ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 23 dicembre 2015

Il vero bene comune è l’ordine voluto da Dio

BENE COMUNE E ORDINE DIVINO

    Il vero bene comune è l’ordine voluto da Dio. In una società, come la nostra, pervasa dal modello edonista e consumista, il fine comune non esiste; o, se esiste, lo si può definire solamente in senso negativo                                                     di Francesco Lamendola  


 Oggi si fa un gran parlare del bene comune; e, quando si parla troppo di una cosa che, in apparenza, è molto semplice e perfino ovvia, significa o che quella cosa non è poi così semplice e ovvia, oppure che la si sta mistificando deliberatamente, per stravolgerne e, magari, addirittura capovolgerne il significato.

Questa considerazione non ha nulla a che fare con la “normale” differenza dei punti di vista su una determinata questione, come dicevano i latini: quot capita, tot sententiae (quante sono le teste, tanti saranno anche i giudizi). Perché concetti quali il bene comune sono incompatibili con il relativismo etico: il giudizio può variare sulle questioni di fatto, ma, se diverge e genera contrapposizioni insanabili a livello di principî, allora sorge un grosso problema di convivenza civile. Come si può convivere, infatti, se non si ammette neppure una base comune rispetto ai principî generali sui quali si regge e si fonda, appunto, il vivere in comunità?
Oggi, nel clima sempre più demagogico e superficiale della cultura relativista, che si traduce, sovente, in un vero e propriototalitarismo democratico (consistente nell’odio e nella negazione di tutti i principî, visti come intrinsecamente “autoritari”, “gerarchici” e, quindi, incompatibili con l’assetto democratico), si sottovaluta il problema o si finge addirittura di non vederlo; però esso esiste ed è enorme, insormontabile. Nessuna società può reggersi sul caos; e il relativismo assoluto dei principî e dei valori, compresi quelli fondanti della socialità, è nient’altro che la metodica, tenace, diabolica istituzionalizzazione del caos.
Bene comune, dunque: il bene generale, il bene di tutti. Ma come è possibile praticare, o anche solo concepire, il bene di tutti, se, nella cultura dei diritti a senso unico, ciascuno pretende soltanto di imporre il proprio bene, magari a danno dell’intera comunità? Inoltre, in una società edonista, materialista e consumista, il bene comune viene inteso, di necessità, in un senso puramente economico e utilitario: se proprio non equivale al Pil, poco ci manca. Vediamo di quante lavatrici, televisori, telefoni, automobili, e di quale conto in banca mediamente dispongono i membri di una certa comunità, e avremo una base concreta per costruire il concetto del bene comune, e constatare se vi siamo vicini, oppure ancora lontani. Ma è possibile che il bene comune sia soltanto la somma aritmetica del benessere di ciascun individuo?
San Tommaso d’Aquino, nella «Summa theologiae», sosteneva che il bene comune coincide con il fine comune: perché vi sia il bene di tutti, bisogna che tutti concorrano ad un medesimo fine. Ed eccoci di nuovo intrappolati nel circolo vizioso del relativismo: se non si dà, se non si ammette, un fine comune, come potrà darsi il perseguimento del bene comune? La verità, nondimeno, è che il fine comune è necessario: se lo si nega, vuol dire che lo si sta perseguendo surrettiziamente. Slealmente e ipocritamente, nel silenzio e nell’ombra. È il modello della democrazia totalitaria: dove sembra che viga la massima libertà individuale possibile, fino ai limiti del permissivismo e dell’anarchia; ma, in realtà, i cittadini sono imbrigliati entro un sistema invisibile di condizionamenti, dei quali non sono coscienti che in minima parte, e proprio questo li rende particolarmente vulnerabili e manipolabili, come mai era accaduto in passato, nemmeno nei regimi francamente e apertamente dispotici.
In una società pervasa dal sentimento religioso, come lo era quella medievale, il fine comune era Dio, ossia il conseguimento della salute eterna, al Suo cospetto. Tutto il resto, compresa la sfera dell’attività pratica e di quella politica, era funzionale a quest’unico, decisivo fine: al lavoro spettava procurare i mezzi per vivere, e, così, poter cercare la salute eterna; ai governanti incombeva l’obbligo di assicurare pace e giustizia sulla terra, per consentire all’anima di volare verso il fine superiore dell’esistenza: il ritorno a Dio.
In una società, come la nostra, pervasa dal modello edonista e consumista, il fine comune non esiste; o, se esiste, lo si può definire solamente in senso negativo. In pratica, si tratta del perseguimento del massimo utile e del massimo consumo per ciascuno, rimuovendo tutto ciò che lo potrebbe ostacolare o limitare: vale a dire, rimuovendo anche quei fini di pubblico bene che potrebbero frapporre delle limitazioni all’egoismo individuale. L’individualismo esasperato e il perseguimento cieco dei “diritti” di ciascuno si avvitano su se stessi: il bene comune non può esistere, perché, se esistesse, anteporrebbe la dimensione comunitaria a quella privata, e, pertanto, inevitabilmente, sacrificherebbe qualcosa dell’individualismo e dei “diritti”. Ma l’assioma della democrazia totalitaria, di matrice liberale e radicale, è che nulla e nessuno devono anteporsi al diritto e all’esercizio delle libertà individuali: il mio bene non può essere il tuo, non deve essere anche il tuo, perché non sarebbe più “mio”; figuriamoci se sarebbe possibile, addirittura, il bene di tutti contemporaneamente.
Ecco: il problema è proprio questo. In una prospettiva individualistica ed edonista, i diversi soggetti entrano continuamente in competizione e in uno stato di conflitto permanente; e quel che uno guadagna, è strappato agli altri: siamo in una prospettiva puramente quantitativa di ciò che è bene, perché non esiste la nozione della socialità, né quella della trascendenza. Solo introducendo queste due nozioni, quella della socialità e quella della trascendenza, si può superare il vicolo cieco dell’edonismo individualista: la socialità, per contemperare ed armonizzare i singoli soggetti, visti non più come monadi isolate ed egoiste, ma come parti armoniose di un tutto organico; la trascendenza, per stabilire un principio superiore ed un fine, anch’esso, superiore, nonché comune, al quale tutti possano e debbano ispirarsi e indirizzarsi. E questo principio superiore, evidentemente, non può essere che Dio.
Riportiamo, in proposito, un passaggio del bell’articolo di Stefano Fontana «Sopra la democrazia c’è Dio (sulla rivista mensile «Il Timone», Milano, Istituto di Apologetica, XVI, n. 137, novembre 2014, p. 41):

