ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 2 gennaio 2016

Non concordano ?

Sull'immigrazione, tra Bergoglio e Mattarella c'è disaccordo pieno

mattarella
Nell'omelia della messa di Capodanno papa Francesco ha ancora una volta denunciato con parole accorate il "fiume in piena" delle migrazioni mondiali: "moltitudini di uomini, donne e bambini che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla persecuzione".
Anche il capo di Stato italiano Sergio Mattarella – cattolico professo e progressista – ha dedicato una larga parte del suo messaggio per l'anno nuovo alle "masse ingenti di persone" che "si spostano, anche da un continente all'altro, per sfuggire alle guerre o alla fame o, più semplicemente, alla ricerca di un futuro migliore".

All'Angelus del 1 gennaio Francesco ha ringraziato "di cuore" il presidente Mattarella.
Ma l'uno e l'altro di certo non concordano sul che fare di fronte alle migrazioni.
Per papa Jorge Mario Bergoglio tutto si risolve in una parola: "accoglienza". E nella conseguente riprovazione di tutti coloro, pubbliche istituzioni comprese, che non vi si conformano totalmente.
Mentre per il presidente Mattarella il fenomeno migratorio "si deve governare".
E governare fondamentalmente così:
"Occorrono regole comuni per distinguere chi fugge da guerre o persecuzioni e ha, quindi, diritto all'asilo, e altri migranti che vanno invece rimpatriati, sempre assicurando loro un trattamento dignitoso".
E ancora:
"Serve accoglienza, serve anche rigore. Chi è in Italia deve rispettare le leggi e la cultura del nostro paese… Quegli immigrati che, invece, commettono reati devono essere fermati e puniti, come del resto avviene per gli italiani che delinquono. Quelli che sono pericolosi vanno espulsi. Le comunità straniere in Italia sono chiamate a collaborare con le istituzioni contro i predicatori di odio e contro quelli che praticano violenza".
Nella visione di Francesco sembra svanire la distinzione tra Stato e Chiesa. La "tranquillitas ordinis" che è dovere dello Stato assicurare ai cittadini è assorbita e giudicata dalla sola "misericordia", propria della Chiesa.
Ne consegue, riguardo all'immigrazione, uno scontro tra "racconto" e "realtà". Come documenta nel testo che segue il maggior esperto italiano della materia, Natale Forlani, dal 2010 direttore generale dell'immigrazione presso il ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Assieme a Marco Biagi, l'insigne giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse, Forlani è stato anche autore nel 2001 del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia.
Nell'ottobre del 2011 fu tra i promotori, con un convegno a Todi, di un tentativo di rilancio della presenza cattolica sulla scena pubblica italiana. Operazione dalla quale però presto si ritrasse, avendola vista piegata "a un obiettivo partitico" e "a far candidare qualcuno", come in effetti avvenne.
La relazione che segue è uno sviluppo dell'intervento che Forlani ha tenuto lo scorso 7 novembre in un incontro su "Vecchio continente e nuovi arrivi", promosso a Norcia dalla Fondazione Magna Carta.
*
LE POLITICHE PER L'IMMIGRAZIONE TRA RACCONTO E REALTÀ
di Natale Forlani
"Stiamo vivendo un cambiamento epocale" e "Non dobbiamo far fronte ad una emergenza ma un fenomeno strutturale".
Queste sono le affermazioni che vanno per la maggiore nei dibattiti mediatici sul tema dell'immigrazionee, utilizzate in particolare per tacitare i politici, o i semplici cittadini, che si affannano nel denunciare gli impatti nefasti prodotti dalle politiche adottate per far fronte agli sbarchi di nuovi migranti nel Mediterraneo.
Tali affermazioni tendono a dare per scontate nel futuro due tendenze: l'aumento della mobilità delle persone per motivi legati a conflitti bellici e disastri climatici, e la necessità di adottare delle politiche di accoglienza dei migranti, nei paesi sviluppati, quale principale risposta a questi fenomeni.
Il fatto che stiamo vivendo dei cambiamenti epocali, e non solo nel campo delle migrazioni, credo sia difficilmente contestabile.
Ritengo invece contestabile l'approccio culturale che pervade soprattutto la sinistra italiana e una serie di mondi collaterali, che non esita a classificare come priva di cultura, razzista, xenofoba qualsiasi diversa opinione in materia di politiche per l'immigrazione.
