ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 12 febbraio 2015

Alla radice del problema.

Messa Vetus Ordo e Novus Ordo 

L’ultima puntata della rubrica “Fuori moda” ha suscitato un buon numero di interventi sul tema della Messa, solo accennato nella risposta al signor Astolfi. Questo è un buon segno perché dimostra che i lettori hanno colto il problema dei problemi, la radice alla quale chiunque affronti sinceramente la crisi della Chiesa deve arrivare.

di Alessandro Gnocchi

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A questo proposito vorrei prendere un po’ di spazio, e molta della vostra pazienza, perché ritengo necessario fornire gli elementi fondamentali a una riflessione compiuta, che non possono essere lasciati a una semplice osservazione inserita in uno scritto colloquiale.
L’osservazione, che riporto dalla mia risposta al signor Astolfi, è la seguente: “la  rinascita della fede cattolica passa solo attraverso la restaurazione della liturgia cattolica, che non è quella inventata a tavolino da Annibale Bugnini e promulgata da papa Paolo VI, ma quella che ci è stata consegnata da secoli e secoli di tradizione. Mi rendo conto che non è sempre facile trovare una Messa in rito antico, ma, quando è possibile, conviene sforzarsi di farlo anche a costo di macinare chilometri a fatica: ne va della gloria che dobbiamo tributare a Dio e della salvezza della nostra anima”.

