ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 8 aprile 2015

Ipotesi?

148 nuovi martiri nel firmamento della Chiesa
(di Roberto de Mattei) Nel firmamento della Chiesa brillano le stelle di 148 nuovi martiri. I giovani cristiani vittime dell’Islam, lo scorso Giovedì santo in Kenya, non devono essere commiserati, ma invidiati, perché hanno avuto la grazia immensa del martirio. Essi sono martiri perché sono stati uccisi in quanto cristiani dai soldati di Allah.
Ciò che rende il martire tale non è la morte violenta, ma il fatto che essa sia inflitta in odio alla fede cristiana. Non è la morte che fa il martire, dice sant’Agostino, ma il fatto che la sua sofferenza e la sua morte siano ordinate alla verità. Non tutte le vittime di una persecuzione si possono dire martiri, soltanto quelle che abbiano ricevuto la morte per odio alla fede da parte degli uccisori.

I martiri del campus universitario di Garissa, si aggiungono alla innumerevole legione di testimoni della fede massacrati negli ultimi due secoli dai persecutori della Chiesa. Il primo genocidio dei tempi moderni è quello della Rivoluzione Francese. Ben 438 religiosi, religiose e semplici laici sono già venerati come beati e per altri 591 sono in corsi i processi per il riconoscimento del martirio «in odium fidei». A questo olocausto si aggiunge quello della guerra di Spagna (1936-1939), dove sono 1.512 i martiri beatificati e 11 quelli canonizzati, ma il numero delle vittime di anarchici e comunisti è di molte decine di migliaia.
Il 13 ottobre 2013 a Tarragona, in Catalogna, sono state beatificate 522 persone uccise in odio alla fede prima e durante la guerra religiosa di Spagna. Si è trattato della cerimonia con il maggior numero di Beati, 522, che ha superato quella svoltasi a Roma, in piazza San Pietro, il 27 ottobre 2007. I loro nomi si aggiungono agli innumerevoli martiri del comunismo, del laicismo e oggi dell’Islam, in tutti i paesi del mondo.
Bisogna avere il coraggio di pronunciare il nome degli assassini. Si continua a tacere sul fatto che è in atto da tempo una sistematica e planetaria persecuzione islamica contro i cristiani. Papa Francesco, dopo i fatti del Kenia, ha letto questa bella preghiera: «nel Tuo viso schiaffeggiato vediamo il nostro peccato, in Te vediamo i nostri fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi per la loro fede in Te, sotto i nostri occhi e spesso con il nostro silenzio complice». Antonio Socci, che ha spesso denunciato il “silenzio complice” delle supreme autorità ecclesiastiche, scrive su “Libero” del 5 aprile: «Ci aspettiamo che – affacciato a quella finestra – papa Bergoglio, con tutto il prestigio di cui gode sui media, svegli tutti i potenti della terra, mobiliti la sua diplomazia, che faccia sentire a tutti il grido di dolore dei cristiani perseguitati, che indica preghiere continue di tutta la Chiesa, che lanci una grande iniziativa umanitaria per i cristiani perseguitati».
L’appello sembra essere stato raccolto da Ernesto Galli della Loggia che su “Il Corriere della Sera” del 5 aprile ha proposto al governo italiano una sottoscrizione nazionale tra tutti gli italiani, tra tutte le istituzioni pubbliche e private del Paese, per raccogliere i fondi necessari a un cospicuo invio di aiuti ai cristiani perseguitati. Tutto questo però non è sufficiente, quando è in corso una guerra. E bisogna prendere atto che esiste una guerra di religione contro Gesù Cristo e contro la sua Chiesa combattuta in nome di quella Sura del Corano che recita: «Uccidete gli infedeli ovunque li incontriate. Questa è la ricompensa dei miscredenti» (2, 191). Questa guerra non è stata dichiarata dai cristiani, ma è stata intrapresa contro di essi. Perché i governi dell’Occidente non la combattono? La ragione è che l’Occidente condivide il medesimo odio dei persecutori contro le proprie radici cristiane.
