ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 15 marzo 2016

C’è molto che ci sfugge..

LIMITAZIONI ALLA MESSA CATTOLICA

    A chi non piace che restino aperti il più possibile i canali della Grazia divina? C’è qualcosa che ci sfugge nella logica del Codice di Diritto Canonico: pare quasi che la Chiesa non si fidi delle rette intenzioni dei suoi sacerdoti di F. Lamendola  




 Il Sacrificio eucaristico che ha luogo nel corso della Messa è non soltanto il Sacramento che rigenera incessantemente la vita dell’anima, immettendola nell’alveo della vita divina, ma è anche il perpetuo rinnovarsi di un miracolo che, come osserva san Tommaso d’Aquino, il massimo filosofo e teologo del Medioevo, deve essere considerato perfino più grande della Risurrezione stessa di Cristo: perché questa si è verificata una sola volta, quello si rinnova incessantemente, ogni volta che un sacerdote lo celebra e che un fedele vi si accosta, per ricevere il corpo e il sangue di Gesù Cristo mediante l’Eucarestia.
Parrebbe, dunque, che la Chiesa cattolica debba esortare il clero a celebrare quante più Messe possibile, per favorire quella comunione totale con Gesù, che si realizza nel miracolo della Transustanziazione e, poi, nella assunzione delle sacre specie da parte del fedele, opportunamente riconciliato con Dio mediante il Sacramento della Penitenza, detto anche, appunto, della Riconciliazione; e sarebbe logico pensare che il Magistero ecclesiastico incoraggi i sacerdoti a dire più Messe al giorno, affinché il maggior numero di persone possano accostarsi all’Eucarestia e arricchire, con il loro stato di grazia, la vita soprannaturale della Chiesa medesima.
San Tommaso d’Aquino, infatti, nella Summa Theologiae (III, quaestio 80, art. 10, ad 4), scrive testualmente: «L’Eucarestia è cibo spirituale e perciò, come ogni giorno ci nutriamo del cibo corporale, così è lodevole cibarsi ogni giorno di questo sacramento». Il Concilio di Trento, da parte sua, così prescrive in proposito: «Nelle singole Messe, i fedeli presenti (…) si comunichino sacrosantamente dell’Eucarestia per fruire più abbondantemente dei frutti del santissimo sacrificio» (Enchiridion Symbolorum 1747). E il pontefice san Pio X, a sua volta: «È desiderio di Gesù Cristo e della Chiesa che tutti i fedeli quotidianamente accedano al sacro convito» (Enchiridion Symbolorum, 3375; cfr. c. 898). Nell’arco di otto secoli, dunque, la posizione dei massimi teologi e dei pontefici, la raccomandazione del Magistero ecclesiastico, sono sempre state chiare e coerenti: è cosa buona, anzi, ottima, per il fedele, comunicarsi il più spesso possibile, anche tutti i giorni, sempre secondo l’aurea regola, che è poi la ragion d’essere della Chiesa medesima, il suo fine e il suo scopo: Bonum animarum (o salus animarum), in Ecclesia, suprema lex: il bene delle anime (o la salvezza delle anime), nella Chiesa, sia la legge suprema.E, se ciò è bene per il fedele, non si capisce perché non dovrebbe esserlo per il sacerdote che celebra.
Se non che, quando si va a vedere cosa dice in proposito il Codice di Diritto Caninico (cc. 897-958), si rimane, a dir poco, sconcertati:

