ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 11 febbraio 2016

La grande sfida del nostro tempo

PELLEGRINAGGIO VERSO L'ETERNO

La città terrena è solo un momento del nostro pellegrinaggio verso l’eterno. Per il cristiano i miracoli non sono affatto casuali sono l’effetto della fede della preghiera rivolta a Dio: bussate e vi sarà aperto chiedete e vi sarà dato 
di F.Lamendola  



Nella concezione cristiana, la vita terrena è un pellegrinaggio verso l’eternità. Questo, in teoria, lo sanno tutti i cristiani; in pratica – e qui si vede se, e fino a che punto, essi hanno introiettato realmente lo spirito del Vangelo, e fino a che punto, invece, si sono lasciati silenziosamente irretire e confondere dallo spirito del mondo – succede che facilmente questa natura pellegrinante della vita terrena venga dimenticata, o messa fra parentesi, per concentrarsi quasi esclusivamente sui bisogni, anche legittimi, per carità, della vita terrena, nonché per impegnarsi nello sforzo di edificare una società migliore e più giusta.

Ora, il cristiano non dovrebbe dimenticare mai che una società “migliore”, per lui, non è, né può essere, una società in cui vi siano una buona amministrazione della cosa pubblica, un alto grado di sicurezza e di benessere economico, una ottima assistenza pensionistica e sanitaria, un efficiente sistema scolastico, un fiorente mercato del lavoro e una collaudata stabilità monetaria; tutte queste cose, e molte altre ancora, sono, indubbiamente, positive in se stesse, ma né da ciascuna di loro, né dalla loro somma totale, risulta ciò che è essenzialmente bene nella prospettiva cristiana: vale a dire una società che sia orientata verso il trascendente e che favorisca l’autentico compimento della natura umana: l’incontro con il divino.
Tale incontro non si può realizzare, evidentemente, anzi, viene gravemente ostacolato, dalla tendenza  scambiare per dei fini quelli che possono essere considerati, tutt’al più, come dei semplici mezzi per realizzare il fine trascendente della vita umana; per cui non solo la rincorsa ai beni e ai piaceri finiti, materiali, ma anche, e a maggior ragione, i compromessi e i cedimenti etici in vista di un accresciuto benessere, materialisticamente ed egoisticamente inteso, come la pratica dell’aborto o dell’eutanasia, e la loro legalizzazione, vanno esattamente nella dimensione opposta e devono essere considerati come dei mali, in quanto, oltre a sfidare l’assoluta signoria divina sulla vita umana, non favoriscono la crescita e la realizzazione del fine ultimo dell’esistenza, bensì intrappolano l’uomo in un circolo vizioso d’illusioni e attaccamenti alla propria parte caduca, e, per contro, di oblio della propria parte essenziale.
Tutto questo, lo ripetiamo, sembrerebbe molto chiaro e perfino evidente; e la Chiesa, in effetti, per quasi duemila anni ha saputo tener fermo a tale impostazione fondamentale del rapporto fra la vita terrena e la vita eterna, fra la dimensione naturale e quella soprannaturale; e anche, di conseguenza, fra il singolo individuo e la società in cui vive, con i suoi legittimi bisogni e la sua umana aspirazione alla felicità. C’è forse qualcosa di male nel voler essere uomo fra gli altri uomini, e nel tendere verso la felicità? Nulla, assolutamente;  a meno che ciò, in pratica, corrisponda ad un allontanamento da Dio e da ciò che è essenziale alla vita cristiana: la perfetta gioia in Dio e, quindi, l’attesa della felicità futura, nella dimensione della pienezza soprannaturale. Nella dimensione del finito, nessuna pienezza è possibile; nessun felicità è veramente piena e appagante: resta sempre qualche cosa di amaro, di imperfetto, di deludente; e sempre resteranno la povertà, l’ignoranza (anche in senso morale), la tendenza a prevaricare il prossimo. Queste cose fanno parte della natura umana dopo la ferita del Peccato originale, e nessun ordine sociale, politico o economico, per quanto ben concepito e ben realizzato, le potrà mai eliminare. Pensare diversamente, significa tradire il Vangelo: immaginare, cioè, che l’uomo possa redimersi da sé; che possa trasformarsi un una creatura angelica, la quale non erra, e sa evitare il male e il peccato, perché possiede sufficiente bontà e saggezza per riconoscerli e fuggirli; insomma, equivale a rendere del tutto superflua l’Incarnazione di Cristo e la stessa esistenza di un Dio amorevole e provvidenziale.
C’è, in proposito, una pagina illuminante di Jacques Maritain - il quale, a sua volta, si è largamente ispirato al pensiero di San Tommaso d’Aquino  che fa parte del ciclo di sei lezioni da lui tenute, nel 1936, presso l’Università spagnola di Santander (da: J. Maritain, «Umanesimo integrale»; titolo originale: «Humanisme integral, 1936; traduzione dal francese di Giampietro Dore, Roma, Editrice Studium, 1946, pp. 110-112):

