ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 14 febbraio 2015

Il verbo intermedio.

Le parole in (apparente) libertà e il catastrofico risultato 

Falsando le parole di Gesù Cristo, che non dice di non  giudicare, ma di giudicare rettamente, ne è risultato il monito a non giudicare tout court, un monito che è diventato il cavallo di battaglia del relativismo mascherato da dottrina cattolica. Un passo avanti per confondere  le idee e tirare acqua al mulino dell’indifferentismo religioso, etico, ed estetico in cui si va sciogliendo tutta la società in Occidente.

di Patrizia Fermani

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Tempo fa, in costanza dei principi non negoziabili e nella piena fedeltà ad essi, Alleanza Cattolica formula il proprio manifesto su famiglia e coppie omosessuali. Vi si legge che è improponibile qualunque riconoscimento  giuridico della convivenza tra persone dello stesso sesso, e che l’unico modello cattolico plausibile è quello della famiglia monogamica fondata sul matrimonio indissolubile. Dunque tra questo Manifesto e il disegno di legge presentato come “Testo Unico delle convivenze” da “Sì alla famiglia”, che dell’associazione è una recente creatura, si deve essere  inserito un evento  capace di cambiare le carte in tavola, e in virtù del quale oggi, nelle credenziali ufficiali della stessa associazione, convivono  in modo sorprendente due programmi in totale contraddizione tra loro.