Il laicismo occidentale non solo processa, perseguita, ridicolizza coloro che difendono l’ordine naturale e cristiano, ma pratica anch’esso il genocidio di massa. Mons. Luc Ravel, Vescovo delle forze armate francesi, ha affermato: «Scopriamo di dover scegliere in quale campo collocarci; scopriamo di armarci contro il male manifesto senza prender posizione contro quello subdolo. Il cristiano si sente preso come in una tenaglia tra due ideologie: da una parte, quella che fa la caricatura di Dio sino a disprezzare l’uomo; dall’altra, quella che manipola l’uomo sino a disprezzare Dio. Da una parte, avversari dichiarati e riconosciuti: i terroristi della bomba, i vendicatori del profeta; dall’altra, avversari non dichiarati però ben noti: i terroristi del pensiero, promotori della laicità, gli adoratori della Repubblica. In quale campo situarsi come cristiani? Noi non vogliamo essere presi in ostaggio dagli islamici. Ma non ci auguriamo nemmeno d’esser presi in ostaggio dai benpensanti. L’ideologia islamica ha fatto 17 vittime in Francia. Ma l’ideologia dei benpensanti fa ogni anno 200 mila vittime nei grembi delle loro madri. L’aborto inteso come diritto fondamentale è un’arma di distruzione di massa».
L’odio che l’Occidente nutre verso la Chiesa e la Civiltà cristiana è l’odio verso la propria anima e la propria identità. «Un odio di sé dell’Occidente ‒ ha scritto Benedetto XVI ‒ che si può considerare solo come qualcosa di patologico»l’Occidente si apre pieno di comprensione ai valori esterni, «ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro».
Oggi l’Occidente rifiuta i valori attorno a cui ha costruito la sua identità e raccoglie solo l’eredità distruttiva dell’illuminismo, del marxismo e del freudismo. La teoria del gender rappresenta l’ultimo passaggio intellettuale di questa dissociazione dell’intelligenza dalla realtà che diventa odio patologico verso la stessa natura umana. Il gesto di Andreas Lubitz, che ha voluto schiantare contro le Alpi il suo Airbus con 150 passeggeri, è l’espressione di questo spirito di autodistruzione. Il suicidio è un’espressione estrema, ma coerente, della depressione occidentale: uno stato d’animo in cui l’anima sprofonda nel nulla, dopo aver perso ogni ragione di vivere. Quando si professa il relativismo assoluto ci si realizza solo nella morte.
La strage di Gorissa non è una “brutalità senza senso”, così come il suicidio del pilota tedesco non è un atto di pura follia. Questi gesti, distruttivi o autodistruttivi, hanno una loro aberrante logica. All’esaltazione dei fanatici di Allah corrisponde la depressione degli apostati del Cristianesimo: L’equilibrio nel mondo si è spezzato, quando si sono voltate le spalle ai princìpi cristiani. E un medesimo impulso preternaturale muove il furore omicida dell’Islam e il nichilismo suicida dell’Occidente. Il principe delle tenebre, non riuscendo a farsi Dio, vuole distruggere tutto ciò che è di Dio e della Civiltà cristiana porta l’orma. Senza quest’infestazione diabolica è difficile comprendere quanto sta accadendo nel mondo. E senza un intervento angelico è impossibile combattere una battaglia che ha il suo primo atto nel momento della creazione, quando il fronte degli Angeli si divise in due schiere perennemente contrapposte nella storia dell’universo creato.
Il messaggio di Fatima vede la Madonna preceduta e accompagnata dagli Angeli. E chi ha letto il Terzo Segreto ricorda la tragica visione di una grande croce, ai piedi della quale anche il Papa viene ucciso: «Sotto i due bracci della Croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio». Come agli inizi del Cristianesimo, il sangue dei cristiani è seme di rinascita nella storia e di vittoria nell’eternità. (Roberto de Mattei)

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Silenzio sulle persecuzioni contro i cristiani: qualche ipotesi

Come mai c’è voluta una strage tremenda come quella di Garissa, in Kenya, con quasi 150 studenti brutalmente uccisi solo in quanto cristiani, perché il mondo dei media – e parte dello stesso mondo cattolico, sovente timido sul tema – si decidesse a raccontare questa persecuzione? Non c’era modo di accorgersene prima? Mancavano forse dati, notizie e numeri? Nient’affatto: dalle statistiche più accurate sappiamo infatti che se i martiri, cioè quanti perdono la vita per la propria fede o per difendere altri cristiani, sono qualche migliaio l’anno, coloro che invece vengono uccisi in quanto cristiani sono purtroppo parecchi di più: uno ogni 5 minuti, è stato calcolato considerando una somma inferiore alle 130.000 vittime all’anno conteggiate dai sociologi Grim e Flinke (The Price of Freedom Denied, Cambridge University Press 2010).

