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sabato 3 ottobre 2015

Ateismo militante


DIO PROBLEMA SCIENTIFICO ?


Ci sono forme di ateismo militante così aggressive e banali davanti alle quali si sarebbe tentati solo di ignorarle. Fra i tanti ateisti insulsi e beceri va annoverato senz’altro il biologo volutivo Richard Dawkins di Francesco Lamendola  
 


  
Ci sono forme di ateismo militante così aggressive e insieme banali, davanti alle quali si sarebbe tentati semplicemente di scrollare le spalle procedere oltre, ignorandole del tutto; ma, se sono proclamate dall’alto di un pulpito da qualche prestigioso intellettuale, e specialmente da qualche noto scienziato, meritano comunque una risposta, se non per il loro valore intrinseco, pressoché nullo, almeno per denunciare il sofisma su cui si reggono e per mettere in guardia il pubblico meno avveduto che la competenza scientifica non è e non può essere un titolo di credito sufficiente in una discussione di ordine religioso, spirituale, filosofico.

Fra questi ateisti insulsi e beceri va annoverato senz’altro il biologo evolutivo Richard Dawkins, membro della Royal Society e docente di Comunicazione della scienza all’Università di Oxford. Si tratta di uno scienziato che ha deciso di bandire una crociata contro qualunque forma di credenza religiosa e di mandare Dio in soffitta, anzi di eliminarlo completamente, in nome di una razionalità, appunto, scientifica, che, a suo parere, non fa una grinza, mentre basta sfogliare uno dei suoi libri, come quello significativamente intitolato «L’illusione di Dio», per vedere quanto zoppichino i suoi ragionamenti, ma, soprattutto, quanta superficialità e malafede, quanta boriosa presunzione e quanta miseria culturale formino il sottofondo costante del suo argomentare.
È quasi imbarazzante, dicevamo, entrare in polemica con personaggi di questo genere, perché difficilmente si può evitare di scivolare sul loro stesso terreno, pantanoso e sdrucciolevole: Dawkins non si perita di accomunare nello stesso disprezzo sia i credenti di qualunque fede che gli agnostici; di prendersela con quegli scienziati, come Stephen Gould, che non dichiarano abbastanza apertamente la propria militanza atea; di irridere quegli intellettuali che, discutendo dell’esistenza di Dio, si mostrano prudenti verso un tema che definiscono delicato; e di vomitare parole sprezzanti e contumelie d’ogni genere non solo contro i creazionisti e i fondamentalisti cristiani, ma anche contro persone come Madre Teresa di Calcutta, da lui definita ipocrita e oscurantista, rea di quello che gli appare come il massimo delitto contro l’onestà intellettuale, e cioè l’aver dichiarato che l’aborto è il male morale più grande che affligge l’umanità odierna.
La sua prospettiva di ricerca è di un semplicismo imbarazzante e rispecchia una formazione culturale che, in ambito teologico e religioso, non deve andar molto oltre le invettive di Voltaire contro la religione, come si vede là dove egli liquida, in poche parole, la questione dei miracoli; il suo atteggiamento mentale è quello del fanatico integralista alla rovescia (anche se, nella Prefazione, rifiuta questa etichetta, pur non spiegando perché), che si scaglia con veemente indignazione contro chiunque manifesti un sentire religioso, fino a dichiarare che le argomentazioni di molti credenti «trasudano vigliaccheria e disonestà intellettuale»: sembra il generale Patton che schiaffeggia quel povero soldato, ricoverato in un ospedale da campo per shock da combattimento, accusandolo di non essere altro che un fifone e un mollusco.
Invertendo l’ordine dei fattori, Dawkins dichiara che gli scienziati non dovrebbero avere alcuna remora nel gettarsi a corpo morto in una discussione di tipo teologico, anche se sanno poco o nulla di teologia – beninteso, purché lo facciano per negare recisamente qualsiasi ipotesi relativa al sopranaturale -, così come, afferma, i teologi discutono di questioni cosmologiche, pur non avendo alcuna preparazione specifica di tipo scientifico. A quanto pare, non gli riesce di cogliere alcuna differenza fra chi, studioso della scienza, invade un campo nel quale non ha, in quanto tale, nulla da dire, ovvero quello dello Spirito; e chi, riflettendo sul mistero dell’Essere, colloca anche la dimensione materiale all’interno del suo ragionamento.
Nel libro citato (titolo originale: «The God Delusion», 2006; traduzione dall’inglese di Laura Serra, Milano, Mondadori, 2007, pp. 64-5) rivela il suo atteggiamento intellettuale nei confronti del fatto religioso, affermando che la credenza in un Dio personale è una questione di ordine scientifico, e che soltanto in base a dei criteri scientifici può essere discussa (e, ovviamente, respinta):

