ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 16 maggio 2015

Scintille positive o positiviste?


Kelsen

Sinodo. Vietato l’ingresso al positivista Kelsen
Ricevo e pubblico la seguente “riflessione verso il sinodo dei vescovi di ottobre 2015″. L’autore è dottorando presso la facoltà di diritto canonico della Pontificia Università della Santa Croce in Roma.
LA VERITÀ E IL “VANGELO” DEL MATRIMONIO E DELLA FAMIGLIA
di Giovanni Parise
All’approssimarsi del sinodo di ottobre, assistiamo a un vivace dibattito sulle varie dinamiche che possono in qualche modo inerire al vasto mondo della famiglia, con aspettative più o meno sorprendenti su sessualità, unioni e coppie di fatto, unioni omosessuali, divorzio, seconde nozze.
Tuttavia, come lo stesso sommo pontefice ha avuto modo di ricordare, l’importante è fermare l’attenzione sul “Vangelo della famiglia”, sul fatto che la famiglia stessa sia “Vangelo”, sulla verità della e sulla famiglia, mostrandone il suo fondamento e indicando i problemi e i fraintendimenti che stanno alla base dell’attuale “crisi”.


Un primo errore in cui si cade è il ritenere che il matrimonio sia stato definito nei suoi caratteri essenziali – unione fra uomo e donna, fedeltà, indissolubilità, apertura alla vita; cf. canoni 1055-1056 del CJC – dall’esterno, ovvero che questi caratteri gli siano stati conferiti da un’autorità “umana” e pertanto, in un’ottica di presunta e pretestuosa evoluzione, questi stessi possano essere cambiati se, per esempio sembri essere maggiormente conforme alla dignità dell’uomo e alla sua libertà il poter sciogliere un vincolo contratto, anziché esserne schiavo per sempre, se si ritenesse “morta” quella relazione, almeno a livello sentimentale. Oppure, in un’esasperazione fuorviante del “diritto di eguaglianza”, sarebbe giusto riconoscere a coppie omosessuali la possibilità di vedere riconosciuta la loro relazione come un matrimonio, alla pari delle coppie eterosessuali, e così via.
È un po’ quello che accade anche nel positivismo giuridico, ben esposto da Hans Kelsen: una qualsiasi norma, proprio in quanto positiva, cioè posta ed imposta dall’autorità o dalla maggioranza, è per ciò stesso valida, buona e diventa “diritto giusto”. La fallacia e la perniciosità suprema di un tale pensiero sono state smascherate da più parti (Hervada, Errazuriz…) e l’inconsistenza pericolosa di tale impostazione è evidente a tutti, per esempio, se si pensa alle leggi razziali imposte dal regime nazista di Hitler ma non certo qualificabili come “diritto giusto”.
Il papa emerito Benedetto XVI, nel suo monumentale discorso al parlamento di Berlino nel settembre del 2011 ha ben risposto a queste posizioni, richiamando il concetto classico di realismo giuridico, laddove diritto è la “ipsa res iusta” in natura e giustizia è “cuique suum tribuendi” (Ulpiano). E questo vale indubbiamente per una realtà anzitutto naturale qual è il matrimonio: Cristo ha assunto a sacramento ciò stesso che è in natura (can. 1055 § 1) e, come insegna il Concilio Vaticano II, è Cristo stesso, nuovo Adamo, che, nella redenzione, svela l’uomo all’uomo, mostrandogli la sua altissima vocazione divina (cf. Gaudium et spes, 22).
Non si tratta, pertanto, di un discorso legato a un dato credo religioso: no!  “Il matrimonio – quello stesso che, senza alcuna aggiunta coniugale, è fonte di grazia sacramentale per i battezzati – corrisponde alla verità antropologica dell’uomo, di qualsiasi uomo o donna indipendentemente dalla sua razza, religione, convinzione, posizione sociale e politica, ed è perciò valido e vero in sé, in natura” (Pedro-Juan Viladrich). Quindi la corretta ottica entro cui porsi per superare l’empasse, in cui sembra si sia caduti a riguardo del matrimonio e della famiglia, è quella di tornare al realismo, assumendo una corretta antropologia veramente rispettosa dell’uomo, contrastando, così, l’individualismo e il relativismo imperanti specialmente nelle nostre culture occidentali.
Il matrimonio e la famiglia, quindi, così come sono stati finora concepiti e così come la Chiesa li propone, non sono frutto di una cultura che può cambiare, ma sono così in natura e, pertanto, sono di per sé rispondenti al meglio alla verità dell’uomo: cambiarli altro non significa che pervertire la verità dell’uomo, barattandola con surrogati svianti e lesivi della dignità della creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio-Amore.
La vigente normativa canonica sul matrimonio e, di riflesso, sulla famiglia, pertanto, se letta in quest’ottica e in combinato col magistero sull’argomento (si pensi specialmente all’esortazione apostolica “Familiaris consortio” di san Giovanni Paolo II), appare in tutta la sua rispondenza all’esigenza di tutelare la verità di queste importanti e fondamentali realtà.