A questo punto, procederei in modo schematico precisando “quello che non ho detto”, “quello che ho detto”, “quello che un semplice laico può dire a chi chiede un parere”. Poi, per dare sostanza a queste precisazioni, riporto una lunga sezione del capitolo sulla riforma liturgica di Paolo VI che avevo scritto per “La Bella addormentata”, il libro sulla crisi generata dal Vaticano II, pubblicato con Mario Palmaro.
Quello che non ho detto. Non ho detto che la Messa Novus Ordo, la Messa nuova, non è valida. Non ho detto che chi partecipa alla Messa Novus Ordo non assolve il precetto festivo. Non ho suggerito se e come surrogare la mancata partecipazione alla Messa Vetus Ordo, la Messa tradizionale. La frase della risposta al signor Astolfi mi pare chiara e non ha bisogno di modifiche, dunque la riporto così com’è: “Mi rendo conto che non è sempre facile trovare una Messa in rito antico, ma, quando è possibile, conviene sforzarsi di farlo anche a costo di macinare chilometri e fatica”.
Quello che ho detto. Parto dalla frase che, nella risposta ad Astolfi, segue quella appena riportata: “ne va della gloria che dobbiamo tributare a Dio e della salvezza della nostra anima”. Perché, salvo la consacrazione, deve essere ben chiaro che la Messa Novus Ordo non è la stessa cosa della Messa in Vetus Ordo. Tutto ciò che viene prima e dopo la consacrazione è radicalmente diverso. Perciò ho anche detto: “la liturgia cattolica, che non è quella inventata a tavolino da Annibale Bugnini e promulgata da papa Paolo VI, ma quella che ci è stata consegnata da secoli e secoli di tradizione”.
 Le ragioni di questa affermazioni le trovate nel capitolo della “Bella addormentata” che trovate di seguito.
Quello che un semplice laico può dire a chi chiede un parere. La Messa è il cuore della fede: la Lex orandi si accompagna alla Lex credendi, perché si prega come si crede. Osservando onestamente i due riti è difficile immaginare che esprimano la stessa fede. E non mi riferisco al confronto tra il rito antico e le degenerazioni di quello nuovo che vanno sempre più diffondendosi, ma mi riferisco al confronto tra i due messali.  È vero che ci sono buoni sacerdoti che tentano di “cattolicizzare” la Messa nuova, ma questo tentativo dimostra un deficit evidente di cattolicità. Non si può affermare che il Novus Ordo celebrato bene valga quanto il Vetus Ordo poiché si tratta di riti diversi: portando alle estreme conseguenze il ragionamento allo scopo di farsi capire, il Vetus Ordo celebrato male è sempre meglio del Novus Ordo celebrato bene. Altro errore da non commettere è quello di valutare una Messa in base all’omelia: una Messa Novus Ordo con una buona omelia è sicuramente edificante per chi vi assiste, ma non compie l’atto essenziale: tributare a Dio il culto che Lui chiede agli uomini. L’eventuale coesistenza dei due riti, laddove quello antico non viene negato, può essere una necessità di fatto, ma è deleterio come scelta di principio: non può esserci travaso da uno all’altro perché il Novus Ordo è stato concepito per cancellare dalla memoria il Vetus Ordo.
Per quanto riguarda i fedeli che non hanno materiale possibilità di partecipare al rito antico, rimane il fatto che, attraverso quello nuovo, possono accedere alla Comunione sacramentale e questo è un fatto importante. Ma bisogna tenere presente che la Messa è, prima di tutto, un atto di culto dovuto dall’uomo a Dio, un diritto di Dio di essere adorato come Lui stesso chiede, e non un diritto dell’uomo.
Infine, per quanto riguarda l’esito ultimo della riforma liturgica, non ho dubbi nell’affermare che sia la distruzione della fede cattolica. Per comprenderlo suggerisco la lettura di un libro di Michael Davies, “La riforma liturgica anglicana”, di cui Cristina Siccardi ha scritto una splendida recensione per “Riscossa Cristiana”. Questo lavoro mostra come, mutando la liturgia, nell’Inghilterra anglicana si sia mutata la fede. Ma ciò che inquieta il lettore di oggi è che la riforma liturgica promulgata d Paolo VI somiglia tragicamente da vicino a quella inglese e, dunque, può portare solo a esiti simili, come dimostrano i fatti e non le teorie.
I fedeli che partecipano alla nuova liturgia e mantengono la fede cattolica ci riescono nonostante quella liturgia e non in virtù di essa, come invece dovrebbero essere. Sono destinatari di una grazia particolare di cui devono essere particolarmente grati al Signore e che sono chiamati a far fruttare nel luogo e nel tempo in cui si trovano.
Qui mi fermo perché non intendo, così come non intende “Riscossa Cristiana”, prendere le parti della guida spirituale che indica pubblicamente al prossimo come comportarsi in una materia tanto grave e in una situazione tanto confusa. In ogni caso mi metto a disposizione per parlarne individualmente in amicizia e spiegare, per esempio, come mi regolo personalmente. Chi voglia contattarmi può farlo scrivendo a “Riscossa Cristiana”, info@riscossacristiana.it, oppure, se lo ha già, al mio indirizzo e-mail personale o, ancora, telefonandomi se ha il mio numero.
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Da “La Bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà”
(…)
Per uscire da tale cortocircuito teoretico, bisogna compiere un banale ragionamento da storici. Basta considerare i fatti con mente sgombra e porsi una semplice domanda: se si pensa a una Messa qualsiasi di una chiesa qualsiasi degli Anni Cinquanta e poi la si confronta con una Messa qualsiasi di una chiesa qualsiasi dell’anno di Grazia 2011, si può onestamente dire che nulla sia cambiato? (…)
La Croce e il mistero pasquale
