ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 14 maggio 2015

Glesie furlane

Una Bibbia tradotta per il popolo dev’essere per forza una Bibbia “rivoluzionaria”?


Il 28 agosto 1978 l’arcivescovo di Udine, Antonio Battisti, ed Emilio Pizzoni, vescovo ausiliare e titolare della pieve di San Pietro di Carnia, invitano tutti i preti della Carnia a celebrare una messa nella chiesa-madre di San Pietro, nella Val Bût. Un gruppo di sacerdoti si fa avanti per domandare che la celebrazione si svolga in lingua friulana, ma i due vescovi respingono la richiesta: allora quei sacerdoti firmano un documento e lo lasciano sull’altare, dopo di che escono dal quell’antichissimo edificio sacro. Ecco, da quel gesto si può indicare l’inizio del movimento che prende il nome di Glesie furlane, Chiesa friulana, tuttora esistente, che stampa anche una piccola rivista mensile: «Patrie dal Friûl - di bessôi» (che possiamo tradurre con: «Patria del Friuli - da noi stessi»; letteralmente: «da soli»).

Il suo animatore storico è stato un prete battagliero e molto controverso, dalla personalità forte, quasi debordante, che ha lasciato una forte impressione in quanti lo hanno conosciuto: Francesco Placereani (Pre Checo Placerean), nato a Montenars il 30 novembre 1920 e morto a Udine il 18 novembre 1986. Era stato fra i fondatori del gruppo culturale «Int furlane» («Gente friulana») nel 1962;,del partito politico «Movimento Friuli» nel 1966  (più volte presente, a livello regionale, alle elezioni politiche, che raggiunse il massimo dei consensi nel 1968, con il 5% circa dei voti); nonché fra gli ispiratori della Mozione del clero per lo sviluppo sociale del Friuli, nel 1967. Ma la sua impresa culturale più significativa è stata la traduzione in friulano del «Messale romano», fra il 1971 e il 1977, e quella, ancor più impegnativa della Bibbia, sempre in friulano: fatica da lui concepita e iniziata, ma portata a termine solo parecchi anni dopo, nel dicembre del 1993, dal suo erede spirituale, il sacerdote Pier Antonio Bellina (Pre Toni Beline), nato a Venzone l’11 febbraio 1941 e morto a Basagliapenta di Basiliano il 23 aprile 2007.
Glesie Furlane si può considerare come un doppio effetto del Concilio Vaticano II (e, in senso più lato, della cultura del 1968 in ambito ecclesiastico, specialmente della teologia della liberazione) e della progressiva presa di coscienza da parte di una minoranza etnica e della sua graduale rivendicazione dell’autonomia culturale - e, poi, anche politica -, quest’ultima espressa nella nascita del Movimento Friuli, fondato, come si è detto, nel 1966, per iniziativa, oltre che di Francesco Placereani, di personalità come Gianfranco Ellero, Raffaele Carozzo, Fausto Schiavi, Corrado Cecotto e Gino di Caporiacco, quest’ultimo assai noto come storico.
Partiamo da questo secondo elemento, che è – secondo noi – quello più profondamente radicato e quello più autenticamente sentito nell’ambito della società friulana, anche da parte di quanti non si riconoscono in maniera esplicita né nella Glesie furlane, né nel Movimento Friuli. La prima cosa che i non friulani devono sapere, a questo proposito, è che il friulano non è un dialetto italiano, ma una lingua neolatina, o, più esattamente, il ramo più orientale della lingua ladina (il cui ramo occidentale è il romancio e quello centrale il ladino dolomitico). I friulani, dunque, o una parte consistente di essi, non si sentono una popolazione, ma un popolo: non la più settentrionale delle popolazioni italiane, ma – per usare l’espressione dello scrittore e storico della letteratura Bindo Chiurlo – il più meridionale dei popoli settentrionali d’Europa. Accanto a questa consapevolezza, che è anche una fierezza, esiste una diffusa frustrazione per come la cultura e la stessa gente friulana sono state inserite nella compagine della cultura italiana e dello Stato italiano, unita al desiderio di rivendicare con orgoglio l’una e l’altra, di far rinascere e riaffermare la propria identità.