La domanda iniziale rimane dunque del tutto valida: come mai c’è voluta la carneficina degli estremisti islamici somali al Shabaab perché il mondo si accorgesse della persecuzione dei cristiani? E’ un silenzio troppo grave per essere spiegato da un solo fattore. Certamente pesa il fatto che queste stragi avvengano in Paesi non europei e non occidentali: è stato osservato come, per i media statunitensi – ma il discorso vale anche per quelli italiani – un morto mediamente “valga”, in termini di visibilità mediatica, dieci canadesi, trenta europei, cento russi e mille cinesi; se si considera quali sono i Paesi dove i cristiani sono oggi più perseguitati – Corea del Nord, Somalia e Iraq – una parte del silenzio mediatico sulle persecuzioni ai loro danni inizia ad essere spiegata. Ma il fattore geopolitico, se così possiamo chiamarlo, non basta.
C’è anche un fattore culturale “interno” all’Occidente ed è l’anticristianesimo, un atteggiamento di pregiudizio e ostilità – non sempre vissuto consapevolmente, ma reale – verso la Chiesa e i cristiani che non di rado sfocia atti concreti: stando alle centosettanta pagine del rapporto a cura dell’Osservatorio di Vienna sull’Intolleranza e sulla Discriminazione contro i Cristiani, in Europa non sono affatto rari i casi di atti di odio contro il cristianesimo; se ne verificherebbe, infatti, quasi uno ogni due giorni. In che modo si è radicato e diffuso questo anticristianesimo? E’ una bella domanda. Certamente pesano tutta una serie di menzogne su veri e presunti crimini storici – dal processo a Galileo alle Crociate, dalla Santa Inquisizione allo sterminio dei nativi americani – che vengono puntualmente addebitati alla Chiesa; accanto alle bufale storiche abbiamo poi quelle morali, dalla “sessuofobia” alla “misoginia” dei cristiani.
Neppure il pregiudizio culturale, per quanto esteso e non sempre banale da intercettare, risulta però sufficiente a spiegare la fatica a parlare delle persecuzioni contro i cristiani. Occorre quindi considerare un terzo fattore – non alternativo, ma complementare agli altri -, e cioè quello antropologico. In estrema sintesi ci si riferisce, qui, all’odio che l’uomo contemporaneo, specie in Occidente, nutre verso se stesso; un odio che sembrerebbe in contraddizione con la melassa del politicamente corretto, mentre invece ne è consustanziale. Una volta infatti che un continente ed una civiltà decidono di fare a meno di Dio – o di “privatizzare Dio”, riducendolo ad agente tascabile – l’esito principale è quello per cui tutti, in un modo o nell’altro, iniziano a sentirsi Dio, illudendosi di poter fare ciò che vogliono e di poter vivere ciascuno secondo una propria insindacabile morale. Si può forse credere che un mondo così possa trovare spazio il Cristianesimo e tempo per denunciare le persecuzioni contro di esso?


giulianoguzzo.com
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La Santa Sede: «L'Isis va fermato subito È in atto un genocidio contro i cristiani»
di Riccardo Cascioli08-04-2015
Monsignor Silvano Tomasi
«Non c’è dubbio che l’Isis debba essere fermato, per salvare i cristiani mediorientali dal genocidio e per evitare che la violenza si estenda ulteriormente». Monsignor Silvano Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra, che raggiungiamo al telefono mentre è in missione a New York, è molto chiaro. La gravità della situazione non ammette incertezze o titubanze, e ne è una testimonianza il crescendo di interventi di Papa Francesco a favore dei cristiani perseguitati. Le stesse parole del Papa degli ultimi giorni lasciano intendere che si veda ormai ineluttabile la necessità di un intervento armato per fermare le milizie islamiste. Anche monsignor Tomasi, che da anni si batte alle Nazioni Unite per sensibilizzare sulla persecuzione dei cristiani, nelle ultime settimane ha fatto sentire più forte la voce. E qualche risultato sembra averlo ottenuto.
Monsignor Tomasi, sembra che anche nelle sedi internazionali si cominci a realizzare che c’è una “emergenza cristiani”.Indubbiamente qualcosa di nuovo c’è. A forza di pestare i piedi si è arrivati a poter parlare esplicitamente di cristiani come gruppo perseguitato. Due settimane fa qui a Ginevra siamo riusciti a far passare una risoluzione a difesa dei cristiani, ed è la prima volta che succede. Finora non si era mai voluto nominare specificamente i cristiani ma molto più genericamente i “gruppi perseguitati”. Invece questa volta la risoluzione presentata dalla Santa Sede insieme a Russia e Libano parlava espressamente di cristiani ed è stata adottata con il voto di una settantina di Paesi. La Francia, nell’aderire, ha addirittura proposto una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU su questo argomento e il 27 marzo il Patriarca di Babilonia dei Caldei, monsignor Louis Sako al Consiglio di Sicurezza ha fatto un discorso molto chiaro. Mi sembra che a questo punto si sia almeno riusciti nell’obiettivo di portare un’attenzione specifica sui cristiani, obiettivo di attacchi sistematici.
