ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 8 maggio 2015

Contro la cremazione: cosa vi è nel corpo di così importante?

I santi delle catacombe: 

così veneravano i martiri

Sembrano re inca o augusti imperatori, ma sono santi cattolici 

ornati maestosamente dopo essere stati dimenticati per secoli


Sapevate che un giorno il sottosuolo di Roma è stato abitato da scheletri degni dei romanzi più fantastici? Potete crederci guardando queste immagini, che portano alla luce gli ornamenti lussuosi e sontuosi con cui sono stati adornati questi resti di santi cristiani.



Nel 1578 vennero scoperti dei labirinti sotto la capitale italiana. I primi a percorrerli li battezzarono “catacombe dei santi”. Questi corridoi sotterranei erano in realtà gli ultimi resti della vita dei primi cristiani della Chiesa. Per via della repressione subita alla loro epoca, sono ritenuti tra i più grandi santi della storia del cattolicesimo.



Gli scheletri vennero adornati in questo modo dopo che essere stati estratti da terra, o meglio dal sottosuolo. Ornati con le pietre più belle e ricoperti dei tessuti più sontuosi, sostituirono le sacre reliquie distrutte o rubate nelle chiese nell'ondata di saccheggi che accompagnarono la Riforma.



Questi santi delle catacombe di Roma vennero allora esposti all'interno di numerose chiese, non solo per sostituire le reliquie distrutte, ma anche per ricordare a tutti i fedeli la devozione che dovevano professare ai propri martiri.



Questi personaggi sacri suscitarono allora un miscuglio di ammirazione e timore.


Particolarmente affascinato da queste scoperte e dalla storia nascosta di queste “catacombe di santi”, lo storico dell'arte (e cercatore di reliquie) Paul Koudounaris ha viaggiato per tutta l'Europa per seguire le orme di questi santi, ed è l'autore di queste immagini.



Paul Koudounaris ha descritto il suo periplo nel libro Heavenly Bodies: Cult Treasures and Spectacular Saints from the Catacombs (Corpi celestiali: grandi tesori e santi spettacolari delle catacombe), un libro-album che raccoglie tutte le sue ricerche e i suoi risultati.


Quest'opera permette di capire chi erano, come sono morti e perché sono stati dimenticati dalla Chiesa cattolica fino al 1578.


Curiosamente, molti scheletri non sono stati esposti in chiese. Alcuni sono stati sempre conservati in attesa di essere adornati e presentati in pubblico.


Le prime catacombe vennero scavate nel I secolo d.C., fuori dall'antica muraglia. I primi cristiani rispettarono così la legge romana che obbligava a seppellire o incenerire i cadaveri all'esterno della città.


Le descrizioni realizzate da Paul Koudounaris nella sua opera danno un'idea della composizione di questi splendidi ornamenti: “Stupisce lo scheletro di una santa, vestita con un complesso intreccio di seta e di filo d'oro, le dita ornate da rubini colorati e brillanti, smeraldi e di perle marcite”. È una delle reliquie particolarmente fotografate che si può trovare nell'opera Heavenly Bodies.




“La morte non è mai sembrata così bella”, scrive Koudounaris nell'introduzione al testo.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]
http://www.aleteia.org/it/arte/articolo/santi-catacombe-cosi-primi-cristiani-venerare-martiri-5779944089059328

Perché la resurrezione dei corpi? 

Non basta la salvezza dell’anima?

Cosa vi è nel corpo di così importante?


Perché tanta enfasi sulla resurrezione dei corpi quando basta la salvezza dell’anima? Cosa vi è nel corpo di così importante?
Simone Nespolo


Risponde suor Giovanna Cheli, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale
La domanda posta dal nostro lettore è fondamentalmente una domanda sull’uomo, sul senso del suo corpo e quindi della sua vita. Inoltre pare che la resurrezione dei corpi sia contrapposta alla salvezza dell’anima che è destinata alla salvezza eterna, mentre il corpo si disfa. Il corpo non sembra recettivo della salvezza quanto invece lo è l’anima. Per questo la lettrice afferma: «basta la salvezza dell’anima».