Questa è la prima cosa e la più importante. Molti friulani ridono, o sorridono, delle pretese autonomistiche sventolate da alcuni gruppi e movimenti; però, in cuor loro, ne condividono, magari senza rendersene conto, l’atteggiamento di fondo: quello di un popolo che ha coscienza di sé e che possiede non solo una lingua, ma un modo di pensare e di sentire, del tutto specifico, e diverso da quello degli altri italiani, a cominciare dai più vicini – i Veneti – al di là dai confini della “pìçule patrie”, cioè oltre il Livenza. E questo a dispetto del fatto che la lingua friulana abbia conosciuto una flessione costante, una emorragia inarrestabile, al punto che nella stessa Udine, la capitale storica, ove ai primi del XX secolo si parlava largamente il friulano, ora esso è quasi scomparso, dapprima dal centro, indi, poco alla volta, anche dai borghi periferici, per cedere il passo al (non bellissimo) dialetto veneto udinese, importato dai dominatori veneziani dopo la caduta del Patriarcato di Aquileia, nel 1420.
Tuttavia non bisogna trarre l’errata conclusione che i Friulani si sentano degli Austriaci, o quasi: come diceva un altro giornalista di orientamento autonomista, Riedo Puppo, l’Austria è l’Austria, e il Friuli è il Friuli; sono, cioè, due cose diverse - anche se innegabilmente, aggiungiamo noi, sia l’architettura, sia il paesaggio, sia lo stesso carattere degli abitanti, assomiglino molto più a quelli austriaci che a quelli di qualunque altra regione italiana. E anche se l’amministrazione austriaca, specialmente là dove essa è durata più a lungo – quindi nel Goriziano, in primo luogo – ha lasciato molti ricordi positivi, dalla burocrazia al sistema fiscale, dall’apparato scolastico al servizio postale, per non parlare dei legami affettivi originati da un prolungato ed intenso flusso migratorio dei Friulani verso l’Austria, sia stagionale (specialmente boscaioli e, più tardi, gelatai) che permanente (dalle miniere al commercio).
Nel secondo dopoguerra, mentre si accendeva - e, per fortuna, in qualche anno si spegneva - l’ultima grande ondata migratoria dei Friulani (diretta, stavolta, soprattutto verso l’Argentina, oltre che verso la Svizzera e il centro Europa), la consapevolezza della propria identità si è unita alla rivendicazione di alcuni obiettivi storici per risollevare le condizioni spirituali e materiali della “piccola patria”: la creazione di una università del Friuli, e specialmente della facoltà di medicina, a Udine (città dotata di uno dei migliori ospedali pubblici d’Italia); la riduzione delle servitù militari, che, gravando su vaste zone rurali, ritarda ed ostacola lo sviluppo economico e penalizza fortemente l’agricoltura; la limitazione della presenza meridionale nella pubblica amministrazione, vissuta come una forma di colonizzazione da parte del Sud, in numerosi ambiti, dalla magistratura alle forze dell’ordine, dalla pubblica istruzione agli impiegati comunali, provinciali e regionali; la valorizzazione e, possibilmente, l’insegnamento della lingua friulana nelle scuole, nella prospettiva di una sua parificazione all’italiano e, quindi, del bilinguismo ufficiale; il distacco delle tre province friulane – Udine, Gorizia e Pordenone  - dalla Venezia Giulia, e quindi dalla città di Trieste, considerata del tutto estranea alla cultura e alla storia del Friuli e vista come presenza parassitaria, o comunque penalizzante, rispetto ai bisogni della realtà friulana.
Va notato che la regione Friuli-Venezia Giulia ottenne l’autonomia amministrativa - ultima delle cinque regioni italiane a statuto speciale -, con legge costituzionale n. 1 del 31 gennaio 1963 -, ma, appunto, mediante la fusione del Friuli con la Venezia Giulia, e cioè subordinando, in un certo senso, il primo alla seconda: l’autonomia, perciò, fu vissuta da quasi tutti i Friulani, se non proprio come una beffa, certo come una grande occasione mancata, perché metteva ancora una volta la loro terra in posizione subordinata rispetto ad un “centro” posto fuori di essa (come era stato prima, con il Friuli storico inglobato nel Veneto), e i cui interessi e le cui necessità avevano poco o niente a che fare con quelli del Friuli medesimo.