I FLUSSI MIGRATORI TRA CONTINUITÀ E INNOVAZIONE
Rispetto alle dinamiche del secolo scorso i flussi migratori presentano caratteri di continuità e notevoli differenze.
Sono ancora i divari di reddito tra i paesi di origine e quelli di accoglienza a stimolare i flussi migratori per ragioni economiche. E parimenti le comunità nazionali dei migranti inserite nei territori che le accolgono, le cosiddette diaspore, continuano ad essere  un potente fattore di collegamento e di attrazione di nuovi migranti nei paesi sviluppati.
È bene ricordare che queste emigrazioni, qualificate nelle analisi specializzate con la definizione Sud-Nord per distinguerle dalle migrazioni Nord-Nord che avvengono tra i paesi sviluppati e da quelle Sud-Sud tra i paesi sottosviluppati, in generale non coinvolgono affatto i paesi più poveri e, all'interno di quelli in via di sviluppo, le persone che emigrano continuano a provenire in grande prevalenza dai ceti affluenti e relativamente più istruiti.
Ogni progetto migratorio, infatti; rappresenta per le persone e per le loro famiglie una sorta di investimento sul futuro che mobilita risparmi non inferiori ai 5-6 mila euro.
Ma i flussi migratori degli anni 2000 manifestano anche forti differenze rispetto al passato. I processi di globalizzazione della finanza, degli investimenti produttivi e dei modelli di consumo hanno generato anche una forte accelerazione della mobilità delle persone.
Si sta incrementando un mercato del lavoro internazionale, caratterizzato da migranti che tendono a ritornare nel breve e medio periodo nel loro paese di origine, e alimentato da manager, quadri aziendali, organizzatori delle produzioni e delle vendite, specialisti e tecnocrati, persone desiderose di fare esperienze formative e lavorative di buona qualità, che si aggiungono alle tradizionali categorie di persone che già svolgevano la loro professione in ambito sovranazionale (personale di volo e di mare, professori, artisti, atleti, diplomatici , giornalisti , militari...) .
In questo ambito si stanno formando le nuove classi dirigenti e i cosiddetti ceti esperti, non necessariamente appartenenti solo alle medie ed alte qualifiche, che consentono ad ogni comunità nazionale di stare al passo con le esigenze di innovazione e di competizione dei sistemi produttivi e dei territori.
La formazione di questo mercato del lavoro sta confondendo le acque dei flussi migratori.
Cina e India ad esempio, sono diventate  grandi economie in espansione, grandi investitori internazionali, e continuano a rimanere popoli di emigranti.
In buona sostanza, tutti i paesi sviluppati e in via di sviluppo si stanno ponendo il problema di come partecipare alla formazione di questo mercato, come occasione di formazione per i propri giovani e per attrarre risorse umane qualificate nel proprio sistema produttivo.
Il rapporto OCSE sulle migrazioni 2014 stima che queste tipologie di migranti, qualificate nell'ambito dei flussi definiti come Nord-Nord, rappresentino la quota di maggioranza relativa sul totale dei flussi migratori per motivi di lavoro, con un contributo decisivo derivante dagli effetti della libera circolazione per motivi di lavoro nell'ambito della Unione europea.
Un altro fenomeno in accelerazione, assai più noto, riguarda le persone in fuga dalle aree coinvolte nei conflitti bellici o investite da grandi tragedie ambientali, che l'ONU stima in 46 aree con un movimento di oltre 30 milioni di persone nell'anno 2014.
Personalmente ritengo fuori luogo definire questa tendenza come "strutturale", perché sono altamente imponderabili i fattori che alimentano il flusso dei profughi.
E soprattutto perché altrettanto potenti sono i fattori in moto che tendono a contenere i fenomeni, a partire dal forte ridimensionamento della popolazione in condizioni di povertà assoluta che è avvenuto vegli ultimi 20 anni.
L'incremento dei flussi migratori è inoltre influenzato dalle rivoluzioni tecnologiche nell'ambito delle comunicazioni e dei trasporti. Lo scambio di 'informazioni in tempo reale tra i nuovi migranti e le reti degli immigrati già inseriti nei paesi di accoglienza contribuisce ad accelerare i movimenti delle persone e l'adattamento dei flussi alle mutate condizioni dell'economia e delle politiche di accoglienza.
In tal senso un esempio eclatante è rappresentato dai cambiamenti repentini che si sono verificati negli ultimi quattro anni nell'organizzazione delle tratte di esseri umani nel Mediterraneo e nei Balcani e nei paesi di origine dei migranti coinvolti.