«Il sacrificio eucaristico, memoriale della morte e della risurrezione del Signore, nel quale si perpetua nei secoli il sacrificio della Croce, è culmine e fonte di tutto il culto e della vita cristiana, mediante il quale è significata e prodotta l'unità del popolo di Dio e si compie l'edificazione del Corpo di Cristo. Gli altri sacramenti infatti e tutte le opere di apostolato sono strettamente uniti alla santissima eucaristia e ad essa sono ordinati (c. 897).
La celebrazione eucaristica è azione dì Cristo stesso e della Chiesa, e deve essere ordinata in modo che tutti coloro che vi partecipano traggano da essa abbondanza di frutti, per il conseguimento dei quali Cristo ha istituito il sacrificio eucaristico (c. 899, par 3).
La celebrazione della messa produce sempre, ex opere operato, frutti di salvezza, di conversione e di santificazione; ecc.
LA BINAZIONE. Al sacerdote è consentito celebrare l'eucaristia una sola volta al giorno, eccetto i casi in cui, a norma di diritto, può celebrare o concelebrare più volte nello stesso giorno (c. 905. par. 1. Ogni sacerdote può ripetere la celebrazione o la concelebrazione della messa: nel giovedì santo, chi ha celebrato o concelebrato la messa crismale, può celebrare o concelebrare la messa nella Cena del Signore; a Pasqua, chi ha celebrato o concelebrato la prima messa nella notte, può concelebrare la seconda messa di Pasqua; chi, in occasione del sinodo, della visita pastorale o di incontri sacerdotali concelebra col Vescovo o con un suo delegato, può di nuovo celebrare, a giudizio del Vescovo, per l'utilità dei fedeli. La stessa possibilità è data, con gli opportuni adattamenti, anche per le riunioni di religiosi con il proprio Ordinario o con un suo delegato;
nel Natale del Signore, tutti i sacerdoti possono celebrare o concelebrare le tre messe, purché lo facciano nelle ore corrispondenti (MR 158); nel giorno della commemorazione di tutti i fedeli defunti (2 novembre), ogni sacerdote può celebrare o concelebrare tre messe. Una sola messa però può essere applicata "ad libitum"; delle altre due, una deve essere applicata per tutti i fedeli defunti e l'altra secondo le intenzioni del Sommo Pontefice (Cost. Ap. Del 10 agosto 1915). Si eviti tuttavia di celebrare le tre messe immediatamente una dopo l'altra
2. Nel caso vi sia scarsità di sacerdoti, l'Ordinario del luogo può concedere che i sacerdoti, per giusta causa, celebrino due volte al giorno e anche, se lo richiede la necessità pastorale, tre volte nelle domeniche e nelle feste di precetto (c. 905, par. 2). Il criterio per stabilire quale sia in concreto la messa binata o trinata non è dato dalla successione cronologica della celebrazione, ma dal fatto che essa venga celebrata, non importa dove e in quale ora, oltre quell'unica messa giornaliera che, di diritto, è consentita a ciascun sacerdote. Poiché l'Ordinario del luogo può permettere la binazione nei giorni feriali e la trinazione nei giorni di precetto soltanto nel caso che lo richieda la necessità pastorale della comunità, la predetta facoltà non può essere concessa per motivi di devozione personale o per soddisfare la richiesta di poche persone, come avverrebbe, per esempio, nel caso delle messe per gli anniversari dei defunti. Il numero eccessivo di messe nella medesima chiesa non favorisce l'adeguata preparazione e celebrazione dell'eucaristia e la valorizzazione di altre celebrazioni eucaristiche, penitenziali, della parola di Dio e delle pie pratiche che efficacemente promuovono la formazione e la crescita spirituale dei singoli e della comunità.
Sappiano i fedeli, e ricordiamo noi sacerdoti, che se nelle chiese si va soltanto per la celebrazione dell'eucaristia, e poco o mai per altre celebrazioni e pie pratiche, non solo decade la vita spirituale, ma ne ha grave danno lo stesso culto eucaristico. […]
Nei giorni feriali, alla binazione della messa, specialmente se vespertina, si preferiscano altre celebrazioni e pie pratiche; così facendo, il popolo fedele dispone di un multiforme nutrimento spirituale e meglio comprende che se l'eucaristia è fonte e centro della Chiesa e della vita cristiana (PO 6), è altrettanto vero che la sacra Liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa e tutta la spiritualità cristiana (SC 9).»