L’università di Udine, istituita nel 1978, è arrivata, in un certo senso, troppo tardi: quando intere generazioni di studenti friulani si erano formate a Padova, Venezia o Trieste, diluendo alquanto la loro coscienza identitaria, e ciò mentre alcune voci originali, come quella di P. P. Pasolini (autore di bellissime e struggenti poesie in lingua friulana), si erano spente; e soprattutto quando ormai il terribile terremoto del 1976, spazzando via il volto, se non l’anima, del vecchio Friuli - rurale, patriarcale, malinconicamente nostalgico e raccolto in se stesso - aveva segnato una cesura traumatica nella storia sociale e spirituale di questo popolo.
Per capire il fenomeno della Glesie Furlane bisogna tener conto di tutto questo. Vale la pena di riportare la definizione che i suoi membri danno del gruppo: «un grop di cristians e furlans che a cirin di lâ a font des lôr lidrîs culturâls e religjosis, par podê conciliâ in maniere armoniche la propie fede cu la propie identitât culturâl. Vuê si feberlarès di “inculturazion de fede” o di “vanzelizazion de culture”.»
Da questa definizione emerge, insieme a quella autonomistica e identitaria, l’altra grande istanza presente nel gruppo Glesie furlane, ma anche in altri orientamenti analoghi del clero e dei fedeli di questa regione: quella pastorale “di base”, con influssi che risalgono al substrato ideologico ecclesiastico post-conciliare, dalla teologia della liberazione alla pastorale e alla pedagogia di don Milani, il tutto in chiave di contestazione – implicita o esplicita – della Chiesa “ufficiale”, della Curia, degli stessi vescovi locali, accusati di non essere abbastanza vicini al “popolo”, abbastanza sensibili al suo “grido”, ai suoi bisogni, alle sue speranze.
Francesco Placereani e Antonio Bellina, ad esempio, pensavano che la Chiesa cattolica non si fosse rinnovata a sufficienza dopo il Vaticano II, che non fosse stata coerente con le direttive conciliari, che non avesse saputo andare verso gli ultimi, verso i poveri, verso gli emarginati; e interpretavano il popolo friulano, negletto dalla storia delle grandi nazioni, incompreso, sfruttato, come la quintessenza di ciò che Cristo intendeva quando parlava, esaltandoli, dei “piccoli” e dei “semplici”. Si trattava dunque, per loro, di recuperare credibilità presso la gente, tornando a predicare il Vangelo della concretezza, accanto alle persone semplici, vivendo i loro problemi, mettendosi nella loro prospettiva, anzi, condividendo in tutto e per tutto i loro dolori e le loro aspirazioni, le loro amarezze e la loro tenerezza.
Anche qui è necessario fare, per il lettore non friulano, una importante precisazione. Forse in nessuna parte d’Italia, come in Friuli, il clero, storicamente, è stato vicino alle classi popolari, ne ha condiviso le fatiche e le battaglie, ha saputo farsi capire da esse, le ha sostenute nelle loro prime organizzazioni sociali e sindacali – ad esempio, nelle cosiddette “leghe bianche”, o nella fondazione delle cooperative di credito agricolo -, ne ha interpretato gli stati d’animo e le aspirazioni. Il clero friulano, dopo l’unità d’Italia, è stato ed è rimasto fortemente radicato nel tessuto della società rurale, godendo, nello stesso tempo, di una considerazione, di un prestigio, di un consenso, come, probabilmente, in nessun’altra regione. Per trovare un fenomeno analogo, che si potrebbe anche chiamare clericalismo, ma con una forte connotazione sociale, bisogna andare presso il clero austriaco e presso quello sloveno degli ultimi tempi dell’Impero asburgico; ma forse il paragone più calzante è proprio quello con quest’ultimo. Anche in quel caso, il clero cattolico locale ha svolto un ruolo fondamentale per la difesa della lingua, della cultura, della identità nazionale slovene, preservandole dal pericolo di essere sommerse dalla lingua e dalla cultura tedesca in Carniola e nella Carinzia meridionale, poi, dopo il 1918, dalla lingua e dalla cultura italiana nella Venezia Giulia, corrispondente, più o meno, al vecchio Küstenland, il cosiddetto Litorale. Insomma, è come se il Friuli fosse stato l’ultima regione d’Italia, e una delle ultime d’Europa, ad ammainare la bandiera della fierezza cattolica e ad arrendesi alla marea montante del secolarismo.