È proprio inserendosi in questo cammino di riscoperta del Vangelo della famiglia e prima, quindi, del matrimonio che possiamo superare ogni riduzionismo funzionalistico degli stessi istituti, come ad esempio il piegarli a concezioni estranee quali: l’unione omosessuale; le convivenze che si caratterizzano per la loro instabilità e per il non impegno assunto verso il per-sempre-con te, che fa dei due “una caro”; il divorzio; l’ammissione della possibilità di “rompere” vincoli validamente contratti o di “ammetterli” in qualche modo o tramite qualche prassi che possa far pensare in questo senso. “È il colmo del paradosso che, forse in ragione del patrimonio giuridico e dell’onorabilità della famiglia matrimoniale, quelle ideologie che nel XX secolo hanno combattuto il matrimonio, accusandolo di arcaica struttura patriarcale e di essere strumento chiave per la sottomissione della donna, abbiano fatto fronte comune nel XXI secolo per rivendicare proprio quella contestata forma matrimoniale per la convivenza omosessuale. Tali oscillazioni, in apparenza contraddittorie, sono possibili soltanto in base al relativismo profondo che ‘unifica’ la Babele antropologica” (Viladrich).
La famiglia non va difesa solo perché funzionale alla società, di cui è cellula primordiale e fondamentale. Anche questa posizione, alla fine, infatti, sarebbe un piegare il matrimonio e la famiglia al mero dato funzionale, benché sia verissimo che queste realtà naturali sono indubitabilmente la base prima dell’umana convivenza (basti pensare che tutte le relazioni si definiscono in base alla parentela scaturente proprio dal matrimonio e che ha per paradigma la famiglia, in cui nascono e si formano tali rapporti vitali primari ed imprescindibili per l’essere stesso dell’uomo), ma è questa che deriva da quelle, non viceversa. Perciò l’unità, l’indissolubilità, la monogamia non sono caratteri funzionali che vengono dati a queste realtà solo per un maggiore bene dell’umana famiglia, ma appartengono alle stesse come essenziali di per sé, e proprio perché rispondenti all’uomo esistono e corrispondono, poi, al maggiore bene della società.
Quindi, non si può negare che unità e indissolubilità si colleghino pienamente alla verità dell’uomo e siano, pertanto, comprensibili solo qualora si torni ad abbracciare una retta antropologia rispettosa dell’uomo stesso, ritenendolo, cioè, capace di amare, di donarsi totalmente ed esclusivamente e per sempre; si tratta di una vera antropologia sulla sessualità e sull’amore umani, che sono l’intimità ontica dell’essere stesso dell’uomo.
Infine, non dobbiamo impostare la nostra riflessione in base alla fallace casistica umana. Gesù, interrogato e messo alla prova da alcuni farisei circa il ripudio (Mt 19, 3-12), non dà risposte in base alla casistica, indulgendo su una falsa misericordia, ma si richiama al principio, a quel principio naturale della verità sul matrimonio e sulla famiglia, ed aggiunge: “avete letto”. Questo ci permette di capire che questa verità, questo Vangelo della e sulla famiglia è qualcosa di intellegibile all’uomo, essendoci “segni che indicano la verità dell’uomo, maschio e femmina” (Viladrich); non è legato a nessuna visione culturale o religiosa, ma è in natura e, proprio per ciò, è accessibile all’uomo, a qualsiasi uomo, a prescindere dal credo che professa.
Semmai, la Chiesa, proprio perché insegna e difende la verità, si trova, in questo senso, a difendere la famiglia vera e il matrimonio vero che sono ben rispondenti alla libertà e all’essenza ontologica dell’uomo, e non, viceversa, che questi assumano determinate caratteristiche ed elementi perché è intervenuta la Chiesa, o una determinata cultura. Sottolinea Viladrich: “Solo il consenso dei due contraenti fonda l’una caro e, soprattutto, non è Dio il contraente, che acconsente in luogo degli sposi, né supplisce un’eventuale mancanza di volontà o capacità dei fidanzati. La verità dell’unione, con le sue proprietà intrinseche, è offerta all’uomo e alla donna, ma sono questi con la loro libera volontà ad accogliere questa possibilità, e mettendola in atto diventano sposi”. Viene rispettata la libertà e, al contempo, viene fatto dono agli sposi di poter essere quello che devono essere.
È, pertanto, in quest’ottica che, a nostro avviso, sarebbero da porsi sia le discussioni che le riflessioni presinodali in materia. Lo sforzo pastorale della Chiesa, che per sua divina istituzione deve continuare la presenza di Cristo buon pastore accanto all’uomo, dovrebbe tendere proprio alla retta formazione antropologica degli uomini e delle donne di questi tempi, ricchi di potenzialità, ma anche tanto minacciati dalle tenebre.
E, infine, anche l’umile compito del canonista, ma anche del giudice chiamato alla grande responsabilità di valutare su una materia tanto importante perché direttamente afferente alla salvezza delle anime, dovrebbe essere volto allo sforzo d’interpretazione e di applicazione della norma secondo una visione giusta dell’uomo e, quindi, del matrimonio e della famiglia, secondo verità.
Così, tra le sfide del mondo contemporaneo, la famiglia potrà essere Vangelo, annuncio e testimonianza, rispondendo alla sua altissima vocazione e alla sua missione di essere manifestazione della verità dell’uomo e, così, configurarsi come bene per il vivere dell’intera umanità.