«Ogni persona singola, ci dice S. Tommaso, ogni persona umana stessa è verso la comunità come la parte verso il tutto e dunque a questo titolo è subordinata al tutto: “quaelibet persona singularis comparatur ed totam communitatem sicut pars ad totum” (Sum. Theol., II-II, 64, 2).
Ed è così perché l’uomo non è una pura persona, una persona divina ed è al più basso grado di personalità come di intellettualità. L’uomo non è solo persona, cioè sussistente spiritualmente,  è anche individuo, frammento individuato d’una specie. E perciò è membro della società a titolo di parte di questa, e ha bisogno delle costrizioni della vita sociale per essere condotto  alla sua stessa vita di persona  e sostenuto in questa vita.
Ma ecco S. Tommaso mettere subito le cose a punto, e completare indispensabilmente il primo testo: l’uomo, afferma, ha in lui una vita e beni che oltrepassano l’ordinazione della società politica: “homo non ordinatur  ad communitatem politicam  secundum se totum et secundum omnia sua (Ibid., I-II, 21, 4 ad 3). ). E perché? Perché è una persona.
La persona umana membro della società è parte di questa come di un tutto più grande, ma on secondo tutta se stessa e secondo tutto ciò che le appartiene! Il centro della sua vita di persona l’attira al di sopra della città temporale, di cui questa vita ha tuttavia bisogno.
Appare così l’antinomia che crea lo stato di tensione proprio alla vita temporale dell’essere umano: c’è un’opera comune da compiere da parte del tutto sociale come tale, da quel tutto di cui  le persone umane sono parti, e così le persone sono subordinate a quest’opera comune. E tuttavia ciò che c’è di più profondo nella persona, la sua vocazione eterna, con i beni connessi a tale vocazione, è sovraordinato a quest’opera comune e la finalizza. […]
L’orientamento che attira la città terrena al di sopra d’essa stessa e le ritira il carattere di fine ultimo, che ne fa un momento, il momento terreno, nel nostro destino, ma non il termine, deve in effetti esser segnalato come un altro  essenziale: questa città è una società non di genti istallate in dimore definitive, ma di genti in cammino. È in questo ciò che si potrebbe chiamare una condizione “pellegrinale” della città. Il bisogno paradossale di un essere attirato dal nulla a passare al sovrumano, fa sì che non ci sia per l’uomo alcun equilibrio statico, ma solo un equilibrio di tensione e di movimento; e che la vita politica, che deve tender a innalzare più alto che possibile, relativamente alle condizioni date, il livello di esistenza della moltitudine, deve tendere anche a un certo eroismo e chiedere molto all’uomo per donargli molto. Ne segue che la condizione di vita dei membri della città temporale  non dovrebbe essere confusa né con una beatitudine quaggiù, né con una felicità di distensione e di riposo. Ma non ne segue certo che la civiltà temporale sia solo un puro mezzo  nei riguardi della vita eterna e non abbia in sé la dignità di fine (infravalente); né che,  col pretesto che la vita presente è una valle di lacrime, il cristiano debba rassegnarsi alla ingiustizia o alla condizione servile  e alla miseria dei suoi fratelli. Il cristiano, a dire il vero, non è mai RASSEGNATO. La sua concezione della città aspira da sé a una disposizione della valle di lacrime che procuri una felicità terrena, relativa ma reale, della moltitudine riunita: una struttura buona, e tale da poter essere vissuta,  dell’esistenza del tutto, uno stato di giustizia, d’amicizia e di prosperità, che renda possibile a ogni persona il compimento del suo destino; richiede che la città terrena sia disposta in tal modo da riconoscere effettivamente il diritto dei suoi membri all’esistenza, al lavoro, all’accrescersi della loro vita di persona. E la condanna portata dal cristiano contro la civiltà moderna è più grave, a dire il vero, e più motivata della condanna socialista o comunista, perché non è solo la felicità terrena della comunità, sono anche la vita dell’anima, il destino spirituale  della persona a essere minacciati da questa civiltà. […]
Questa concezione della città terrena era quella della cristianità medioevale.
Ma la cristianità medioevale non è stata che una elle sue possibili realizzazioni.
In altri termini, non è in maniera UNIVOCA che tale concezione può realizzarsi nelle diverse età del mondo; è in manieraANALOGICA. Vediamo qui l’importanza primordiale dell’idea di analogia per una sana della cultura. E noi dobbiamo qui ispirarci al principio di analogia, che domina tutta la metafisica tomistica e secondo il quale le idee più alte si realizzano nell’esistenza in modo essenzialmente diverso, pur conservando intatta la formalità loro propria…»