C’è da chiedersi però se è possibile davvero «salvare l’anima» senza il »corpo». Il problema della salvezza è legato a quello della morte, per cui «salvare l’anima» significa comunemente far sì che l’anima raggiunga, grazie ad una vita spesa nella bontà, la visione beatifica mentre il corpo resta sepolto e si dissolve. Ma la prospettiva che la S. Scrittura ci consegna riguardo a queste cose non è proprio questa. Prima di tutto la fede nella resurrezione della carne non è un’enfasi, ma una verità essenziale della vita cristiana. Tutta la nostra fede è fondata sulla resurrezione di Gesù che apparve agli apostoli per quaranta giorni con un corpo vivo, mangiò con loro, si fece toccare, alitò su loro e parlò con loro: «Perché siete turbati e sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le miei mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». (Lc 24,39). Non fu facile per loro riconoscerlo, segno evidente che il suo corpo aveva subito delle trasformazioni, eppure in lui gli apostoli rividero i segni della sua storia e poterono persino toccarli nella persona di Tommaso. Dunque, la resurrezione del corpo del Signore e dei nostri corpi è un elemento essenziale della vita del cristiano e della sua fede.

La morte, che sentenzia la fine di una realtà e vorrebbe gettare una luce d’inutilità su ciò che prima è esistito, non è capace di interrompere la vita dell’uomo e segna solo la fine di un certo tipo di vita, quella fisica e biologica.  Alla luce dei racconti pasquali c’è da chiedersi: i nostri corpi sono solo uno strumento per la vita terrestre, oppure il loro significato va ben oltre il tempo assegnato fisicamente a ciascuno? Se la nostra anima era presente nel nostro corpo prima della morte, perché non si può pensare, in un certo senso, che il nostro corpo dopo la morte sia presente nella nostra anima e che l’uno e l’altro si trasformino al momento del passaggio da questa vita all’altra? Se si obietta, a ragione, che dopo la morte il nostro corpo non è più quello di prima, perché non si può dire  così anche dell’anima: essa con la morte non è più quella di prima perché è privata del suo corpo fisico. Il Risorto ci ricorda che la morte, pur trasformando il corpo biologico e l’anima, non ha il potere di sopprimere la loro relazione, creata da Dio.

È riduttivo dire che con la morte l’anima si separa dal corpo ed è invece più giusto dire che la nostra vita intera si trasforma in una dimensione nuova: la nostra anima e la nostra corporeità (non biologica) continuano a crescere verso la pienezza della vita divina. Il prefazio della Messa dei defunti dice: «la vita non è tolta ma trasformata..». La Parola di Dio afferma con chiarezza che il «corpo», da noi erroneamente ridotto solo a vita fisica, sta al centro di tutta la storia della salvezza: dalla creazione, all’Incarnazione del Verbo, alla sua morte Resurrezione, Ascensione al cielo dal quale attendiamo il ritorno. Se dovessimo pensare che il corpo muore con la fine della vita fisica, tutta la storia della salvezza sarebbe scardinata. Come ci ricorda Terulliano: caro cardo salutis (la carne è il cardine della salvezza).