«Il principio della regalità sociale di Cristo è di fondamentale importanza per chiarire il fine della Dottrina sociale della Chiesa e dell’impegno cristiano nel mondo: il bene comune. Questa è oggi una espressione che viene intesa in vario modo, spesso equivoco. Spesso la si intende solo come il benessere materiale oppure come il buon funzionamento delle istituzioni a vantaggio di tutti secondo giustizia. Altre volte lo si intende come l’interesse collettivo: quando tutti stessero bene, avessero un lavoro, l’automobile, la sanità garantita, e così via ci sarebbe allora il bene comune. Spesso accade che anche i fedeli cattolici appiattiscano il concetto di bene comune, ad un livello solo orizzontale.
Il bene comune, invece, è sì un principio per l’ordinamento materiale della società, ma ancor di più per il suo ordinamento morale e religioso. Il bene comune ci sta senz’altro davanti, come un fine da raggiungere e non come qualcosa da inventare, ma ci sta anche dietro, come un ordine ricevuto in eredità e da rispettare, come l’ordine voluto da Dio. Non ci può essere bene comune senza rispetto dell’ordine naturale del creato e on ci può essere bene comune  senza considerare che l’uomo è fatto per Dio. Giovanni XXIII nella “Pacem in terris” diceva che “il bene comune va attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì da servire al raggiungimento del loro [degli uomini] fine ultraterreno ed eterno” 8n. 35). Del bene comune fanno quindi parte sia l’ordine ricevuto da Dio creatore sia il fine ultraterreno dell’uomo e la salvezza delle anime. Quello di bene comune è allora un concetto morale e religioso.  Dio è il principale bene comune e conoscere il Vangelo è il primo dei diritti umani.
Quando, per esempio, si sente dire che il riconoscimento delle unioni tra persone omosessuali può favorire il bene comune in quanto si valorizza una presa in cura reciproca e una relazione affettiva non si tiene conto del’aspetto morale e religioso del bene comune. Non può essere che una legge contraria alla legge morale naturale voluta da Dio creatore contribuisca al bene comune. Ecco quindi che la regalità di Cristo è parte integrante del concetto cattolico di bene comune.
Non c’è neutralità rispetto a Dio. Il credente sa, per ragione e per fede, che l’umanità con le sole sue forze non riesce a costruire la città dell’uomo. La secolarizzazione che esclude Dio dalla pubblica piazza produce malessere. Diceva Benedetto XVI ad Aparecida nel 2007: “Dove Dio è assente – Dio dal volto umano di Gesù Cristo – questi valori non si mostrano con tutta la loro forza, né si produce un consenso su di essi. Non voglio dire che i non credenti non possano vivere una moralità elevata ed esemplare; dico solo che una società nella quale Dio è assente non trova il consenso necessario sui valori morali e la forza per vivere secondo il modello di questi valori, anche contro i propri interessi”. La regalità di Cristo salva il mondo da se stesso e, così facendo, lo realizza.»