Ma il vero Kelsen era questo qui. Contrappunto al precedente post


images
Ricevo e pubblico. L’autore della lettera è avvocato e giurista a Trieste.
*
Caro Magister,
solo un appunto in ordine all’intervento del canonista Giovanni Parise:

> Sinodo. Vietato l’ingresso al positivista Kelsen
Egli afferma che, secondo Hans Kelsen, “una qualsiasi norma, proprio in quanto positiva, cioè posta ed imposta dall’autorità o dalla maggioranza, è per ciò stesso valida, buona e diventa ‘diritto giusto’”.
L’affermazione non è condivisibile. Per Kelsen la norma posta dall’autorità, in quanto rispettosa delle norme di produzione del diritto, è sì una norma valida ma non necessariamente una norma giusta. La cosiddetta “dottrina pura del diritto” di Kelsen è tutta orientata a determinare che cosa sia il diritto, indipendentemente da considerazioni ideologiche o sociologiche. Ad essa fa da sfondo la rigorosa formalizzazione delle cosiddette “fonti del diritto” promossa con l’affermazione dello stato moderno. Per Kelsen il diritto è il sistema delle norme valide. Ma su che cosa si fonda la validità delle norme?
Kelsen si inventa la Grundnorm, la “norma fondamentale”, che costituirebbe il fondamento della validità delle norme dell’intero sistema. Infatti nella ricerca del fondamento della validità della norma, a un certo punto ci troveremmo innanzi a una norma di diritto positivo, di rango costituzionale, che, tuttavia, non deriva da un’altra norma ma dal mero potere che l’ha posta.
La Grundnorm è, di tutta evidenza, una finzione giuridica. Essa è, precisamente, la maschera giuridica del concetto eminentemente politico di sovranità. Di qui la debolezza epistemologica del formalismo kelseniano.
Tutto ciò considerato, per Kelsen il diritto valido non è per ciò stesso “diritto giusto”. Questa identificazione è propria del cosiddetto giuspositivismo ideologico e non metodologico, secondo la classica distinzione di Norberto Bobbio, il maggior rappresentante del giuspositivismo kelseniano in Italia.
Per Kelsen il problema del giusto e dell’ingiusto è un problema ideologico e irrazionale, afferente il mondo dei valori, che non può essere trattato dalla scienza perché ad essa estraneo.
Insomma, Kelsen riduce l’eticità a una questione di preferenza ideologica.
Ora, da un punto di vista teoretico possiamo rilevare la debolezza della costruzione di Kelsen in ordine alla determinazione della giuridicità.
In un’ottica storica bisogna però considerare che la sua speculazione era mossa dalla difesa dello stato di diritto, che si fonda sul principio della separazione dei poteri e sul principio di legalità.
Come è possibile realizzare il principio di legalità se non è teoreticamente possibile una conoscenza avalutativa del diritto?
Il movente teoretico di Kelsen era legato a una precisa preoccupazione etico-politica.
Certo, rimane un’ambiguità ideologica di fondo nel suo sistema, dovuta in ultima istanza al disconoscimento dei presupposti valoriali sostanziali di uno stato di diritto, irriducibili a una traduzione formale-procedurale.
Kelsen riduce questi presupposti a mera ideologia. Di qui l’inevitabile riduzione del diritto a “tecnica del sovrano”.
E se il sovrano non è un saggio parlamento liberal democratico? Qui nascono dei problemi innanzi ai quali il giuspositivismo kelseniano non offre adeguati strumenti teoretici.
Tutto ciò considerato, non si può caratterizzare Kelsen come promotore di stati totalitari o irrispettosi dei diritti della persona.
Per quanto riguarda nello specifico il diritto di famiglia, inoltre, bisogna considerare il periodo storico nel quale visse Kelsen: certe proposte legislative non le avrebbe neanche considerate concepibili.
In verità, nella sua esaltazione della dimensione formale e procedurale del diritto, egli faceva affidamento, anche se in maniera tacita ed irriflessiva, su un sistema di valori che la società del suo tempo dava per scontati.
Un caro saluto.
Antonio Caragliu