(…) Questo fenomeno è dovuto a una teologia che ha assorbito il concetto classico di Redenzione in quello di mistero pasquale. In tal modo, nella nozione di Redenzione passano in secondo piano la necessità di soddisfare la giustizia divina, la Passione di Gesù e la cooperazione dell’uomo, mentre vengono esaltati l’amore, l’iniziativa di Dio e la nuova vita della Resurrezione. Una delle sintesi più efficaci di questa impostazione si trova nel saggio Qu’est-ce le mystère pascal (Cos’è il mistero pasquale) pubblicato nel 1961 da Aimon-Marie Roguet, che poi sarà membro del Consilium per l’attuazione della riforma: “Come un’offesa infinita può essere può essere soddisfatta? Come l’innocente può pagare per il colpevole? È da deplorare che per molti dei nostri contemporanei, la Redenzione si presenti in questi termini. Certi, infatti, ne sono scandalizzati nel loro senso di giustizia e trovano nella Redenzione così presentata un’obiezione insuperabile contro la bontà di Dio. Se fosse veramente Padre, sarebbe un Dio contabile così esigente e trasferirebbe la sua collera sul suo Figlio diletto? Nella presentazione del mistero pasquale, invece, non si incontrano questi scogli. Infatti, in esso la nostra salvezza appare operata da un atto vitale e gratuito, una libera iniziativa di Dio, uscita totalmente dal suo amore misericordioso”.
Una nuova concezione di peccato
In questa luce, non avendo più lo scopo di soddisfare la giustizia divina, la Passione e la Croce di Nostro Signore sbiadiscono fino a perdere di senso. Perché soffrire, se è inutile? Ma se la Redenzione è opera di un amore che ignora la giustizia, se è Dio ad andare in cerca dell’uomo senza che l’uomo vada in cerca di Dio, è evidente che cambia la nozione di peccato.
Il ragionamento che sostiene questa tesi parte da una premessa formalmente giusta, ma non sufficiente: come l’omaggio di una creatura nulla aggiunge a Dio, così l’offesa nulla Gli toglie. A corollario di tale teorema si pone in evidenza che il peccato porta pregiudizio solo all’uomo peccatore. La premessa, vera sul piano formale, veicola una volontaria ambiguità perché omette di spiegare che, se il peccato non lede la natura di Dio, lede il suo diritto a essere adorato e obbedito. La teologia classica ha sempre spiegato che il peccato è un’ingiuria all’onore di Dio misurata in base alle esigenze della maestà divina piuttosto che in base ai danni causati al peccatore stesso. Siccome Dio ha creato tutto per la propria gloria, l’uomo deve ordinare ogni sua azione a tale fine e, ove non lo faccia, si costituisce peccatore e contrae un debito di giustizia.
Secondo la nuova visione teologica, invece, il peccatore porta pregiudizio solo a se stesso e alla società, ma solo indirettamente a Dio. In quest’ottica, come scrisse Emile Mersch in Cristo, l’uomo e l’universo. Prolegomeni alla teologia del Corpo mistico, la redenzione “non ha lo scopo di restituire qualcosa a Dio, ma di restituire Dio all’uomo”.
L’evidente natura antropocentrica di tale prospettiva va contro l’insegnamento di San Paolo, secondo cui il peccato comporta la collera di Dio, che si esprime già su questa terra con delle pene, ma si manifesterà soprattutto nell’ultimo giudizio.
Fenomenologia di un capovolgimento
Dall’affermazione che l’opera redentrice di Cristo ha come scopo la sola rivelazione dell’amore del Padre, conseguono due cambiamenti radicali nella teologia della Redenzione. Il primo consiste nell’attribuire quest’opera più a Dio Padre che a Cristo come uomo. Quest’ultimo diverrebbe solo il “luogo” nel quale Dio salva l’umanità manifestando il proprio amore. Il secondo cambiamento consiste nel trasferimento dell’atto principale della Redenzione dalla morte di Cristo alla sua Resurrezione e Ascensione. “Chi parla di Redenzione” dice Roguet nel suo saggio sul mistero pasquale “pensa anzi tutto alla Passione e poi alla Resurrezione come ad un completamento. Chi parla di Pasqua pensa anzi tutto a Cristo resuscitato. La Resurrezione non appare più come un epilogo, ma come un termine e il fine nel quale si riassume il mistero della salvezza”.
La sintesi mostra il capovolgimento di orizzonte. La teologia classica, secondo l’insegnamento di San Paolo, non eclissava il ruolo della Resurrezione, ma come spiega Roguet, la subordinava alla Passione e alla Croce. Pochi anni prima del Concilio, nel 1956, Papa Pio XII la sintetizzava nell’enciclica Haurietis Aquas: “Il Mistero della Divina Redenzione, infatti, è propriamente e naturalmente un mistero di amore: un mistero, cioè, di amore giusto da parte di Cristo verso il Padre celeste, cui il sacrificio della Croce, offerto con animo amante ed obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante ed infinita per le colpe del genere umano (…). Pertanto il Divin Redentore — nella sua qualità di legittimo e perfetto Mediatore nostro — avendo, sotto lo stimolo di una accesissima carità per noi, conciliato perfettamente i doveri e gli impegni del genere umano con i diritti di Dio, è stato indubbiamente l’autore di quella meravigliosa conciliazione tra la divina giustizia e la divina misericordia, che costituisce appunto l’assoluta trascendenza del mistero della nostra salvezza, così sapientemente espressa dall’Angelico Dottore in queste parole: ‘Giova osservare che la liberazione dell’uomo, mediante la passione di Cristo, fu conveniente sia alla sua misericordia che alla sua giustizia. Alla giustizia anzitutto, perché con la sua passione Cristo soddisfece per la colpa del genere umano: e quindi per la giustizia di Cristo l’uomo fu liberato. Alla misericordia, poi, poiché, non essendo l’uomo in grado di soddisfare per il peccato inquinante tutta l’umana natura, Dio gli donò un riparatore nella persona del Figlio suo. Ora questo fu da parte di Dio un gesto di più generosa misericordia, che se Egli avesse perdonato i peccati senza esigere alcuna soddisfazione. Perciò sta scritto: Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre colpe, ci richiamò a vita in Cristo’”.