Anche in Vaticano sembra esserci una consapevolezza diversa. Solo pochi mesi fa saltava agli occhi la diversità tra la posizione molto allarmata e decisa dei patriarchi del Medio Oriente, che chiedevano anche un intervento militare immediato a difesa delle comunità cristiane, e la posizione molto prudente che si esprimeva a Roma. Ora anche gli interventi di papa Francesco, per insistenza e intensità, si sono avvicinati a quelli dei patriarchi mediorientali.Da una parte c’è una situazione sul terreno che continua a evolvere e per i cristiani la situazione peggiora continuamente, dall’altra c’è stato anche un cammino nella Chiesa. Lo scorso anno abbiamo fatto due incontri a Ginevra con i Patriarchi del Medio Oriente per sensibilizzare la comunità internazionale. Qualcosa si è mosso e queste posizioni hanno certamente influenzato anche la Segreteria di Stato; poi il Papa ha convocato una riunione dei nunzi apostolici in Medio Oriente, tre giorni insieme (dal 2 al 4 ottobre 2014, ndr) da cui sono uscite alcune raccomandazioni per il Papa stesso. E poi c’è la sensibilità di papa Francesco che ha sentito la voce dei vescovi locali, di Siria e Iraq, che parlano chiaro e suggeriscono le posizioni da prendere. Ecco, questo grido è stato raccolto dal Papa che lo ha fatto proprio e ora lo vive in modo molto personale. 
Un passo dunque è stato fatto, quello di aver almeno posto con chiarezza il punto che bisogna fare qualcosa per difendere i cristiani in Medio Oriente. Ma che cosa si può fare concretamente e chi lo fa? Anche lei ha cominciato a parlare sempre più esplicitamente di uso della forza.Certamente bisogna fermare l’Isis. Si deve fare di tutto per non usare la violenza, però a questo punto non si può escludere l’uso della forza. Bisogna essere chiari sul fatto che c’è in corso un tentativo di genocidio secondo la definizione contenuta nella Convenzione internazionale per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948), per cui si parla di genocidio quando c’è l’intenzione di distruggere – in tutto o in parte - un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. È chiaro che l’Isis vuole eliminare i cristiani, e allora in questo caso se lo Stato non riesce a proteggere i suoi cittadini c’è il dovere della comunità internazionale a proteggere l’innocente. Il martirio si può anche accettare liberamente, ma non lo si può imporre, la comunità internazionale ha il dovere di difendere i diritti delle vittime attraverso gli strumenti di cui si è dotata: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’Assemblea generale e così via. 
Lei ha fatto cenno a tentare anzitutto con metodi non violenti. Ma a questo punto quali sono realisticamente i margini diplomatici? Non si può certo sperare in una disponibilità dell’Isis al negoziato.Certo. Ma una soluzione non violenta sta nel fare terra bruciata intorno all’Isis, tagliare qualsiasi sostegno politico, militare ed economico: togliere l’appoggio politico, bloccare il traffico d’armi, evitare di comprare da loro il petrolio anche se a prezzi stracciati. Se tutto questo non funziona allora come extrema ratio anche la forza può essere usata. Come ha detto papa Francesco, bisogna fermare la mano dell’aggressore ingiusto, e la questione è urgente per due motivi.
Quali?Anzitutto la situazione sul terreno: l’Isis avanza, la situazione peggiora e i cristiani continuano a essere ammazzati. Inoltre non dobbiamo sottovalutare il fatto che non abbiamo davanti semplicemente un gruppo di terroristi, ma una forza militare che controlla un territorio. Più questa situazione perdura, più diventa una giustificazione, una ispirazione e un aiuto pratico per altri gruppi che provocano altri focolai di violenza nel mondo, che giurano fedeltà a questo Isis e cominciano ad ammazzare cristiani. E stiamo già vedendo questi sviluppi. Quindi questo Califfato va assolutamente fermato. Certo, anche l’intervento militare deve avere dei criteri chiari, come li ha definiti Giovanni Paolo II: non deve creare danni ancora maggiori, deve essere limitato nel tempo, e godere di un consenso generale, che sia cioè in vista del bene comune e non di interessi particolari contro altri interessi.