L’evento che sta in mezzo  a questi due poli è senza dubbio il nuovo corso pontificio inaugurato ufficialmente da Bergoglio nel famoso volo di ritorno dal Brasile. E questa non è una mera ipotesi, poiché lo stesso Introvigne nella relazione di apertura del Convegno di Milano, ha esordito dicendo subito che il proprio riferimento ideale, e quello di “Si alla famiglia”, sta ora nella ormai  storica frase di Bergoglio diventata la nuova bandiera della morale cattolica sessuale e no. Ed è nella luce  di quelle parole  che deve essere letto lo stesso  disegno di legge.
Conviene dunque tornare brevemente sulla frase famosa che, bisogna riconoscerlo, se non ha cambiato  il mondo intero, sicuramente ha fornito anche al c.d. mondo cattolico ottime ragioni per imboccare  una strada sulla quale fino a poco tempo fa aveva ancora qualche remora ad avventurarsi.
In genere le frasi  famose non brillano per profondità di pensiero o per eleganza espressiva –  non hanno la densità di vita e di esperienza  dei detti popolari –  e godono  di una fortuna  proporzionata  alla loro apparente banalità (vedi la napoleonica “Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca” o “honni soit qui mal y pense”, la frase che ha fondato l’Ordine della Giarrettiera).
Questa del vescovo di Roma, espressa in un’ inusuale forma retorica, è stata addirittura liberatoria come il tappo dello spumante a capodanno, e ha fatto immediatamente il giro del mondo, perché si è colto subito che  aveva anche una precisa e mirata portata programmatica le cui conseguenze non avrebbero tardato a farsi sentire. Infatti  mentre ha significato da un lato la normalizzazione ecclesiastica dell’omosessualità,  dall’altro ha fornito ai c.d. cattolici dialoganti ed inclusivi, misericordiosi e adattabili a tutti i climi culturali, la possibilità di abbandonarsi senza problemi di coscienza alle direttive dell’Ordine collettivo mentre sembra essersi realizzato per loro ancora una volta il fatidico “incontro con una persona” la quale ultima, se non è Cristo, si presenta pur sempre nelle vesti del suo Vicario ufficiale.
L’antefatto è noto, la giornalista chiede a Bergoglio quali provvedimenti intenda prendere riguardo all’alto prelato che egli stesso ha messo da poco trionfalisticamente a capo dello Ior, e sul conto del quale si sono accumulate accuse infamanti di pederastia, per vero già prima di quella nomina pontificia.  La domanda è lineare:  parte dal presupposto implicito che i fatti addebitati siano in contrasto con la morale comune prima ancora che con i comandamenti e il Vangelo, e quindi essa non verte  sul come tali fatti possano essere giudicati, cosa che la giornalista dà per scontata,  ma sui provvedimenti  “amministrativi” ovvero disciplinari che il vescovo di Roma  intende prendere.
Ecco però che, a sorpresa, Bergoglio risponde a sua volta con una domanda retorica che svia tutto il discorso capovolgendo il punto di vista  della giornalista, …”…se uno cerca il Signore, Chi sono io per giudicare”?
Una risposta che merita una analisi particolare, alla quale è bene premettere però una breve riflessione sul luogo comune che in essa riecheggia.
Giudicare significa  valutare, considerare un certo oggetto secondo un criterio predefinito, ed è attività che interessa tutti i comportamenti umani. Ci permette di fare la spesa e di insegnare ad un bambino la buona educazione, di preferire una attività onesta a una criminale o viceversa, ma  anche di  riconoscere un amico affidabile, o una buona proposta politica.  Il giudizio appartiene alla realtà indefettibile della vita individuale e di quella sociale, dà un contenuto alle leggi e fonda la istituzione  dei tribunali.  Il cristiano trova la mappa dei criteri di valutazione delle azioni proprie e altrui nei comandamenti e nel Vangelo, nel logos che si è fatto carne. Infatti Gesù Cristo dice “non giudicate secondo quello che è il vostro metro individuale di giudizio, ma secondo il retto giudizio” (Gv 7,24), dove per retto giudizio  si deve intendere  evidentemente il giudizio giusto nel senso cristiano,  cioè formulato secondo i criteri dettati dalla fede. L’uomo giusto era per l’Antico testamento l’uomo fedele al Signore.
Tuttavia è invalso l’uso di leggere la pericope solo a metà, cioè tralasciando  la indicazione del criterio che deve guidare ogni giudizio, e falsando così le parole di Gesù Cristo che non dice di non  giudicare, ma di giudicare rettamente. Ne è risultato dunque il monito a non giudicare tout court, un monito che è diventato il cavallo di battaglia del relativismo mascherato da dottrina cattolica. Un passo avanti per confondere  le idee e tirare acqua al mulino dell’indifferentismo religioso, etico, ed estetico in cui si va sciogliendo tutta la società in Occidente. Eppure dovrebbe essere evidente che un tale nuovo  comandamento si risolve semplicemente nella  abolizione di ogni differenza tra il bene e il male e nella conseguente elusione di ogni norma di comportamento, perché se non fosse evangelico formulare giudizi di sorta, sarebbe  improponibile tutta la vita di relazione e  ogni attività  autocritica. Al contrario al cristiano è stata fornita una chiara mappa di criteri, quelli dei comandamenti e del Vangelo, sui quali va esercitata ogni attività legittima e imprescindibile di giudizio, e senza la quale  avremmo avuto un’altra religione,  un’altra vita, un’altra civiltà.