Controreplica. Su Kelsen ora interviene anche Benedetto XVI


kelsen
Da Giovanni Parise, canonista della Pontificia Università della Santa Croce in Roma, ricevo e pubblico queste “precisazioni”, nel solco del dibattito immediatamente suscitato dal suo post di poche ore fa.
*
A seguito del lodevole intervento dell’avvocato Antonio Caragliu, mi è doveroso fare alcune precisazioni, a proposito della mia precedenteriflessione.
Anzitutto, devo sottolineare che la mia nota concerneva la tematica del matrimonio e della famiglia segnatamente alla loro verità ontologica, che li rende “Vangelo” valido e necessario sempre.
Per capire il fondamento di questo è necessario notare come essi abbiano una loro identità propria, che non deriva loro dall’esterno, ma che è loro essenziale, interna, intima. Solo in questo contesto, di passaggio, citavo Kelsen, ricordando come per lui – esponente eminentissimo del positivismo giuridico, tanto da teorizzare la cosiddetta Grundnorm, vera “fictio iuridica” – il diritto sia inteso come una realtà estrinseca rispetto alla persona umana e alle sue relazioni.
Si trattava, cioè, di un esempio comparativo. Giova alla nostra riflessione l’analisi lucida e precisa che Carlos J. Errazuriz M. svolge nel suo “Corso fondamentale sul diritto nella Chiesa”, edizioni Giuffrè, Milano. 2009.
D’altra parte, se non si abbraccia l’errore positivistico, ci si deve chiedere: può esistere un diritto non giusto o una norma valida benché ingiusta? Una tale dicotomia non può darsi in una visione realistica del diritto!
Il positivismo giuridico – e non sto parlando nello specifico di Kelsen ora –, benché in una varietà di forme, tende a vedere il diritto come mera tecnica di regolazione della vita sociale, compatibile con qualsiasi contenuto, e il valore giuridico è fatto dipendere dalla capacità – in concreto – di imporsi.
Quindi, la regolazione giuridica non dipenderebbe dalle esigenze di giustizia insite nella stessa realtà sociale e nell’essere ontico dell’uomo nella sua verità più intima, poiché tali esigenze sarebbero relative, e la loro traduzione in norme giuridiche poggerebbe solo sul consenso sociale o sulla forza di chi impone tali norme.
Queste vedute impediscono sia di accettare il diritto naturale e i diritti umani oggettivi (cf. san Giovanni Paolo II, enciclica “Redemptor hominis”, 4 marzo 1979, n. 17), sia di cogliere il vero senso della realtà giuridica, che, così, portando all’estrema conseguenza queste posizioni, diventerebbe manipolabile in funzione di qualsiasi interesse, anche contro i più fondamentali beni della persona e della società.
Per fare un esempio concreto della perniciosità e della fallacia di tale sistema, basti vedere le odierne norme statali a favore dell’aborto, dell’eutanasia, del divorzio, delle unioni omosessuali, delle convivenze di fatto, ma anche le leggi di prevaricazione verso gli ultimi, i più poveri ed indifesi.
È vero che la realtà giuridica non è mai puramente naturale e richiede degli interventi umani per riconoscere ciò che è proprio, conforme e adeguato alla natura umana, tuttavia il diritto umano o positivo è inseparabile da quello naturale, ed entrambi compongono una sola realtà unitaria: non può, quindi, esistere una norma di diritto ingiusta. Non si tratterebbe qui di diritto, ma di perversione del diritto.