Un intervento militare dunque. Ma chi lo fa? La coalizione anti-Isis che è già operativa sta facendo finta di fare la guerra. In realtà gli interessi contrapposti dei tanti paesi in gioco paralizza qualsiasi tentativo di intervento efficace. E così l’Isis ha buon gioco ad avanzare.È vero, la situazione è complessa, ci sono praticamente tre guerre diverse che si stanno combattendo allo stesso tempo: la prima è tra Stati Uniti e Russia per l’influenza sul Medio Oriente, con i rapporti privilegiati rispettivamente con Israele e con la Siria di Assad; poi c’è la guerra tra sunniti e sciiti, Arabia Saudita e Qatar da una parte e Iran e Hezbollah in Libano dall’altra; infine c’è la guerra interna in Siria tra il presidente Assad e l’opposizione. Portare attorno a un tavolo tutti questi interessi è ovviamente molto difficile, organizzare una risposta collettiva a difesa dei cristiani sarebbe un’impresa. Oggi le piste che si sta provando a battere sono essenzialmente due: da una parte il rafforzamento dell’esercito iracheno in modo che riesca a prendere il controllo del suo territorio, dall’altra lo stop all’espansione dell’Isis. Ma a questo scopo non si può prescindere dal fatto che per essere efficace l’azione contro il Califfato deve avere in prima fila i paesi interessati: la Giordania, la Turchia, l’Iraq, l’Iran, la Siria, in modo che la partecipazione del mondo occidentale non sia vista come un’invasione.
A questo proposito, ha colpito nel messaggio Urbi et Orbi del Papa il riferimento molto positivo all’accordo con l’Iran per il nucleare. Va inteso anche come segnale della necessità di coinvolgere l’Iran in un negoziato sul Medio Oriente? La presenza dell’Iran ai negoziati per la Siria è indispensabile. È il più grande paese del Medio Oriente, ha una tradizione diversa da quella sunnita, è pars maior del conflitto mediorientale nel conflitto tra sunniti e sciti. Un accordo senza l’Iran è impensabile. Ma c’è anche una seconda ragione riguardo la soddisfazione per l’accordo sul nucleare. A breve riprenderanno i negoziati sul Trattato di non proliferazione nucleare. La posizione della Santa Sede è per l’eliminazione di tutte le armi nucleari. Coinvolgere un paese importante come l’Iran significa rafforzare il cammino in questa direzione.

Perché è ora di fare una Crociata

perseguitati_cristiani
Non possiamo restare indifferenti di fronte al grido di dolore dei cristiani perseguitati. Anche Papa Francesco, coerentemente con gli insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa, invoca il principio della responsabilità a proteggere. Dunque sarebbe perfettamente legittimo intervenire militarmente per proteggere i cristiani, come ribadisce anche mons. Tomasi, nunzio apostolico presso l’Onu, a Ginevra. Anche sul piano legale, la responsabilità a proteggere è un principio riconosciuto dalle Nazioni Unite. Di fronte a grandi violazioni dei diritti umani è lecito un intervento militare di ingerenza umanitaria.
Eppure, mai come in questo periodo storico, l’ingerenza umanitaria è assente dall’agenda delle principali potenze militari che potrebbero (e dovrebbero) intervenire. Negli Usa, Barack Obama ha vinto le elezioni all’insegna dello slogan “via dall’Iraq”, ritirare le truppe da quella che lui, da senatore dell’Illinois, definiva war of choice, guerra per scelta, eufemismo per definirla “guerra inutile”. Dopo il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, il Paese si è trasformato in un mattatoio, come era ampiamente prevedibile. E Obama non ha alcun desiderio di cambiare idea e rimandare le truppe là dove le ha ritirate. Fa già più di quanto vorrebbe, partecipando alle missioni aeree della coalizione anti-Isis, assieme a Gran Bretagna e Francia. Non ci si può ragionevolmente attendere altro.
Facciamoci una domanda: perché gli Usa si sono ritirati dall’Iraq? Perché hanno perso una battaglia? Non ne hanno persa nemmeno una, a ben vedere. Perché erano “dissanguati”, come i francesi dopo la campagna di Verdun (quella del 1916)? Sarebbe esagerato parlare di logoramento, dal momento che le perdite americane, in otto anni di intervento, ammontavano a circa 5000 morti, su un esercito di 1 milione di uomini. Perché hanno consumato tutte le loro risorse, sacrificando una generazione intera di americani? Le truppe in Iraq non hanno mai superato le 150mila unità, un corpo di spedizione abbastanza ridotto per un esercito che è stato modellato per poter combattere una guerra mondiale su tre fronti contemporaneamente.