«Secondo l’ipotesi di Dio, la realtà contiene un agente soprannaturale che avrebbe concepito l’universo e, almeno in molte versioni, lo mantiene in vita e addirittura vi interviene con miracoli, ossia con violazioni temporanee delle sue leggi altrimenti immutabili. In “Esiste un Dio?”, Richard Swinburne, uno dei maggiori teologi britannici, afferma con stupefacente chiarezza che il teista Dio ha il potere di creare, conservare o annichilare ogni cosa, grande o piccola che sia; governa gli oggetti e tutto il resto, fa muovere i pianeti nella maniera in cui Keplero scoprì che si muovevano, fa esplodere la polvere da sparo a contatto un fiammifero, fa muovere i pianeti in modi diversi, fa esplodere o non esplodere le sostanze chimiche secondo leggi differenti da quelle che governano attualmente il loro comportamento; insomma non è limitato dalle leggi di natura, ma le crea, e, se vuole, le può cambiare o sospendere.
Facile, no? Qualunque cosa sia, questa visione è assai lontana dal principio degli MNS [magisteri non sovrapposti: acronimo coniato da S. Gould per conciliare fede e scienza]; e qualunque cosa dicano, gli scienziati alfieri dei “magisteri separati” dovrebbero ammettere che un universo con un creatore intelligente e soprannaturale è molto diverso da quello senza creatore. In teoria, la differenza tra i due ipotetici universi non potrebbe essere più grande, anche se in pratica non è facile dimostrarla, e scardina l’asserzione compiacente secondo cui la scienza dovrebbe osservare un assoluto silenzio riguardo alle pretese della religione. Quella della presenza o assenza di una superintelligenza creatrice è inequivocabilmente una questione scientifica, anche se nella pratica non è risolta o non lo è ancora stata. Ed è una questione scientifica anche la verità o falsità di tutti i miracoli su cui fa assegnamento la religione per impressionare la moltitudine dei fedeli.
Gesù aveva un padre umano o sua madre era vergine al momento del parto?  Siano rimaste o no prove sufficienti per stabilirlo, si tratta ancora di un problema strettamente scientifico, con una risposta precisa in linea di principio: sì o no.  Gesù risuscitò Lazzaro? Lui stesso risorse tre giorni dopo essere stato crocifisso?  Ciascuno di questi interrogativi ha una risposta che in pratica possiamo trovare o no, ma che in ogni caso è rigorosamente scientifica. I metodi con cui dirimeremmo  la questione nel caso improbabile fossero disponibili prove di qualche rilievo sarebbero puramente ed esclusivamente scientifici. Per fare un esempio di grande effetto, immaginiamo che, per una straordinaria serie di circostanze, gli archeologi forensi scoprissero  la prova genetica che Gesù non aveva un padre biologico. Credete che gli apologeti della religione scrollerebbero le spalle e direbbero: “Che importa? Le prove scientifiche sono del tutto irrilevanti nelle questioni teologiche. Avete sbagliato  magistero. Noi ci occupiamo solo delle questioni fondamentali  e dei valori morali. Né il Dna né altre prove scientifiche influiranno mai, nell’uno o nell’altro senso, sul problema di Dio”?
Fa ridere solo l’idea. Si può stare certi che si appiglierebbero subito alle prove scientifiche emerse e le strombazzerebbero fino al cielo. Il principio dei magisteri non sovrapposti è gradito solo  perché non ci sono prove a favore dell’ipotesi di Dio. Nel momento in cui vi fosse un piccolo indizio a loro vantaggio,  gli apologeti lo getterebbero subito dalla finestra. Se si escludono i teologi raffinati (i quali però sono lieti di raccontare storie di miracoli ai non raffinati per incrementare il numero di fedeli), ho idea che molti credenti credano solo per via dei presunti miracoli; e i miracoli, per definizione, violano i principi della scienza.»