GLI EFFETTI DELL'INDEBOLIMENTO DEL RUOLO DEGLI STATI NAZIONALI
La dissoluzione degli Stati nazionali in molte aree del globo, e la riappropriazione del territorio da parte di organizzazioni tribali, comprese quelle che legittimano la loro azione alla ispirazione religiosa e che tendono a consolidare relazioni anche in ambito sovranazionale, ha aumentato la pericolosità dei nuovi flussi e ha reso inefficaci buona parte degli accordi bilaterali che i paesi europei avevano sottoscritto con quelli di origine dei migranti conla finalità di contrastare le migrazioni illegali.
All'indebolimento dell'efficacia delle iniziative degli Stati nazionali, come noto, non è corrisposta l'affermazione di nuove sedi di arbitraggio e di mediazione in ambito internazionale.
Le speranze riposte in tal senso sul rafforzamento della politica estera europea sono andate rapidamente deluse anche per effetto delle scomposte iniziative che alcuni paesi membri hanno promosso in Libia, Siria, Ucraina.
Date le premesse, è illusorio pensare che diventi possibile costruire un'azione autorevole delle istituzioni europee in grado di fronteggiare l'attuale flusso di migranti basata sulla redistribuzione di quote di quote di rifugiati negli Stati membri.
Il conseguimento di questo obiettivo sembra difficile per tre ragioni fondamentali.
La prima:
Non è pensabile che le carenze di interventi attivi e coordinati in tema di politica estera, di coordinamento degli interventi militari, di contrasto delle tratte di esseri umani e di gestione dei campi profughi nei paesi coinvolti nei conflitti bellici possa essere supplita, per via del numero abnorme delle persone costrette ad emigrare, dalle politiche di accoglienza dei profughi nei territori europei.
La seconda:
Le istituzioni europee intermediano e distribuiscono quote marginali di risorse da destinare alla sicurezza e alla coesione sociale interna agli Stati aderenti. In queste condizioni ogni richiesta di intervento della UE in tema di redistribuzione dei profughi si traduce in un aumento delle prescrizioni e degli obblighi per gli stati membri che vengono chiamati a farsi carico dei costi dell'accoglienza senza un adeguato sostegno della UE, e con effetti che sono diversificati per ogni paese di accoglienza date le diverse condizioni economiche e occupazionali che li caratterizzano.
La terza :
Per le criticità appena esposte diventa assai improbabile una riforma dell'intesa di Dublino 3 in materia di regolazione e gestione dei profughi e richiedenti asilo. Nessun paese membro, compresi quelli che si dichiarano possibilisti, è disponibile a delegare a livello sovranazionale il diritto di stabilire l'ingresso di nuovi potenziali cittadini nel proprio territorio e di alterare gli equilibri del patto di coesione interno ad ogni comunità nazionale.
In pratica questa riforma interroga la validità dello stesso atto costitutivo della UE ed è pertanto praticabile solo assumendo un alto profilo di intervento, nella consapevolezza che le lacune esistenti rischiano persino di compromettere la tenuta delle attuali conquiste, a partire da quelle legate alla libera circolazione nell'ambito dei paesi aderenti.
In assenza di queste condizioni, che potrebbero però verificarsi sulla spinta di fattori esterni, appare ragionevole privilegiare un approccio pragmatico e meno liquidatorio delle posizioni assunte dai singoli paesi in tema di accoglienza dei profughi, costruendo soluzioni che siano in grado di sostenere, anche economicamente, gli oneri che le comunità più esposte ai flussi sono chiamate a sostenere.
LE POLITICHE DELL'IMMIGRAZIONE IN ITALIA TRA RACCONTO E REALTÀ
La popolazione di origine straniera in Italia ha superato la soglia dei 5 milioni di persone, oltre l'8 per cento sul totale della popolazione residente.
Le modalità di crescita della popolazione fanno della nostra nazione un caso originale nel panorama internazionale dei grandi paesi di accoglienza.
L'originalità del caso Italiano è dovuta ad alcune caratteristiche.
L'incremento è stato assai più rapido, in pratica nell'ultimo ventennio, rispetto ai cicli di accoglienza avvenuti negli altri grandi paesi europei.
Il fenomeno è ancora più impressionante se si considera che tale incremento è avvenuto soprattutto nella prima decade degli anni 2000. Periodo che ha registrato la quadruplicazione della popolazione straniera residente in Italia.