Gli Usa si sono ritirati dall’Iraq e non intendono tornarci con un intervento di terra, perché l’opinione pubblica (non solo americana, ma mondiale) ha chiesto a gran voce il loro ritiro, sin dal primo anno di conflitto. La Francia, che ora pone il problema della persecuzione dei cristiani iracheni di fronte al Consiglio di Sicurezza, nel 2003 era in primissima linea ad opporsi all’intervento. La Gran Bretagna era intervenuta, al fianco degli Usa. Ma si è ritirata prima delle truppe americane, per gli stessi motivi. L’opinione pubblica, sia laica che cattolica, si oppone a interventi militari fuori area, perché non sono più socialmente accettabili. Ora chi chiede di agire, con gli “stivali sul terreno”, 12 anni fa, con rarissime eccezioni, esponeva la bandiera arcobaleno della Pace contro la guerra in Iraq. Nel senso comune, infatti, un’azione armata in un Paese economicamente arretrato è bollata come“colonialismo”. Nella cultura egemone di fine XX e inizio XXI Secolo, l’Occidente (oltre al neoliberismo) è il responsabile dei mali del Terzo Mondo. Eppure, una volta lasciato solo, il Paese del Terzo Mondo chiamato Iraq si rivela come una trappola mortale per i suoi cittadini, specialmente quelli di religione cristiana.
pacifisti, adesso, hanno imparato la lezione? Neanche per sogno. Si sono trovati già l’alibi giusto per opporsi alle armi e avere sempre ragione: dicono (a partire dallo stesso Obama) che la persecuzione in corso in Iraq è colpa dell’intervento anglo-americano del 2003. Quindi andava bene Saddam Hussein? Qualcuno lo dice. Sotto Saddam Hussein i cristiani non erano perseguitati. Ma i curdi e gli sciiti sì. Uccidere i curdi con le armi chimiche, ammazzare 100mila sciiti in pochi mesi, era lecito, mentre perseguitare cristiani e yazidi richiede un’ingerenza umanitaria? Dobbiamo dedurre questo principio? Ma fateci il piacere!
Quante divisioni ha il Papa?, ci chiedevamo ieri su queste colonne. Ne avrebbe tante, messe a disposizione dai più potenti eserciti del mondo industrializzato. Il problema non è la mancanza di forze, ma la volontà di usarle. Ed è questa che manca. Per applicare nella pratica il principio di responsabilità a proteggere devi, prima di tutto, essere convinto di averne il diritto, di essere moralmente più integro rispetto ai massacratori di innocenti. Dovremmo ammettere la legittimità diuna crociata in difesa dei diritti umani, non solo di quelli dei cristiani, ma di tutti i perseguitati. Ma se solo lo dici, cosa ti succede?
La tragedia dei campi profughi palestinesi
di Stefano Magni08-04-2015
Yarmouk
Caos a Yarmouk, assediata contemporaneamente dai miliziani dell’Isis e dalle truppe regolari di Bashar al Assad. Si sta combattendo una duplice guerra. Hamas, che sostiene l'insurrezione contro Assad, regge da due anni l'assedio delle truppe regolari siriane (appoggiate anche dai comunisti palestinesi), ma adesso è arrivata la milizia dell'Isis, questa volta alleata con Al Nusrah. E combatte contro tutti: contro Hamas, contro i regolari e soprattutto contro i civili palestinesi che sono presi fra tre fuochi.
Il campo, che contava quasi 150mila abitanti all’inizio della Guerra Civile, adesso ne conta poco più che 18mila, di cui 3500 sono bambini secondo fonti dell’associazione Save the Children. Sono tagliati fuori dal resto della Siria, privi di qualunque servizio, comprese luce e acqua, non hanno più strutture sanitarie. Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia, spiega che “esattamente il 7 aprile 2014 denunciai che da 187 giorni non si riuscivano a far entrare aiuti umanitari nel campo e che c'erano evidenze di gravi casi di malnutrizione acuta tra i bambini. Oggi, a distanza di un anno, verrebbe da chiedersi ‘dove eravate’? E' una situazione drammatica peggiorata dall'ingresso dell'Isis che non può essere sempre il pretesto per raccontare drammi che vengono da molto lontano, il campo è sotto assedio da più di 2 anni”. Nel corso degli ultimi combattimenti, circa 2000 profughi sono stati evacuati e trasferiti a Damasco. Ma per quelli che restano c’è il rischio di “una nuova Srebrenica”, come dichiara l’Unicef in una nota pubblicata ieri, con riferimento al massacro dei musulmani bosniaci del 1995 sotto gli occhi dei caschi blu dell’Onu.