Va anche detto che l’attività di giudizio si manifesta in modo diverso in ragione del ruolo che  ricopre chi la esercita. Ciascuno si fa guidare  dalla coscienza della legge morale cattolica tacitamente, ma chi ha responsabilità pastorale e magisteriale, quella legge morale la deve anche illustrare e insegnare. Cioè c’è un’attività di giudizio che pratichiamo individualmente nella vita di ogni giorno,  e una attività di giudizio che deve essere trasmessa per dovere di ufficio da chiunque abbia responsabilità di insegnamento e di disciplina. Quella del pastore che indica al gregge quale sia la direzione  da  prendere.  Sempreché egli non si sia arrogato il diritto di cambiare il proprio mansionario.
Per tornare ora a quella  domanda con cui Bergoglio ha risposto ad un’altra domanda, vediamo che essa contiene almeno tre proposizioni: 1) se uno tiene un certo comportamento ritenuto peccaminoso ma cerca il Signore, anche l’eventuale  problema del peccato è superato.  2) nessuno può emettere giudizi su ciò che così è stato emendato. 3) Poiché neppure al vescovo di Roma  è consentito emettere giudizi, egli non ha neanche titolo per prendere provvedimenti contro chicchessia. Sullo sfondo ovviamente c’è pure la  vecchia cara distinzione tra peccato e peccatore che con la assoluzione del secondo cancella anche il primo, quella che permise a Roncalli di lanciare un epocale “ rompete le righe”.
È evidente che qui si confondono fra loro almeno tre piani: quello dell’etica con quello della coscienza e questo con quello del dovere magisteriale, sul presupposto che non sia comunque lecito giudicare il peccatore e che la ricerca del Signore cancella anche il male oggettivo intrinseco al peccato.
Anzitutto il peccato di sodomia che non ha mai incontrato l’indulgenza cristiana, né poteva incontrarla perché contraddice il progetto divino, ora entra nella rosa del comprensibile, dell’illuministica intelligenza  dei tempi nuovi con cui la Chiesa tradisce il compito che le era stato assegnato. Ma il peso della proposizione va ben oltre il tema dell’omosessualità. Alla fine quello che è rimasto sul fondo di questa esternazione né casuale né preterintenzionale, sarà ben presto la negazione inequivocabile (anche se contenuta qua e là in tante uscite estemporanee o anche insinuata tra le pieghe di documenti ufficiali), della  differenza oggettiva  tra il bene e il male e del compito della Chiesa di proclamarla, poiché  non esiste una verità al di fuori di quella  individuata da ciascuno all’interno della propria coscienza.  Ne consegue che il compito attuale del Vescovo di Roma è quello di relativizzare il Vangelo e rivisitare i comandamenti secondo le esigenze dell’uomo nuovo che non ha più una legge immutabile da osservare quale  presupposto indefettibile di salvezza.
Insomma il peccato e i modi per sanarlo sono cose che appartengono alla coscienza individuale, non hanno un  rilievo proprio, dunque nessuno può sindacarne il merito, neppure chi ha funzioni di governo. Viene così negata anche la responsabilità magisteriale e l’obbligo indefettibile di custodire quel depositum fidei che abbraccia tutta la dottrina cristiana testimoniata dalla Scrittura.
zzingnnMulta paucis , perché quelle poche parole contengono un intero manifesto,  e bisogna riconoscere che quanto a concisione, Bergoglio è riuscito a riassumere il proprio programma rivoluzionario in molto meno spazio di quello occorso a Lutero per redigere le sue novantacinque tesi.
Si capisce così facilmente, perché l’idea libertaria relativista e protestante sottesa a quella  proposizione implicita  abbia suscitato tanti entusiasmi in quanti  pensavano ancora di dover combattere la Chiesa sul presupposto di un magistero ostile allo spirito del tempo. Fin qui nulla di strano. Non meraviglia di certo che tale proposizione sia diventata il bollettino della vittoria di Pannella e di Scalfarotto, il meglio del pensiero occidentale; o sia stata letta e rieletta, citata e ricitata anche in Parlamento o nelle aule giudiziarie.
Invece la cosa sorprendente, ma non troppo, è che essa sia stata assunta come motto identitario dei pur timidi difensori della etica cattolica ufficiale, quella riproposta senza sbavature negli anni del pontificato di Benedetto XVI, ma di certo già allora tollerata a fatica dal progressismo clericale. Sta di fatto che adesso sotto  la stessa bandiera si sono trovati  quanti, almeno sulla carta, avrebbero dovuto giocare in campi avversi. Ora infatti sono tutti ammassati nella stessa metà del campo con l’arbitro argentino che dirige energicamente lo stesso inno nazionale. Un fenomeno  interessante da studiare, se non fosse drammatico assistere allo spettacolo di una Chiesa sbandata e se non ci fosse una società che cerca alla cieca una parola chiara cui appigliarsi.