Diversamente dagli altri grandi paesi di accoglienza, Francia, Gran Bretagna, Germania in primis, caratterizzati principalmente da flussi provenienti dalle ex colonie e/o da una forte componente di migranti provenienti da altri paesi europei, la composizione della nostra popolazione straniera è articolata su un numero elevatissimo di nazioni d'origine, estremamente diversificate per caratteristiche di lingua, cultura e credo religioso. Fattori che hanno reso, e continuano a rendere, molto più complessi i percorsi di integrazione, solo in parte rimediati dalla distribuzione territoriale degli stessi, più diffusa date le caratteristiche dei nostri comuni.
La crescita di questa popolazione, almeno sino al 2010, è dovuta essenzialmente alla necessità di soddisfare la domanda di lavoro a bassa qualificazione.
L'ingresso dei migranti per motivi di lavoro è avvenuto con l'adozione di norme e di procedure amministrative (le quote attribuite con il cosiddetto "click day" annuale) distanti dalle concrete esigenze delle imprese e in assenza di una adeguata rete di orientamento e di intermediazione della domanda e offerta di lavoro. Fattore che, in generale, caratterizza in negativo le politiche attive in Italia.
In buona sostanza queste procedure hanno operato come una sorta di regolarizzazione a posteriori dei migranti coinvolti, attraverso il rilascio postumo dei permessi di soggiorno per i rapporti di lavoro già attivati informalmente e illegalmente dai datori di lavoro.
Giova ricordare che nel corso degli anni 2000 il legislatore ha disposto anche tre importanti sanatorie volte, nelle intenzioni, a regolarizzare le presenze illegali e che hanno riguardato oltre 1,7 milioni di miranti, ma che con ogni probabilità hanno costituito anche un forte elemento di attrazione di nuovi migranti.
Questa consuetudine ha generato alcune anomalie che ancora caratterizzano la gestione dei flussi migratori in Italia: l'eccesso di tolleranza riguardo al mancato rispetto delle regole, la scarsa sensibilità nel gestire le diverse tipologie di ingresso (ad esempio, che senso ha distinguere tra le ragioni d'ingresso per motivi economici e quelle per asilo politico se in ogni caso il migrante viene successivamente regolarizzato?), la generazione di un mercato  parallelo alle iniziative della pubblica amministrazione, rivolto a gestire un traffico illegale dei permessi di soggiorno simulando l'organizzazione di rapporti di lavoro fasulli.
Questo mercato vede protagonisti trafficanti dei paesi di origine, commercialisti, avvocati, patronati, funzionari collusi, organizzazioni umanitarie, gestori dell'accoglienza di profughi e minori stranieri che per ragioni diverse concorrono a costituire un vero e proprio esercito dei professionisti dell'accoglienza, puntualmente sostenuto da politici e giornalisti, che influenza in modo decisivo e scelte politiche in materia di immigrazione. Organizzazioni che, non di rado, hanno usufruito anche di contributi pubblici per sostenere la loro attività.
Negli anni 2000 la crescita dell'occupazione straniera è stata superiore alle esigenze fisiologiche del mercato del lavoro, se calcolate come divario tra l'uscita dei lavoratori anziani per motivi di pensionamento rispetto al numero dei giovani che potenzialmente entravano nel mercato del lavoro dopo i percorsi scolastici.
Nel concreto la crescente domanda di lavoro che si è rivolta agli immigrati ha cercato di supplire al mutamento delle aspettative delle giovani generazioni verso il lavoro manuale, che si è consolidato nel tempo anche per l'effetto del deprezzamento dei salari legato alla comprensibile maggiore disponibilità dei migranti nell'accettare retribuzioni e condizioni lavorative inferiori a quelle contrattualmente definite.
È bene sottolineare che queste caratteristiche continuano a influenzare in modo decisivo le dinamiche del nostro mercato del lavoro.
In generale gli immigrati rappresentano circa il 12 per cento della popolazione attiva, ma ben il 20 per cento dei nuovi rapporti di lavoro attivati annualmente, oltre il 30 per cento del lavoro manuale, con punte elevatissime in agricoltura, in edilizia e nelle aree del Centronord italiano, ed oltre l'80 per cento del lavoro domestico.
Nel corso degli anni della crisi economica 2009-2014 è impressionante il divario che si è verificato tra l'andamento degli occupati autoctoni (diminuiti di circa 1,8 milioni di unità, quasi tutte concentrate nella fascia sotto i 30 anni) e la crescita degli occupati stranieri (più di 800 mila unità).