Il campo di Yarmouk è uno dei 59 campi profughi palestinesi gestiti dall’Unrwa, l’agenzia Onu istituita appositamente per affrontare il problema dei profughi dalla Palestina, provocati dalle guerre arabo-israeliane dal 1948 ad oggi. La Siria, da sola, ospita sul suo territorio 12 campi profughi palestinesi. Yarmouk, istituito nel 1957 a Sud di Damasco, era il più popoloso con 148mila rifugiati. Le altre nazioni che ospitano campi profughi palestinesi sono il Libano (altri 12 campi, quasi mezzo milione di persone), la Giordania (10 campi, 2 milioni di persone), oltre alle due componenti della Palestina, cioè la Cisgiordania (19 campi, quasi 1 milione di persone) e Gaza (8 campi, più di 1 milione di persone). La situazione appare come un paradosso: anche a 67 anni dalla guerra da cui sono fuggiti, i palestinesi continuano ad essere profughi. E’ un caso veramente unico nella storia. Si spiega con la conservazione a oltranza del principio del “ritorno”: i paesi arabi, appellandosi alla Risoluzione 194 dell’Onu, ribadiscono il “diritto al ritorno” degli arabi palestinesi nelle loro terre, cioè nell’attuale Israele.
Ogni negoziato di pace è finora fallito nel momento in cui è stato discusso questo principio. Se i rifugiati tornassero in Israele, supererebbero demograficamente la sua stessa popolazione ebraica, ribaltando i rapporti di forze interne. Tutti i governi israeliani, sia di destra che di sinistra, rifiutano l’idea che il ritorno di quelli che, in origine, erano 600mila arabi di Palestina comporti il rientro nelle terre d’origine anche di tutti i loro discendenti e parenti. Israele, dal canto suo, ha assorbito gran parte degli 850mila profughi ebraici scacciati dai paesi arabi nello stesso periodo storico, dunque condanna la politica dei governi arabi che sfruttano i rifugiati a mo’ di “bomba demografica”.
Il paradosso più grande è quello dei circa 2 milioni di palestinesi profughi in casa, cioè quelli rifugiati nei campi della Cisgordania e Gaza. Rimarranno in questa condizione precaria finché non verrà riconosciuto loro il diritto al ritorno (nelle altre regioni israeliane). Anche un eventuale riconoscimento dello Stato palestinese non porrebbe fine al problema. Ogni proposta israeliana di realizzare il principio del rientro nel territorio del futuro Stato, infatti, è stato finora respinto dalla controparte. Questi campi profughi sono il maggior bacino di reclutamento di militanti, guerriglieri e anche terroristi suicidi.
Per quanto riguarda i profughi fuori dalla Palestina, mantenuti pressoché ghettizzati e privi di cittadinanza dei paesi che li ospitano, diventano un problema politico anche per gli stessi Stati arabi. Yarmouk, sotto assedio da due anni, è solo l’esempio più recente. Ma basta andare indietro di una quarantina d’anni per ritrovare il massacro del “settembre nero” del 1970, quando un fallito tentativo insurrezionale palestinese venne schiacciato militarmente dai giordani. Il numero delle vittime è ancora sconosciuto, secondo alcune stime arriva a 20mila morti. L’esodo di massa dei palestinesi verso il Libano, negli anni successivi, è stata una delle principali cause dello scoppio della Guerra Civile Libanese, nel 1975. Chiaramente non fu quella l’unica causa, ma l’arrivo di una massa palestinese, fortemente politicizzata e organizzata dall’Olp di Arafat compromise il delicato equilibrio fra cristiani, musulmani sciiti e musulmani sunniti, che aveva retto fino ai primi anni ’70.
Nello scenario odierno, i campi profughi sono ancora delle vere e proprie bombe ad orologeria. La Siria ha assistito ai combattimenti peggiori, nel momento in cui i palestinesi sono diventati parti in causa della guerra civile, schierati da entrambe le parti. I comunisti del Fronte Popolare (Fplp-Cg) combattono dalla parte di Assad, gli islamisti di Hamas combattono assieme all’Esercito Siriano Libero, mente Fatah mantiene una posizione neutrale. Entrambe le parti, sia Hamas che il Fronte Popolare, accusano il nemico di essere al servizio di Israele. A Yarmouk, dal 2013, non si combatte solo fra siriani e palestinesi, ma anche fra le due opposte fazioni palestinesi. L’arrivo dell’Isis complica ulteriormente lo scenario, perché è una terza parte nemica di entrambe.