E questa, appunto, è la grande sfida del nostro tempo: trovare la maniera di incarnare l’ideale cristiano della città terrena, nella realtà presente, senza inutili nostalgie verso ciò che è irrevocabilmente passato, ma anche senza sottili cedimenti allo spirito del mondo e alle seduzioni della modernità, che è lo spirito dell’orgoglio e della umana presunzione. L’uomo moderno, gonfio di se stesso, si domanda perché mai non potrebbe realizzare quel determinato obiettivo, e cosa gli impedisca di stabilire una società giusta, pacifica, armoniosa, con le sue sole forze. Anche i cristiani cadono sovente nel trabocchetto: pur senza negare la necessità dell’aiuto divino, in pratica essi sentono, pensano, parlano e agiscono come se Dio non ci fosse e come se l’uomo non avesse realmente bisogno di Lui, ma potesse fare per il meglio qualsiasi cosa, grazie alla sua razionalità e ai portenti della tecnologia e della scienza.
Vi è una tentazione diabolica, in questo, la quale si insinua subdolamente proprio nelle anime più generose, negli spiriti più intraprendenti: la tentazione di potere e di volere realizzare il paradiso in terra, e di confondere il Regno di Dio con il mondo terreno. Ma Gesù, nel suo ultimo colloquio terreno con un essere umano, prima di morire sulla croce, cioè nel colloquio con Ponzio Pilato, governatore romano, disse chiaramente che il suo regno non è di questo mondo. Bisogna fare molta attenzione, pertanto, perché il confine è sottilissimo e ambiguo: desiderare un mondo più giusto, dove milioni di persone non soffrano più la fame, dove le guerre non imperversino più e dove la creazione sia rispettata ed amata in se stessa, e non scelleratamente sfruttata e inquinata, tutto questo è molto bello e molto giusto: guai se non fossimo sorretti da una fede verso ciò che è bene, da una speranza di raddrizzare, per quanto possibile, le cose ingiuste e sbagliate che affliggono la vita sociale, sia nel nostro ambito più prossimo, sia a livello planetario. Ma il pericolo di cadere nella trappola del Diavolo, e di scordarsi che il Regno di Dio non è di questo mondo, esiste, ed è sempre in agguato. Il giusto atteggiamento del cristiano, quindi, dovrebbe essere quello di lottare per un mondo migliore, ma senza aspettarsi di poterlo vedere mai pienamente realizzato nella sfera dell’immanenza, perché questo è contrario all’insegnamento di Gesù Cristo.
Non solo: bisogna anche ricordarsi sempre che esistono varie maniere per amare Dio e il prossimo, e quindi per lavorare per il Regno di Dio; quella dell’impegno sociale è una, ma non è certamente l’unica. Il monaco o la monaca di clausura, i quali, chiusi nelle loro celle, pregano incessantemente, con ardore e totale oblio di sé, per allontanare dal mondo i mali che lo affliggono, e per domandare a Dio il soccorso della sua grazia, svolgono un ruolo che non è d’importanza secondaria rispetto a nessun altro: anzi, vorremmo dire che occupa il primo posto. Perché, come ha detto sempre Gesù Cristo, bisogna pregare sempre, senza stanarsi mai: pregando si ottiene qualunque cosa, non già affannandosi continuamente nell’impegno materiale, come faceva Marta, la quale, oltretutto, si lamentava perché la sorella Maria non le prestava sufficiente aiuto nelle faccende quotidiane. Bisogna avere le idee ben chiare a questo proposito: il cristiano non si riconosce tanto dal suo impegno politico, sociale, sindacale, economico, a favore del prossimo, ma dalla forza della sua fede: una forza che, come gli è stato insegnato, può smuovere le montagne.
I grandi santi facevano, e fanno, così: si rivolgevano sempre a Dio. Don Giovanni Bosco, in certi giorni, non aveva letteralmente nulla da dar da mangiare ai suoi ragazzi: tuttavia, quando li faceva radunare per distribuire loro il pane quotidiano, quel pane non veniva mai a mancare; oppure giungeva inattesa, all’ultima ora, una generosa offerta da parte di qualche persona buona. Per il cristiano, tali “miracoli” non sono affatto casuali: sono l’effetto della fede, della preghiera rivolta a Dio. Perché sta scritto:  «Bussate e vi sarà aperto; chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete»…



La città terrena è solo un momento del nostro pellegrinaggio verso l’eterno

di Francesco Lamendola


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