L’attuale Codice di Diritto Canonico è piuttosto recente e, comunque, ben posteriore al Concilio Vaticano II: è stato promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983, ed è entrato in vigore il 27 novembre di quello stesso anno. D’altra parte, se si va a vedere cosa dicono, su questo argomenti, i documenti episcopali delle singole diocesi, si scopre che tutti i vescovi, più o meno, si sono posti sulla stesa linea teologico-pastorale: poche messe, di regola non più di una al giorno, possono essere celebrate da un singolo sacerdote; tutt’al più, una eccezione può essere fatta per quei sacerdoti che devono seguire due o più Parrocchie contemporaneamente, a causa della scarsità delle vocazioni sacerdotali e del progressivo invecchiamento del clero secolare. Comunque, i vescovi insistono sul fatto che la binazione o la trinazione delle Messe è giustificata soltanto da circostanze particolari, da ritenersi eccezionali, e che devono essere ben valutate e autorizzate, volta per volta, e non lasciate alla discrezione del prete.
Tutto questo è strano, quasi paradossale. Da un lato, si dichiara che il Sacrificio eucaristico è culmine e fonte di tutto il culto e della vita cristiana; che la celebrazione eucaristica è azione dì Cristo stesso e della Chiesa; e che la celebrazione della Messa produce sempre, ex opere operato, frutti di salvezza, di conversione e di santificazione; dall’altro, si stabilisce che, di norma, al sacerdote è consentito celebrare l'Eucaristia una sola volta al giorno; che spetta ai vescovi di autorizzare i sacerdoti, che abbiano la responsabilità di più parrocchie, a celebrarla due volte al giorno, tre volte al massimo nelle domeniche e nelle feste di precetto. Ci si domanda: se la Messa è il momento centrale nella vita di una comunità cristiana, e se essa rappresenta il canale privilegiato attraverso cui la Grazia divina si effonde sugli uomini, per mezzo del Sacrificio eucaristico, come mai tutta questa prudenza, e, quasi, questa parsimonia, nell’autorizzarla?
Ancora più sconcertanti sono le motivazioni che si allegano per giustificare tale normativa: che senso ha ammonire che, se nelle chiese si va soltanto (sic) per la celebrazione dell'Eucarestia, e poco o mai per altre celebrazioni e pie pratiche, non solo decade la vita spirituale, ma ne ha grave danno lo stesso culto eucaristico? Perché mai dovrebbe decadere la vita spirituale? E di chi, poi? Del sacerdote o del fedele? Del sacerdote, parrebbe: ma per quale ragione? E perché mai lo stesso culto eucaristico dovrebbe  ricevere un “grave danno” dalla frequente celebrazione della Messa quotidiana? Ci viene in mente il nostro vecchio parroco, morto due anni fa: la domenica diceva quattro Messe, pur avendo una sola parrocchia e una sola chiesa da seguire: alle sette del mattino; alle otto; alle undici; e, infine, alle sei del pomeriggio. Negli ultimi anni le aveva ridotte a tre, togliendo la Messa del primo mattino, peraltro frequentata abitualmente da un gruppo di pie donne. Agiva all’insaputa del suo vescovo? E, soprattutto, agiva al di fuori del Codice del Diritto Canonico? Se è così, evidentemente compiva un abuso: non si atteneva, pur senza valide ragioni, alla regola di celebrare una sola Messa quotidiana. E nondimeno, guardando alla sostanza e non alla legge formale, davvero si trattava di un abuso?
Ancora più strana, a nostro avviso, la conclusione del Codice, laddove si suggerisce ai sacerdoti di “sostituire” la seconda Messa, anche se richiesta dai fedeli o se scaturisce da ragioni di devozione personale (!), con un altro tipo di celebrazione, in modo da far comprendere che l'Eucarestia è,  sì, la fonte ed il centro della Chiesa e della vita cristiana, ma che la sacra Liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa e tutta la spiritualità cristiana. Che non la esaurisca, è certo; ma perché dare l’impressione che, insomma, troppe Messe non fanno bene alla salute dell’anima? Non dovrebbe essere esattamente il contrario? Se l’Eucarestia è il Sacramento principale, e quello che più di tutti rigenera la vita spirituale, è mai possibile che possa essere “troppo”? Non stiamo parlando di un cibo materiale, il cui eccesso provoca l’indigestione: stiamo parlando del nutrimento essenziale della vita soprannaturale, che rende l’uomo – così il sacerdote, come il semplice fedele - partecipe della stessa vita divina. Ché, se poi il problema riguarda il sacerdote (troppo vino da bere nell’arco d’una sola giornata?), lo stesso Codice di Diritto Canonico riconosce che il sacerdote, mentre celebra il sacramento dell’Eucarestia, così come quando officia la Penitenza, è Gesù stesso: e come potrebbe Gesù trovare eccessiva la pratica frequente della Cena di risurrezione?
C’è qualcosa che ci sfugge, in tutta questa logica del nuovo Codice di Diritto Canonico. Pare quasi che la Chiesa non si fidi delle rette intenzioni dei suoi stessi sacerdoti; che sospetti, in loro, una tendenza a celebrare l’Eucarestia con troppa disinvoltura, quasi con leggerezza. Se è così, si tratta di un atteggiamento ingiurioso. Inoltre, non riusciamo a capacitarci del fatto che la Chiesa possa “stabilire” che la Grazia è un bene spirituale da ricevere con cautela, e solo in modica quantità. Un altro sacerdote di nostra conoscenza, un autentico uomo di Dio (e, perciò, non molto gradito ai suoi superiori), dice sempre che la Messa non è mai troppa, che l’Eucarestia non può fare che del bene, perché immette nella vita dell’anima lo splendore di Gesù Cristo. Sta sbagliando, anche lui? E il compito dei vescovi, è diventato quello di sorvegliare affinché i loro sacerdoti non dicano troppe Messe? Ma quando mai? A chi non fa piacere che restino aperti il più possibile i canali della Grazia divina, anche più volte al giorno, se non al Nemico dell’uomo, che vorrebbe tenerlo lontano da Dio?
A chi non piace che restino aperti il più possibile i canali della Grazia divina?