Il culto del pubblicano e il culto del fariseo
In opposizione a un magistero limpidissimo, nel periodo preconciliare la nuova teologia del mistero pasquale, che ebbe nel benedettino Odon Casel uno dei più efficaci propagandisti, trovò sostenitori tra teologi e liturgisti come  Henry Pinard de La Boullaye, Emile Mersch, Yves de Montcheuil, Adalbert Hamman, Edouard Schillebeeckx, Annibale Bugnini, Jean Gaillard, Cipriano Vagaggini: quasi tutti nomi che, a vario titolo, portarono il loro decisivo contributo nei lavori per la riforma liturgica.
Il risultato più evidente fu l’oscuramento dell’aspetto sacrificale nel messale promulgato da Papa Paolo VI, vieppiù smarrito nel corso del tempo a causa della creatività dei celebranti. L’attiva partecipazione auspicata dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, in realtà, si è tradotta nel protagonismo dell’uomo che è andato a sostituire la centralità di Dio.
Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla Passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Cristo, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio.
Non è un caso se tra le molte parti della Messa antica eliminate nel nuovo messale c’è quella in cui, prima di salire all’altare, il sacerdote si inchina a chiedere perdono come il pubblicano della parabola del Vangelo di San Luca. Alla luce del cambiamento non ve n’è più ragione. Qualsiasi uomo raggiunga la consapevolezza di non dover scontare pena alcuna per i suoi peccati può stare ritto come il fariseo e rendere grazie: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”.
Ci vuole un seme
L’abbandono dell’atteggiamento del pubblicano davanti a Dio ha prodotto indifferenza alla Croce, all’eucaristia e alla Presenza Reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino. Pochi anni orsono, per citare solo un esempio, la diocesi di Bergamo consegnò ai giovani inviati in missione tra i loro coetanei un Crocifisso alla base del quale era stato aggiunto un seme come segno di speranza: la Croce, evidentemente, non lo è più. Oggi si arriva anche a costruire tabernacoli a due posti per la conservazione dell’eucaristia, scritta in minuscolo, e della Parola, scritta in maiuscolo. Nei ritiri per sacerdoti sta diventando pratica comune l’ora di adorazione della Bibbia invece che del Santissimo Sacramento. Oppure capita pure che, se durante la distribuzione della comunione non bastano le particole, il sacerdote ne mandi a prendere altre in sacrestia e le metta nella pisside continuando tranquillamente il suo lavoro: come se la consacrazione avvenisse per contatto, o come se, c’è da temere, il sacerdote abbia più di qualche dubbio sulla Presenza Reale.
A proposito di queste deragliamenti, nel suo saggio Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, monsignor Brunero Gherardini riporta con comprensibile scandalo un brano della relazione tenuta a Madrid nel 2004 da padre Timothy Radcliffe durante le “Giornate nazionali di pastorale giovanile vocazionale” della Conferenza dei religiosi spagnoli. La relazione di padre Racliffe, che è stato maestro generale dell’ordine domenicano dal 1992 al 2001, ha come titolo “Sessualità ed eucaristia: il dono del corpo” e comincia così: “Voglio parlare di Ultima Cena e sessualità. Può sembrare un po’ strano, ma pensateci un momento. Le parole centrali dell’Ultima Cena sono state: ‘Questo è il mio corpo, offerto per voi’. L’eucaristia, come il sesso, è centrata sul dono del corpo. Vi rendete conto che la prima lettera di san Paolo ai Corinzi si muove fra due temi, la sessualità e l’eucaristia? Ed è così perché Paolo sa che abbiamo bisogno di capire l’una alla luce dell’altra. Comprendiamo l’eucaristia alla luce della sessualità e la sessualità alla luce dell’eucaristia”.
Non sarebbe stato necessario citare questo brano già riportato da monsignor Gherardini se non vi fosse da aggiungere una notazione: un testo capace di scandalizzare un teologo di lungo corso ha incontrato invece l’entusiasmo e l’approvazione dei prenovizi domenicani di Bergamo, che lo hanno riportato con grande enfasi nel loro blog vitaefratrum.blogspot.com.
Evidentemente, aveva ragione Marshall McLuhan quando mostrava le conseguenze della celebrazione con il sacerdote rivolto verso il popolo. Lo faceva nel 1974 con il saggio “La liturgia e il microfono”, tradotto in italiano nel 2003 nella raccoltaLa luce e il mezzo. Un “(…) nuovo e intenso impulso visivo” scrive lo studioso canadese “favorì il posizionamento dell’officiante di fronte alla congregazione, separata da una tavola/altare. Questa pratica fu accettata dalle chiese della Riforma e respinta da Roma. L’esperienza visiva, naturalmente, esclude la metamorfosi e la transustanziazione, perché lo spazio visivo o euclideo è il solo canale sensoriale statico conosciuto dall’uomo”.
In altri termini, lo sguardo diretto sulla tavola/altare induce i fedeli a dubitare della transustanziazione poiché le specie del pane e del vino non mutano visibilmente sotto i loro occhi nell’atto della consacrazione. Vale la pena di notare che, nel 1974, McLuhan parlava di un tale effetto attribuendolo alla rivoluzione protestante. E’ inquietante notare che, solo qualche decennio dopo l’introduzione della riforma liturgica, lo stesso ragionamento vale per la grande maggioranza delle celebrazioni cattoliche.

– di Alessandro Gnocchi



Redazione

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