Dietro questa centralità c’è una precisa idea di uomo che la S. Scrittura ci offre, diversificandosi dalla filosofia greca di cui il nostro pensiero è intriso. Nell’antropologia semitica, propria dell’AT e del NT, l’uomo non si può dire composto dall’unione di due elementi distinti come l’ anima e il corpo, dal principio spirituale e da quello materiale. È vero nella Scrittura non mancano richiami ad una dicotomia antropologica, che prende campo nel momento in cui la fede ebraica o cristiana si è confrontata con il mondo greco, ma l’idea di uomo che la S. Scrittura ci presenta è unitaria. Questo non vuol dire che non si veda nell’uomo una realtà complessa e articolata, costituita da più dimensioni variamente attestate. Quindi, sebbene si parli nella Bibbia di «anima» (nefeš- psiché), di «carne» (basar- sárx), di «spirito» (ruâh-pneûma), di «corpo» (sôma), l’uomo non s’identifica mai solamente con una di queste dimensioni. Non solo, mentre noi diciamo che l’uomo ha l’anima, ha il corpo, nella S. Scrittura si afferma che l’uomo è anima, spirito, corpo e così via. Questa precisazione è essenziale per dire un’unità sostanziale della realtà umana e sebbene essa sia sottoposta alla caducità nel suo corpo, l’aspetto della corporeità non è solo un fatto biologico ed esteriore, ma appartiene alla sua dimensione profonda. Ognuno di noi è il suo corpo, come è la sua anima e la relazione tra queste componenti è intima e indissolubile, così che se l’anima nel tempo terreno è impressa nel corpo, in modo analogico, anche il corpo è impresso nell’anima. Questa relazione è unitaria e non è destinata ad estinguersi. In questo senso la resurrezione riguarda tutta la persona, colta in tutti i suoi aspetti anche quelli più fragili, come la carne. Non basta, quindi, la salvezza dell’anima, perché è semplicemente impossibile: l’anima si porta sempre dietro la reciprocità con il suo corpo, è creata così, per questo nella visione cristiana la resurrezione del corpo è fondamentale. Non si deve, infatti, dimenticare che Dio ha fatto l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26) e che il Figlio di Dio è venuto nel mondo assumendo in tutto la nostra natura umana. Così dice la lettera agli Ebrei (10, 5), dando voce a Gesù: «Tu un corpo mi hai preparato allora ho detto ecco io vengo».

Il «corpo» è il luogo del dono ricevuto e ridonato. La salvezza dell’umanità non avviene attraverso il sacrificio solo spirituale di Gesù, o l’offerta della sua anima, ma attraverso il dono del «suo corpo», come ci ricorda l’Eucarestia. Senza il corpo del Signore e il nostro corpo, Dio non potrebbe rivelare tutto il suo l’amore che, sebbene nella temporaneità, è già eterno.

Nel Verbo fatto carne (Gv1,14), il corpo diventa un bene che è in comune tra Dio e l’uomo; non è quindi una zavorra di cui liberarsi, né un mero strumento che decade con il tempo: è il nostro modo di essere, è la nostra vita.  Anche noi nel nostro corpo siamo invitati a donarci, perché il suo principio e la sua pienezza è il dono.  Infatti, il corpo che noi siamo ci è stato donato dai nostri genitori e da Dio. Il nostro essere a «sua immagine e somiglianza» ci dice anche che la corporeità dell’uomo non solo è l’apice di tutta la creazione, ma il punto di riferimento di tutta la storia della salvezza che trova il suo centro nell’Incarnazione e nella morte e resurrezione del Signore.

Dopo Lui, anche noi risorgiamo nella carne. Quindi decade il «corpo biologico», ma non si esaurisce la sostanza del nostro essere, la nostra corporeità, crocevia del dono ricevuto e del donarsi: essa è destinata a rimanere per sempre, pur essendo trasformata nel passaggio dalla terra all’eternità.

Dopo la morte, la vita così intesa cresce ancora fino alla pienezza. Ecco perché, quando Gesù Risorge mostra le sue piaghe perché sono il segno corporeo della sua opera di amore che ha travalicato il tempo e lo spazio.  Il corpo di Cristo, come il nostro, registra ogni azione di amore. Il corpo non è il rivestimento di un principio spirituale, esso stesso è permeato dallo spirito: quando moriamo, noi continuiamo ad essere vivi e fecondi (per questo i morti e i vivi pregano reciprocamente) e custodendo l’impronta di Dio, veniamo trasfigurati nel nostro corpo.  Dice Paolo: «Dio dà a ciascun seme il proprio corpo.. Così anche nella resurrezione dei corpi è seminato corruzione, risorge nell’incorruttibilità.. è seminato corpo animale risorge corpo spirituale...» (1 Cor 15,35ss). Cosa c’è nel nostro corpo di così importante? L’immagine e somiglianza di Dio che torna a risplendere chiaramente con la Resurrezione.

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