In Friuli, dunque, esistevano le condizioni sufficienti per la nascita di un movimento come Glesie furlane: una società solo recentemente, e solo in parte, investita dall’ondata della secolarizzazione; un clero ben radicato fra la gente e tradizionalmente vicino ai problemi del lavoro, della famiglia e del rapporto con lo Stato; una cultura locale molto individualizzata, discretamente cosciente di se stessa e in fase di risveglio; una particolare sensibilità alla concretezza da parte degli intellettuali, qui rappresentati, almeno in parte, proprio da elementi del basso clero, la cui naturale vocazione è quella di gettare un ponte fra la cultura delle classi superiori e quella popolare (si pensi solo, per fare un paio di esempi, al film «Gli ultimi» e alle poesie “teologiche” di padre Davide Maria Turoldo). Condizioni sufficienti, abbiamo detto, ma non necessarie: di fatto, anche qui esisteva la dualità, tipica della Chiesa cattolica, fra il richiamo alla tradizione e quello all’innovazione; e anche qui, anzi, specialmente qui, esistevano, per le stesse caratteristiche sociali e culturali cui abbiamo accennato, dei sacerdoti orientati in senso tradizionalista, ma non meno radicati nelle loro rispettive comunità e non meno stimati dai fedeli, di quanti ve ne fossero nel campo dei riformisti. Ne ricordiamo uno per tutti, quel don Luigi Cozzi, per molti anni parroco di Solimbergo, in provincia di Pordenone, il quale, anche per i suoi interessi storici e archeologici e per la sua robusta cultura umanistica, oltre che per la sua austera visione religiosa, molto legata ai valori della terra e della società pre-moderna, godeva di un indiscusso prestigio, anche se le sue posizioni erano considerate da molti troppo conservatrici e, quindi, oggetto di forte critica.
Ad ogni modo, dopo il Concilio Vaticano II e la ventata “rivoluzionaria” degli anni Sessanta, anche nei seminari e nel clero friulano si produsse un fenomeno di generale irrequietezza, un moto di insofferenza verso l’autorità vescovile, una tendenza dalla contestazione e al rifiuto di abitudini consolidate e di norme vigenti da tempo immemorabile, il tutto in nome di un “aggiornamento” del messaggio evangelico che ricordava, «mutatis mutandis», alcune istanze già portate avanti dal modernismo nei primi anni del XX secolo, e poi solennemente condannate da Pio X, ma ora rinate e alimentate dalla nuova atmosfera creatasi in sede post-conciliare. In una regione fortemente industrializzata, si sarebbe sviluppato il fenomeno dei preti-operai; in una regione a prevalente vocazione agricola (e si noti che Glesie furlane ha messo radici dapprima in Carnia, ossia nella zona più isolata e arretrata, e solo in seguito nel resto del Friuli, verso la pianura relativamente più ricca) è nato il fenomeno del parroco di paese che si fa interprete e portavoce di una forte richiesta di ritorno allo spirito evangelico originario, di un più esplicito distacco dalla Chiesa mondanizzata e di una più netta scelta preferenziale per gli “ultimi” e per i “poveri”: tutti elementi, come si può notare, caratteristici proprio della teologia della liberazione, nata in quegli anni nel clero e tra i cattolici laici dell’America Latina.