A parte il livore, il dilettantismo concettuale e la rozzezza che traspaiono da questa pagina, nella quale l’Autore non esita a fare il processo alle intenzioni a tutti i credenti, compresi quelli intellettualmente raffinati (che accusa di essere comunque degli imbroglioni e degli imbonitori da fiera), e che fanno pensare più ad un caso di nevrosi antireligiosa che a un serio e pacato desiderio di ragionare sull’argomento in questione, eccoci dunque al punto: la religione violerebbe i principi della scienza, perché si regge sul miracolo. Si vede che nessuno ha spiegato a Richard Dawkins che il miracolo non spiega affatto la religione e che nessun credente serio  considera l’argomento del miracolo come una prova “scientifica” dell’esistenza di Dio; senza contare che il concetto che egli ha di miracolo è, a un dipresso, quello che ne avevano Bayle e Voltaire, ossia una sospensione dell’ordine naturale, concetto che nessun credente serio potrebbe sottoscrivere, per il semplice fatto che l’ordine soprannaturale – miracolo o no – non si contrappone a quello naturale, ma ne rappresenta il completamento e, allo stesso tempo, la spiegazione ultima.
Nella sua prospettiva incredibilmente angusta, incredibilmente foderata di pregiudizi (nel senso negativo del termine), Dawkins ritiene che non ci sia posto per la scienza e la religione contemporaneamente; che una delle due escluda l'altra; e che, essendo la scienza il frutto di una umanità matura e razionale, mentre la religione è l'espressione di una umanità infantile e superstiziosa, non vi è il minimo dubbio su quale sia destinata a trionfare, e meritevole di tale trionfo, e quale a scomparire senza rimpianti.
A Dawkins non viene minimamente il dubbio che il vizio di questo modo di ragionare sia l'autoreferenzialità più assoluta: è come se si di domandasse a un venditore di aspirapolvere che cosa ne pensa degli aspirapolvere. E non gli viene in mente che anche l'uso dell'aspirapolvere potrebbe avere i suoi inconvenienti, che, però, mai un venditore di aspirapolvere sarà disposto ad ammettere in pubblico; ma che gli altri, compresi perfino coloro che li fabbricano, potrebbero vedere ed anche, a certe condizioni, riconoscere spassionatamente.
Tutto il ragionamento di Dawkins (se ragionamento lo si può chiamare: ma certo non lo merita una successione di affermazioni a senso unico, che non considerano nemmeno eventuali obiezioni) si basa sull'equivalenza fra religione e miracoli. Una religione, secondo lui, è la credenza nei miracoli: e, se si dimostra che i miracoli non esistono - cosa che la scienza, a suo dire, è in grado di fare - allora qualunque religione cade. Come tutti gli ateisti presuntuosi, egli si è fatto una idea caricaturale della religione: ignora, a quanto pare, che il miracolo non è affatto il fondamento di essa. E forse non ha mai letto seriamente il Vangelo; altrimenti saprebbe che Gesù, dopo aver guarito i ciechi e i paralitici, imponeva loro severamente di non dirlo a nessuno: non voleva che gli uomini credessero in lui e nelle sue parole per via dei miracoli che aveva compiuto per semplice compassione.
Forse, però, per il signor Dawkins "miracolo" e "soprannaturale" sono la stessa cosa: in tal caso, è vero che nessuna religione sopravviverebbe, se spogliata del soprannaturale. Ma che cos'è il soprannaturale? E' la dimensione "altra" della realtà; è la vita della Grazia; è la presenza di Dio che si manifesta nel segreto dell'anima umana, e - molto raramente, sotto forma, appunto, di miracolo - anche nella dimensione fisica e materiale della realtà. Ora, si dà il caso che il soprannaturale non sia esperibile, e tanto meno classificabile e documentabile, allo stesso modo di ciò che esiste nella dimensione naturale: non è neppure pensabile che si possa accostarlo, e - soprattutto - conoscerlo, con gli strumenti, concettuali e materiali, che sono propri della scienza.
Quanto al fatto che i credenti, se potessero avvantaggiarsi di una certa scoperta scientifica, lo griderebbero dai tetti, mentre si nascondono dietro la separazione insuperabile che divide scienza e fede, quando non hanno delle prove a sostegno, si tratta di una malignità del tutto inutile. È vero che i credenti richiamerebbero l'attenzione sulle scoperte scientifiche favorevoli alla religione (anzi, già lo fanno e Dawkins non lo sa: perché le guarigioni miracolose di Lourdes sono fatti scientifici, come piacciono a lui; e altrettanto vale per certe caratteristiche scientificamente inesplicabili della Santa Sindone); ma nessun credente serio pretenderebbe che, sulla base di tali evidenze, tutto il  mondo si convertisse alla loro fede. La fede, per definizione, è credenza nell'invisibile: se così non fosse, non si tratterebbe di fede, ma, appunto, di scienza. Credere nel fatto che le piante verdi operano la fotosintesi clorofilliana non è un fatto di fede, è una verità scientifica. Anche qui, si vede che Dawkins non ha letto il Vangelo, neppure le pagine più famose, quelle che conosce anche la persona più incolta e più irreligiosa: «Tu hai creduto, Tommaso - dice Cristo all'apostolo che i era rifiutato di credere alla Sua resurrezione, sulla sola parola degli altri, i quali avevano visto il Risorto - perché hai veduto; beati quelli che crederanno senza vedere».