Ma la Siria non è un caso unico: il Libano è sempre sull’orlo di una nuova guerra civile e i campi profughi sono anche qui parte in causa. Nella metà degli anni 2000 i campi di Nahr al Bared (vicino a Tripoli) e Ain al Hilweh, (vicino a Sidone), divennero basi di gruppi terroristi legati ad Al Qaeda, quali Jund al Sham e Fatah al Islam. Nel 2007, jihadisti tornati da un’esperienza di guerra in Afghanistan attaccarono l’esercito regolare libanese, provocando una piccola piccola guerra civile, durata da maggio a settembre. I morti dalle due parti furono più di 300, l’esercito regolare libanese riuscì a sedare l’insurrezione. La Guerra Civile Siriana rischia di far scoppiare un nuovo conflitto, perché i campi profughi si sono gonfiati di rifugiati dalla Siria e stanno diventando basi di partenza per volontari anti-Assad. Si può solo immaginare la difficile coesistenza, in uno spazio molto ridotto, con i miliziani sciiti Hezbollah, i più efficienti alleati di Assad. Uno scontro aperto non è ancora avvenuto, ma gli attentati e gli scontri a fuoco sono già numerosi e un conflitto civile è sempre latente.
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-la-tragedia-dei-campi-profughi-palestinesi-12308.htm

Il dramma siriano e la fede, dopo 4 anni di distruzione
«Rimaniamo ad Aleppo perché qui è nata la fede»
L'appello dei Maristi blu: ecco perchè restiamo malgrado tutto.
La speranza che ci tiene in piedi è alimentata dal Risorto: 
È qui che i seguaci di Gesù sono stati chiamati
per la prima volta «cristiani »
Video in allegato - Siria, Culla del Cristianesimo
 di Nabil Antaki, Maristi Blu
Maristi Blu - Nabil Antaki - Siria
 La speranza che ci tiene in piedi è alimentata da Gesù                              
Aleppo, Siria – di Nabil Antaki – Dopo quattro anni di conflitti sempre più selvaggi, non si vede una soluzione. I siriani sono stanchi di una vita costantemente in pericolo, di vedere i loro figli crescere in questo clima e i giovani rassegnati a non avere futuro, di dover constatare che il loro Paese è sull’orlo della distruzione. Molti scappano dalle loro case e cercano rifugio dove è possibile,molti emigrano. Soprattutto i cristiani: ad Aleppo la metà di loro se ne sono già andati. Noi che restiamo, lo facciamo solo per la fede che ci anima, che ci permette di sperare contro ogni speranza. Viviamo con i piedi fondati sull’essenziale: «Non temere, ti porto nel palmo della mia mano, stabilisco con te la mia alleanza». La speranza che ci tiene in piedi, che ci permette di guardare a testa alta il male che scorre sotto i nostri occhi, è alimentata da Gesù che è morto sulla croce per noi, è resuscitato e vive in noi.
 La culla del Cristianesimo                                                                                
La Siria è stata la culla del cristianesimoÈ qui che i seguaci di Gesù sono stati chiamati per la prima volta «cristiani ». Prima della guerra non c’erano tensioni tra cristiani e musulmani: tutti si sentivano siriani prima di “marcare” la loro appartenenza religiosa. Questa guerra non è mai stata un conflitto confessionale né un conflitto contro i cristiani, anche se i jihadisti in più di un’occasione si sono scagliati contro i cristiani. Anche oggi viviamo una grande fraternità con i musulmani. Nella nostra Ong dei Maristi blu ci sono volontari islamici che lavorano avendo come riferimento i nostri stessi valori. I beneficiari del nostro aiuto alimentare, medico, scolastico, sono sia musulmani sia cristiani. E i musulmani hanno condannato più volte e con nettezza i terroristi che dicono di agire in nome dell’islam.
 Per la Pace si chiudano i rubinetti dei finanziamenti agli estremisti      
Tutti i siriani desiderano la pace e rimpiangono il tempo, un tempo non così lontano, in cui si viveva in un Paese stabile, sicuro, prospero e laico, che rispettava e tutelava tutti i cittadini al di là della loro etnia e dell’appartenenza religiosa. I siriani sanno che questa è una guerra importata, e sono persuasi che essa, anziché produrre una primavera raggiante, è precipitata in un freddo inverno. Per raggiungere la pace è necessario anzitutto che lo vogliano gli attori “esterni”, chiudendo i rubinetti dei finanziamenti agli estremisti (il meccanismo è il solito – Ndr – vedi qui Giacinto Auriti e la Lettera aperta al Pentagono, per fermare il terrorismo, qui Gli angeli di Homs e la nostra Sete di Giustizia e qui La Guerra di Obama è la Guerra delle Banche Centrali: Giacinto Auriti insegna!). È necessario che i “gendarmi del mondo” pongano fine ai loro interventi nefasti. Sono sotto gli occhi di tutti i risultati di tutti i conflitti combattuti da queste potenze dopo laSeconda Guerra Mondiale: hanno avuto come risultato la distruzione. Quanto ai siriani, essi sapranno – quando verrà il giorno – fare pace tra di loro perché questo conflitto non è mai stato un conflitto tra siriani.
Nabil Antaki – Maristi Blu
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