Don Milani, il suo atteggiamento polemico verso l’arcivescovo di Firenze, la vicenda dell’Isolotto, tutto questa eredità è presente nel movimento fondato da Francesco Placereani e continuato da don Antonio Bellina: due sacerdoti, bisogna dirlo, dal temperamento sanguigno e battagliero, che non hanno esitato ad assumere, talora, comportamenti di aperta sfida nei confronti dell’autorità vescovile, andando anche oltre il “modello” don Milani e volendo incarnare un nuovo tipo di prete, radicalmente vicino alla gente, radicalmente schierato con il “popolo”. (Una volta, al vescovo udinese che gli chiedeva con quale autorizzazione egli avesse celebrato messa in cima a una montagna della Carnia, egli rispose, con molta arguzia ma con poca modestia, che, se Mosè aveva ricevuto le dodici tavole sul Monte Sinai, più basso, egli poteva ben dire messa su di una montagna nettamente più elevata.) La decisione di tradurre la Bibbia in friulano nasce da qui: vale a dire, da una scelta pastorale che è anche di tipo sociale, prima ancora che culturale: non si trattava solo di portare la Bibbia più vicino al popolo cristiano, ma anche di far sentire la Chiesa più vicina alla gente. La motivazione autonomista si intrecciava, dunque, con quella pastorale e teologica “progressista”: ma la seconda, almeno nelle intenzioni e nella linea di condotta del gruppo, finiva per essere decisamente prevalente.
Naturalmente, la traduzione della Bibbia in friulano era e rimane anche un importante evento culturale e ha recato un contributo notevole alla coscienza di sé del popolo friulano, della bellezza e dignità, anche letteraria, della sua lingua, la “marilenghe”; e come tale, ora, viene rievocata e celebrata in simposi ufficiali, come è accaduto il 13 novembre 2009, nel venticinquesimo dell’evento,  con un convegno organizzato dalla Provincia di Udine e che ha visto la partecipazione, accanto al presidente Fontanini, di tre vescovi, in rappresentanza della Chiesa locale. Resta il fatto che il sottinteso polemico, anti-gerarchico, anti-tradizionalista e “modernista” da cui nacque la traduzione della Bibbia, e, più in generale, l’orientamento da teologia della liberazione del gruppo Glesie furlane, non poteva non generare divisioni tra i fedeli e perplessità nelle gerarchie della Chiesa cattolica, tanto a livello locale che nazionale.
E qui si pone la domanda di fondo, da cui eravamo partiti: una Bibbia per il popolo deve essere, per forza di cose, anche una Bibbia “rivoluzionaria”? È inevitabile che, accingendosi a tradurre in una lingua locale, per la prima volta nella storia, la Bibbia, appaiano in controluce le figure di Lutero e di Calvino, o quelle di Buonaiuti e di Tyrell; o, ancora, quelle di Leonardo Boff e, magari, di Camilo Torres? Voler portare il Vangelo, voler portare la Chiesa più vicino alla gente, significa necessariamente questo?
Noi crediamo di no, e per una ragione molto semplice. Tutto nasce da un malinteso: che la “scelta preferenziale per i “poveri” equivalga all’adozione, da parte della Chiesa, della prospettiva e del metodo marxista della lotta di classe. In primo luogo, i “poveri” di cui parla Cristo non sono tali solo in senso economico, ma, soprattutto, in senso morale: sono i poveri di spirito, coloro che si fanno piccoli davanti a Dio per accogliere con umiltà e fiducia la Sua parola. In secondo luogo, il Vangelo non è e non può essere piegato alla logica politica della contrapposizione di classe: non può significare una idealizzazione del “popolo”, non può ridursi alla formula demagogica secondo cui “il povero ha sempre ragione”, perché questo non è vero. Il povero può aver ragione, come può avere torto: la sua condizione di povero, in senso puramente materiale, ne fa oggetto di particolare sollecitudine da parte del cristiano, ma non lo circonfonde di gloria, non lo trasforma in una bandiera da sventolare, in battaglia, contro il non-povero, o contro colui che viene ritenuto tale. Perché, a volte, le apparenze ingannano: e accade, tanto per fare un esempio, che il proprietario di un appartamento sia più disagiato di colui che ci vive in affitto, così come può accadere che un piccolo imprenditore, oberato dai debiti e gravato dalle tasse, sia più disagiato dei suoi operai. Guai se il prete si facesse paladino del “povero”, che non sempre è tale, contro il benestante: tradirebbe la sua missione spirituale e diventerebbe una brutta copia del rivoluzionario di professione. Tradirebbe, soprattutto, il Vangelo, che non è un libro di emancipazione politica o sociale, ma spirituale e religiosa; e farebbe di Gesù Cristo un Che Guevara ebreo vissuto duemila anni fa, uno dei tanti che vorrebbero portare il paradiso in terra mediante una “buona” rivoluzione, cioè mediante la sistematica eliminazione dei nemici di classe.