Di nuovo, non possiamo fare a meno di domandarci: possibile che un insigne scienziato, membro della Royal Society e professore all’Università di Oxford, sia così ignorante? Questo la dice lunga sul fatto che tra l’essere scienziati ed essere capaci di sostenere una discussione seria sull’esistenza di Dio, ce ne corre; quando si parla di filosofia e di teologia, il biologo evolutivo – in quanto biologo evolutivo – non ha proprio nulla di interessante da dire. Se ha qualcosa da dire, non è in quanto biologo, ma in quanto essere umano dotato d’intelligenza aperta, colto e riflessivo: caratteristiche che lo scienziato può avere e non avere. Se non le ha, può darsi che sia egualmente un buon scienziato; ma non sarà mai capace di dire qualcosa d’interessante al di fuori della sua specialità di competenza. Allo stesso modo, il filosofo e il teologo certo non si azzardano a sparare giudizi sulla biologia evolutiva: se lo fanno, e se pretendono di dire qualcosa d’interessante, non lo fanno in quanto filosofi e scienziati, ma in quanto (si spera) persone riflessive, colte e intelligenti.
Per fortuna, gli scienziati non sono tutti come Dawkins; anzi, crediamo che la stragrande maggioranza sia ben diversa da lui. Lo scienziato non è affatto obbligato, dalla sua scienza, a ripudiare la religione; lo scienziato sa bene che scienza e fede giacciono su due piani distinti, reciprocamente indipendenti: e che nessuno dei due può permettersi di negare legittimità all'altro, sulla base di una inesistente incompatibilità fra i loro rispettivi statuti. La scienza è un insieme di conoscenze e di strumenti, non una filosofia; se lo diventa, è una cattiva filosofia: lo scientismo, che sfoggia la massima intolleranza verso gli altri ambiti del conoscere. D'altra parte, ciascuno scienziato è, evidentemente, liberissimo di aderire a questa o quella filosofia, questa o quella religione. La quale religione è oggetto della fede, non della scienza: se la si potesse dimostrare scientificamente, non sarebbe più fede. Ma ciò non significa che la religione, e la religione cristiana in particolare - perché è di questa che stiamo parlando, ed è questa che Dawkins, e i suoi simili, odiano e disprezzano - sia contraria alla scienza o alla logica; significa semplicemente che appartiene ad un altro ambito di realtà. Perciò l'atteggiamento dello scienziato nei confronti del fatto religioso è irrilevante dal punto di vista scientifico, nel senso che non ha alcuna influenza sul suo modo di porsi le questioni scientifiche; ne ha, semmai, sul senso complessivo della scienza, su dove essa voglia andare, su quali priorità voglia affrontare. Lo scienziato, dunque, può essere credente o non credente, la cosa non ha importanza quanto al suo essere scienziato; ne ha quanto al suo essere uomo. Se non è credente, ciò non significa neppure che egli debba essere contrario alla religione o che debba porsi, in quanto scienziato, come una sorta di crociato in guerra contro la religione: il migliore atteggiamento auspicabile sarebbe, per lui, quello di una apertura carica di curiosità, pur nella consapevolezza che, se davvero vuole esplorare l'ambito del religioso, deve deporre il camice dello scienziato e rivestirsi solo e unicamente della propria umanità. Non occorre affatto, anzi, non è desiderabile, che si spogli, per così dire, dell'intelligenza: perché la ragione fa parte della natura umana e la religione è una realtà che interpella l'essere umano in quanto tale, chiunque egli sia dal punto di vista sociale, filosofico, culturale, eccetera.
Diciamo che non dovrebbe appartenere alla forma mentis dello scienziato il rifiuto pregiudiziale a considerare una data cosa, anche se questa eccede i suoi strumenti concettuali e materiali d'indagine: se la curiositas lo spinge verso il reale, a trecentosessanta gradi, il correttivo della huumilitas dovrebbe farlo avvertito che non qualunque piano di realtà può essere esplorato con gli strumenti della scienza. E qui, per l’appunto, si vedrà se egli è uno scienziato o uno scientista: nel quale ultimo caso, scatterà, come un riflesso condizionato, il rifiuto verso codesta realtà "altra". Ciò che la scienza non può indagare ed, eventualmente, dimostrare, o non esiste, o non ha rilevanza: tale è il credo dello scientista. Ed è un dogma religioso, evidentemente: di quella religione laica che è la scienza, per lo scientista.
Perciò, concludendo, alla domanda se Gesù abbia camminato sulle acque oppure no, bisognerebbe replicare a Dawkins - se valesse la pena di discutere con una persona di tal genere - che la sua premessa è errata: perché camminare sulle acque non è un fatto scientifico, e neppure antiscientifico: è un fatto "altro" rispetto alla scienza; e le parole che egli adopera, le adopera in un senso troppo forte, cioè in un senso assoluto, come se soltanto le parole della scienza facessero testo: mentre le parole - tutte le parole, comprese quelle della scienza - hanno sempre un senso relativo. La parola assoluta, infatti, con un senso assoluto, non è una parola umana: è la Parola divina, il Verbo, che è Dio stesso.

Francesco Lamendola
La questione Dio è un problema scientifico?

di

Francesco Lamendola

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