Infatti un problema centrale attorno al quale ruota il dramma della confusione e dell’inganno, è ancora una volta quello delle parole usate come passe-partout per  imporre qualunque  cosa  attraverso la manipolazione delle idee.
Va detto che il buon senso si difende ancora dall’attacco dei media e delle avanguardie politiche e che l’allargamento indebito del concetto di famiglia incontra ancora forti resistenze popolari, soprattutto con riferimento alla possibilità di adozione da parte di coppie omosessuali. E proprio per questo i potentati  internazionali, hanno studiato da tempo anche un’altra strategia per la conquista pacifica, per aggiramento, della opinione pubblica: il ricorso al concetto  apparentemente innocuo, anzi edificante, di affettività, usato come grimaldello capace di sciogliere ogni resistenza.
In un tempo di ritmi famigliari spesso convulsi, che alimentano sensi di colpa verso quelli cui dovremmo elargire la nostra affettività, e in cui il termine “anaffettivo” è diventato il marchio a fuoco col quale gli psicanalisti catalogano tanti  pazienti disturbati, ecco il terreno per coltivare le nuove comprensive virtù di ordinanza. Bisogna dimostrare al prossimo di non essere anaffettivi. Bisogna educare i bambini all’affettività, che ovviamente senza un corso di preparazione  non sarebbero in grado di acquisire. Occorre riconoscere nell’altro questa sola virtù che comprende poi tutte le altre, perché è in fondo la versione intimistica dell’amore cristiano, ma con quel tocco in più di laicità condivisa che lo santifica anche agli occhi sensibili dei non credenti (sull’oggetto della non credenza dei quali, tuttavia, non ci sono stati forniti ancora adeguati ragguagli).
Ci aveva pensato l’Oms a indicare già nel 2006 (nelle linee guida per l’educazione sessuale in Europa) nella  affettività l’oggetto di un illuminato programma educativo volto alla iniziazione erotica precoce dei bambini già  dalla scuola materna.  Programma, al quale si sono ispirati anche la illuminata ministra Fornero e i suoi successori, dove affettività va in coppia, guarda caso, con diversità, ed entrambe , sommate insieme, significano che la diversità omosessuale diventa normalità attraverso la affettività. Un po’ come il lavaggio del denaro sporco che se ben speso diventa denaro inodore e se poi ci faccio anche beneficienza, diventa denaro santo.
L’affettività, inventata dai potentati omosessualisti internazionali per santificare la omosessualità, ha fatto la carriera promessa, circola nei documenti sinodali e in quelli vaticani, e ora la Cassazione fa della sua offesa il titolo giuridico per attribuire risarcimenti milionari. Chiunque abbia investito in quella brutta sera nebbiosa il mio  amatissimo gatto nero faccia i suoi conti. Accade così che l’omosessualismo riceva proprio da Roma un altro assist formidabile quanto, forse, ancora insperato, mentre le associazioni cattoliche – anche quelle che in passato si presentavano come paladine degli insegnamenti tradizionali – si sentano disgraziatamente incoraggiate ad allargare il concetto di famiglia  alle convivenze di diverso colore sessuale. Infatti anche per il disegno di legge cattolico  noto come “Testo unico delle convivenze “, come abbiamo visto la settimana scorsa su queste pagine, il vincolo affettivo basta per parificare le convivenze anche omosessuali ai rapporti di parentela. Dunque l’attacco alla famiglia passa  ora per l’affettività, quella che notoriamente alberga soprattutto nelle unioni omosessuali, per definizione disinteressate e quindi esemplarmente affettive.
Con il discorso programmatico di un nuovo presidente inflitto,  essa è ora  entrata con tutti gli onori  a fare parte delle sacre virtù repubblicane e costituzionali con le quali d’ora in poi dovremo  fare i conti, a scuola come in chiesa, in parlamento come in tribunale, senza possibilità di scampo. Se la Resistenza è stato il mito col quale giustificare un regime politico, ora l’affettività è diventata per decisione superiore l’unico valore ad alto contenuto morale capace di dare sostanza all’individuo, e di rinnovare l’intera morale cattolica.
Dunque alla campana di S.Marta  ha già risposto quella del Quirinale. Si ricompone la santa alleanza tra Stato e Chiesa, perché tutt’e due parlano ora lo stesso linguaggio e si sono accordati per un unico libro di testo, la costituzione evangelicamente emendata e il vangelo costituzionalizzato.
Ma l’evento disarmante rimane la conversione cattolica alla conversione protestante e libertaria di una Chiesa in fuga da se stessa. Quello che è però ancora  difficile da decifrare , è il fine che questa conversione si propone, ovvero dove si pensa di fare  approdare questa nave alla deriva sulla quale volenti o nolenti, e soprattutto dolenti ci sentiamo invece costretti, da altri, a naufragare.

– di Patrizia Fermani



Redazione

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