Questo, oggi, sembra un linguaggio troppo duro da ascoltare per i nostri orecchi delicati, perché sostituisce il concetto di “sovranità sociale” a quello di “sovranità popolare”, derivato da Rousseau e assurto ormai alla dignità di dogma intoccabile; anzi, parla addirittura di “regalità sociale”, suggerendo che la forma istituzionale monarchica è intrinsecamente migliore di quella repubblicana. Inoltre, come se ciò non bastasse, afferma che il soggetto fondante della regalità sociale non è l’uomo, ma Dio; e che l’uomo è solo un collaboratore, necessario, ma subordinato, del progetto divino, il cui fine è il bene dell’uomo stesso. Non solo: questa dottrina afferma, senza peli sulla lingua, che l’uomo non può salvarsi da solo, non può redimersi da solo: pertanto, che non può realizzare il suo paradiso qui, sulla Terra, con i suoi mezzi, con i suoi sforzi e con la sua intelligenza, ma che ha assoluto bisogno dell’aiuto del suo Creatore.
Il progetto divino riguardo all’uomo è orientato al bene di quest’ultimo, perché Dio solo è il Bene in se stesso, a differenza di qualunque altro soggetto, che potrà incarnare, al massimo, questo o quel bene particolare, quando pure non si ridurrà ad un male, più o meno goffamente truccato e camuffato da bene; e, infatti, è sufficiente scorrere velocemente le ideologie nefaste del XIX e XX secolo, per vede come esse, tutte, dalla prima all’ultima, hanno ingannato, tradito e deluso l’uomo, dopo averlo illuso di essere capaci di redimerlo e di metterlo in grado di costruire il suo bravo paradiso in Terra. Tutte, tranne una, non moderna, però, ma antica di duemila anni: il cristianesimo. Solo il cristianesimo non ha illuso l’uomo, perché non gli ha promesso, falsamente, di poter “correggere” la creazione e di poter “migliorare” la natura, facendosi il dio e quasi il ri-creatore di se stesso; e solo il cristianesimo non lo ha lasciato solo e abbandonato, in mezzo alle macerie delle sue speranze distrutte, ma gli è rimasto accanto, dopo il crollo delle sue fallaci aspettative, ricordandogli che il destino dell’uomo non è nell’uomo stesso, che esso non si realizza nella sua auto-referenzialità, ma nel ritorno e nel compimento in Dio.
Insomma: se non si giudica rettamene chi sia l’uomo, e quale sia il suo fine, non si potrà mai concepire una società giusta, né additare le vie per realizzare il bene comune. L’uomo è quella creatura che non si realizza in se stessa, ma in Dio: il bisogno di Dio le è connaturato, e, senza di esso, l’uomo non sarebbe che un assurdo moncone, miseramente mutilato, di quel che potrebbe e che dovrebbe essere. Solo in Dio il bene comune e il fine comune coincidono: pertanto, tutta l’organizzazione della vita umana, così quella individuale come quella sociale, deve rendere possibile lo sviluppo e la realizzazione delle potenzialità, insite nell’uomo, di poter diventare quella creatura che egli deve diventare: il che si attua solo nel ritorno a Dio. Con Dio, l’uomo è tutto e capace di tutto; senza Dio, l’uomo è niente, e non è capace di niente. All’uomo, pertanto, resta la scelta: se egli voglia essere tutto, oppure niente.
Questa è la grandezza dell’uomo: la sua libertà. L’uomo può scegliere. Può scegliere di restare un misero moncone mutilato, atrofizzato, sterile, oppure un grande e magnifico tralcio di vite, carico di grappoli succosi. Per poter dare molti frutti, deve restare unito alla vite: da solo, non sarebbe capace di produrre neppure un acino. Nessun’altra creatura dispone di una possibilità così immensa, sconvolgente; perché nessun’altra assomiglia così tanto al suo Creatore.
Fare buon uso della libertà, per l’uomo, significa volere ciò che vuole Dio, amare ciò che Dio ama: farsi tutt’uno con Dio. Questa fusione totale, questo compimento integrale, non appartiene, però, alla sfera terrena. A questa compete un altro fine: rendere accessibile a ognuno la strada del Bene...

Il vero bene comune è l’ordine voluto da Dio

di Francesco Lamendola


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