In tal senso , il caso italiano è unico nella comparazione con le analoghe tendenze dei grandi paesi di accoglienza UE, laddove il calo, o la crescita, degli occupati stranieri coincide con quella dei lavoratori autoctoni.
Un'altra originalità è rappresentata dalla concomitante crescita del numero degli occupati, di quello dei disoccupati e delle persone inattive nell'ambito della popolazione straniera.
Tale coincidenza è dovuta soprattutto alla forte crescita della popolazione residente legata ai ricongiungimenti familiari, all'aumento dei disoccupati maschi nei settori in crisi (ed alla crescita in parallelo dell'occupazione straniera femminile nel lavoro domestico), all'effetto della libera circolazione interna alla UE che di fatto ha generato un mercato del lavoro di riserva che si attiva flessibilmente a fronte di una domanda, anche temporanea, di nuovo lavoro.
Questi cambiamenti hanno comportato anche costi rilevanti per la popolazione straniera in termini di accorciamento della durata dei nuovi rapporti di lavoro e di un calo del reddito medio pro capite, che è diminuito del 20 per cento nell'ultimo triennio.
Giova evidenziare che gli effetti della crisi sono stati estremamente differenziati sulle varie comunità di origine: la diminuzione del tasso di occupazione e l'aumento delle persone inattive è stato superiore per gli extra comunitari rispetto ai neo comunitari.
Quello della disoccupazione riflette le caratteristiche delle specializzazioni professionali settoriali delle singole comunità di origine e più marcatamente sono penalizzate le componenti nazionali che, per ragioni culturali o religiose, non registrano una significativa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, in particolare quelle di religione musulmana.
Nel breve e medio periodo, almeno fino al 2020, nel mercato del lavoro italiano si registrerà una abbondanza di offerta di lavoro a bassa qualificazione (attualmente circa 6 milioni di persone tra disoccupati ufficiali e persone che si dichiarano disponibili ad attivare una ricerca di lavoro se ce ne sono le condizioni, tra le quali circa 500 mila immigrati) a fronte di una prevedibile stagnazione della domanda di lavoro destinata a queste mansioni.
In queste condizioni è prevedibile nel mercato del lavoro un aumento dei livelli di concorrenza interna ai lavoratori migranti e tra questi con i lavoratori/disoccupati autoctoni. Ed è altrettanto probabile che queste tensioni aumentino anche in relazione alle prestazioni del welfare destinate a sostenere il reddito dei ceti meno abbienti.
L'Italia si conferma invece un paese assai debole nell'attrarre risorse qualificate e nel favorire la partecipazione dei nostri giovani alla formazione del mercato del lavoro internazionale per le alte qualifiche, che abbiamo descritto in precedenza.
In questa direzione si sono invece mossi da tempo i principali paesi europei, rendendo più selettive, e mirate alle persone altamente qualificate, le quote di ingresso dei migranti nel loro territorio ed attrezzando le università e le imprese a favorire le esperienze dei loro giovani formati in ambito internazionale.
Per l'insieme delle ragioni esposte, è facile comprendere perché l'Italia venga percepita in Europa come il "ventre molle" delle politiche per l'immigrazione: tollerante verso i comportamenti illegali, approssimativo nella gestione amministrativa delle varie tipologie dei flussi d'ingresso, attrattivo solo per i lavori di bassa qualificazione e poco remunerati.
Questi limiti sono quanto mai evidenti anche nella gestione della emergenza degli sbarchi di migranti nel Mediterraneo degli anni recenti.
Sin dal 2013 era apparso evidente che le tratte provenienti dalla Libia erano fortemente caratterizzate da flussi di migranti per ragioni economiche provenienti da territori del Centrafrica, e in parte dell'Asia, gestiti da trafficanti collusi con le bande tribali che presidiano il territorio libico e che si autofinanziano anche con questi mezzi.
Anziché intervenire con l'adozione di approcci selettivi nelle politiche di accoglienza e di contrasto, a partire da una corretta identificazione dei migranti e da una rapida definizione dei requisiti di protezione internazionale, si è adottata una politica di accoglienza dissennata, diventata una sorta di assicurazione di fatto per i trafficanti di esseri umani, che hanno rapidamente incrementato il numero degli imbarchi su mezzi sempre più precari e abbandonati a pochi chilometri dalle coste della Libia.
Con l'operazione "Mare nostrum" sono aumentati i salvataggi di vite umane quanto i morti annegati, in una percentuale dei secondi sui primi che è rimasta inalterata rispetto agli sbarchi accaduti prima e dopo l'operazione richiamata.