Amare il popolo, amare gli “ultimi”, amare le persone semplici, non significa adottare il punto di vista del materialismo storico; e meno che memo per un prete o per un cristiano. Il cristiano ha un’altra battaglia da portare avanti, che ha per teatro, prima di tutto, la conversione personale e l’apertura alla grazia divina; battaglia che non si fonda sull’orgoglio umano e sulla pretesa di raddrizzare il mondo secondo un progetto ideologico, ma sulla disponibilità a rendere il mondo più umano e più accogliente ponendosi al servizio del disegno di Dio, e con la chiara consapevolezza che, nella dimensione terrena, ci saranno sempre dei poveri e ci saranno sempre delle ingiustizie, per quanto ciò possa, e debba, fare scandalo. Ma è lo scandalo della vita umana e della condizione umana, sospesa fra peccato e redenzione, come un ponte gettato sull’abisso: il ponte del libero arbitrio. Se l’uomo potesse costruire il paradiso in terra e se potesse eliminare per sempre l’ingiustizia e il dolore, allora non sarebbe più uomo: sarebbe Dio. E appunto nella pretesa di sostituirsi a Dio, in mille forme diverse (ad esempio con la manipolazione genetica), egli è maggiormente peccatore, e più duramente viene punito: punito dalle conseguenze del suo stesso orgoglio, della sua stessa pretesa di andare oltre il limite del proprio statuto ontologico.
L’uomo, invero, ha una possibilità, ed una sola, di andare oltre il proprio statuto ontologico: che non consiste nel voler emulare Dio e nel farsi il Dio di se stesso, ma, al contrario, nel lasciar andare il proprio Io presuntuoso e tirannico, nel farsi piccolo e nell’accogliere, così, la pienezza dei doni spirituali che gli vengono dall’alto, se è abbastanza umile – e abbastanza forte - da resistere alla tentazione dell’autosufficienza e da riconoscere il debito della propria condizione creaturale, che tende verso l’Assoluto, ma non è l’Assoluto: ne è, semmai, una scintilla, un riflesso, una immagine preziosa, ma pur sempre imperfetta.

È un vero peccato che in tante parti del mondo, e anche nella piccola patria del Friuli, l’accecamento ideologico sessantottesco abbia confuso e cancellato la limpidezza del messaggio cristiano e aperto la strada a un così grossolano equivoco. Agitando la bandiera della Chiesa dei poveri, della Chiesa del popolo, questi gruppi e movimenti si sono lasciati trasportare, magari in buona fede, da un atteggiamento molto, troppo umano e troppo poco religioso e spirituale: l’atteggiamento di chi vuol rifare il mondo con le forze dell’uomo, e finisce per ridurre il divino alla misura dell’umano. Un peccato di superbia, dunque, e non piccolo, né innocente: perché in esso vengono smarrite proprio quella mitezza, quella benevolenza, quella confidenza in Dio, che si esprimono nel dire un po’ meno “Io”, e nell’aprirsi con spirito di fede, speranza e carità al mistero della grazia divina. Come dice San Paolo: uno solo è il Vangelo, anche se sono molti a predicarlo…

di Francesco Lamendola - 12/05/2015


Fonte: Arianna editrice 

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