Il diritto come ciò che è giusto è sempre qualcosa di concreto, non è un’astrazione; in esso gli aspetti positivi e quelli naturali si intrecciano inscindibilmente e si richiamano mutuamente. Staccare il diritto positivo da quello naturale, come fa il positivismo giuridico, lascia la realtà giuridica priva di qualsivoglia vero fondamento antropologico, e, perfino, rischia di trasformarsi in arma contro la verità dell’uomo! In questa visione, si dimentica che il sistema giuridico, e la professione del giurista, rimandano ad una realtà sottostante e prioritaria; i rapporti di giustizia tra le persone e tra queste e gli insiemi sociali.
Quindi, il diritto non è qualcosa di meramente strumentale, ma è essenzialmente ciò che è giusto. Ciò che è strumentale è il sistema o la tecnica che si impiega per rendere operativi diritti e doveri.; mentre esiste un diritto anteriore al sistema giuridico, che precede norme e procedure umane, così come matrimonio e famiglia hanno una loro verità in sé, che previene qualsiasi umana caratterizzazione che si voglia loro conferire “ab extrinseco”.
Questa è la verità del matrimonio e della famiglia, che, così, è incontrovertibile, è un dato naturale, che non proviene dall’esterno, e che solo possiamo custodire e tutelare.
Alla fine, dobbiamo rimetterci al grande magistero di Benedetto XVI, il quale analizzava bene la questione nel suo monumentale discorso al parlamento federale tedesco, a Berlino, il 22 settembre 2011, che spiega come quella del realismo giuridico non sia una posizione “religiosa” o “cattolica”, così come il riconoscere la verità del matrimonio e della famiglia non è una questione di cultura o di fede, ma è abbracciare una realtà che si dà e si mostra, un essere da cui, inequivocabilmente, deve derivare l’univoco dover essere.
Benedetto XVI, nelle seguenti righe, chiarisce anche quel fraintendimento funzionalistico di cui parlavo nella mia precedente nota, fraintendimento verso il quale rischiamo di piegare persino l’istituto primario del matrimonio e della famiglia.
Cito:
“Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. […]
“Nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine.
“Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi.
“La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – ‘un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti’, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico. Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali.
“La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola.
“Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso. […]
“Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. […]
“La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. […]
“Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto. […] Esiste un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.
“Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. ‘Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana’, egli nota a proposito. Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un ‘Creator Spiritus’?
“A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. […] Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico”.
Riletta questa pagina capitale di Benedetto XVI, dunque, l’augurio che ci facciamo è che – anche grazie al prossimo sinodo e alla riflessione concernente lo stesso – la Chiesa si faccia ancora strumento che porti l’uomo a spalancare le finestre sulla vastissima bellezza della verità del suo essere, anche circa il “Vangelo” del matrimonio e della famiglia, proponendosi come alternativa valida ai sempre più numerosi e incombenti edifici di cemento armato, senza porte e senza finestre, che pretendono di darsi la luce e l’aria da soli.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.