Nel 2014 sono sbarcati oltre 170 mila migranti, ma solo un terzo di questi sono rimasti nei centri di accoglienza in Italia. Gli altri, non identificati, sono rifluiti prevalentemente verso altri paesi europei, laddove hanno fatto domanda di protezione internazionale.
Un'operazione furbesca, accompagnata da appelli e reprimende delle nostre autorità nei confronti delle istituzioni europee e degli altri Stati membri accusati di cecità, egoismo e quant'altro, mentre nel contempo molti di esse registravano un numero di richiedenti asilo superiore a quello registrato in Italia.
Dopo oltre due anni dalla ripresa degli sbarchi non è stato adottato, e nemmeno proposto, un provvedimento normativo per accelerare i tempi per il riconoscimento del requisito di asilo, che altri paesi rilasciano in meno di 6 mesi, gestione dei ricorsi compresa, rispetto ai 14 mesi per il primo pronunciamento delle nostre commissioni esaminatrici.
Di tutta questa vicenda nel nostro paese si è fatto un racconto molto diverso dalla realtà. Ancora oggi, nonostante il piano europeo per la distribuzione dei profughi imponga come condizione preventiva l'accertamento del requisito di protezione internazionale ai fini del trasferimento, poco è stato fatto per risolvere il problema .
Proiettando statisticamente la percentuale dei mancati riconoscimenti del requisito di protezione internazionale sulle pratiche già esaminate dalle commissioni, sul totale di quelle presentate, possiamo stimare in oltre 50 mila il numero dei migranti che vedranno respinta la loro domanda di asilo, e che il nostro paese dovrà interrogarsi come gestire.
CONCLUSIONI
L'armamentario culturale e normativo che ha accompagnato la crescita della popolazione straniera residente in Italia è diventato progressivamente obsoleto e inadeguato nel gestire i nuovi flussi di immigrazione, che devono fare i conti con le problematiche ancora aperte della integrazione delle comunità di origine residenti, con gli effetti della libera circolazione dei cittadini neo comunitari, con la crescita delle ricongiunzioni familiari e, più complessivamente, con i problemi di sostenibilità e di permanenza nel territorio nazionale di centinaia di migliaia di lavoratori stranieri con le loro famiglie.
Le contraddizioni che hanno distinto il nostro modello di accoglienza e di integrazione, e che sono state attenuate dalla domanda di lavoro interna rivolta agli stranieri che è stata sino al 2010 superiore all'offerta disponibile nel territorio nazionale, rischiano di diventare esplosive nella attuale situazione del mercato del lavoro, e di destabilizzare anche i risultati raggiunti nel recente passato nei processi di integrazione.
Le nuove politiche per l'immigrazione devono soprattutto rispondere all'esigenza di gestire in modo selettivo i flussi di ingresso dei nuovi migranti: per caratteristiche culturali, professionali, di requisiti di protezione, di interscambio per motivi di studio, adottano le modalità e le tecniche già utilizzate in molti paesi sviluppati.
Queste politiche richiedono una migliore percezione dei nostri interessi in ambito economico e sociale, e una chiara definizione delle compatibilità valoriali e comportamentali che devono accompagnare le politiche per l'integrazione dei migranti.
Contrariamente alla vulgata corrente, ritengo che la condizione primaria di una buona politica per l'integrazione non sia fondata sulla tolleranza, bensì su una condivisa accettazione di tutto ciò che la nostra comunità non ritiene culturalmente tollerabile, soprattutto in tema di rapporti tra religione e Stato, tra genitori e figli, tra uomo e donna. Con tutto quello che ne consegue in materia di rispetto delle regole comuni, di percorsi educativi e di comportamenti fattivi.
È un approccio culturale difficile da accettare. Esso rifugge dagli stereotipi e dal "politicamente corretto" che caratterizzano ancora buona parte del nostro dibattito politico in materia di immigrazione. Non riguarda solamente l'ambito dei nostri rapporti con i cittadini stranieri ma interroga la nostra capacità di definire i fondamenti stessi della nostra identità nazionale.
In assenza di tutto ciò, diventa persino impossibile definire l'ambito di convivenza tra persone culturalmente diverse, l'accettazione e la tolleranza per gli stili di vita che non ci appartengono, e soprattutto la rigenerazione di quel nucleo di principi e di valori condivisi che rappresentano per ogni comunità la condizione indispensabile per proiettarsi nel futuro.

Settimo Cielo di Sandro Magister 02 gen

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