove i protagonisti sovente devono improvvisare. Ma non possono fare marcia indietro.
Berlusconi e Putin, che amicizia
1 di 24 
 
Il messaggio delle Femen a Putin
1 di 23 
 
Ap

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.