di Francesco Lamendola

DISCERNIMENTO E VITA DIVINA

 Abbiamo bisogno di discernimento spirituale per partecipare alla vita divina. La nostra natura ci attira verso gli istinti non è male in se stesso ma può diventarlo è proprio lì che l’anima deve fare ricorso al discernimento spirituale di F.Lamendola



Abbiamo bisogno di discernimento spirituale per partecipare alla vita divina

di

Francesco Lamendola


La civiltà moderna non rappresenta soltanto, come volentieri si dice e si ripete, un autentico deserto spirituale; è qualcosa di assai peggiore: il luogo della negazione della vita spirituale, e, dunque, della rottura permanente e volontaria del rapporto di amore fra l’uomo e Dio – e perciò, inevitabilmente, anche dell’uomo con se stesso. Solo se si pone in armonia con Dio, infatti, l’uomo è in pace con se stesso; ma, affinché questo sia possibile, è necessario che la sua vita spirituale – che è la vita dell’anima – sia costantemente collegata con la sua sorgente, che è la dimensione soprannaturale. Se l’uomo dimentica di essere una creatura chiamata alla vita soprannaturale, e partecipe, così, della stessa vita divina; se altro non crede, né spera, di se stesso, che di essere un animale un po’ evoluto, nato dal caso e diretto verso il nulla: allora non può non vedersi come un animale malato e infelice, la cui ragione si è costituita in conflitto con i suoi istinti e, sfuggendo al suo controllo, lo trascina inesorabilmente verso l’autodistruzione. Senza un ancoraggio nel soprannaturale, la ragione umana diventa una maledizione; non solo: diventa l’alibi per giustificare, con ragionamenti capziosi e sofistici, qualunque capriccio e qualunque abnormità vengano suggeriti all’uomo dagli istinti che salgono dalle zone più basse dell’anima.
Ma l’uomo tecnologico, l’uomo immerso nel diabolico consumismo, che sempre brama e teme qualcosa, che è sempre proteso al di fuori di sé, dimentico del suo centro spirituale e della sua autentica vocazione, sa ancora di avere un’anima? Pare proprio di no, visto che neppure davanti all’insorgere e all’aggravarsi del suo malessere spirituale ne sa riconoscere la causa, e, per cercare un po’ di sollievo, si affida al quella bassa forma di magia nera che è la psicanalisi, invece di fare chiarezza in se stesso, affidandosi a chi sa e può aiutarlo (ne abbiamo già parlato in alcuni articoli precedenti, fra i quali: «Una forma di magia nera: la psicanalisi»; «Confessione o psicanalisi? Il superuomo in cerca di una guida», pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente il 10/05/07 e il 23/11/2012, e poi ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). È pur vero che, nella società odierna, la figura del direttore spirituale (“direttore”, si badi, o “maestro”: non semplice consigliere) sta diventando sempre più rara e oggettivamente difficile da trovare; proliferano, invece, i maestri fasulli e le “guide” ciarlatanesche, dalle quali bisognerebbe guardarsi in tutte le maniere, per il danno immenso che possono provocare (innanzitutto a livello spirituale e morale, ma anche a livello economico).
Alcune riflessioni svolte dal padre Charles André Bernard nel suo libro «L'aiuto spirituale personale» (Roma, Libreria Editrice Rogate, 1978, 1994, pp. 40-43), pur essendo dirette propriamente alla figura del direttore spirituale, in senso cattolico ed ecclesiastico, ci sembra che contengano utilissima materia di chiarificazione per qualsiasi persona di retto sentire, la quale sia assetata di una Verità superiore a quella puramente umana:

«... L'impegno ad entrare nell'esperienza spirituale richiede una conoscenza di sé: come attuare la vita di grazia senza conoscere le strutture psicologiche in cui essa si inserisce?
Qui possiamo individuare la differenza fondamentale fra il consigliere psicologo e il padre spirituale. Il primo aiuta, innanzitutto, a conoscere le condizioni psicologiche della personalità e in particolare gli impedimenti ed i complessi che ostacolano la piena realizzazione di sé; soltanto dopo questo risanamento psicologico si pone il problema dell'impegno spirituale, che per lo psicologo rimane facoltativo. Per il padre spirituale, invece, è l'impegno spirituale serio e deciso che porta alla manifestazione e alla scoperta delle debolezze e distorsioni psicologiche. Di queste anch'egli dovrà occuparsi, ma sempre in modo subordinato alla ricerca e all'adempimento della volontà di Dio. Criterio determinante rimane la capacità del figlio spirituale di vivere ed agire secondo lo Spirito di Dio.
Un altro campo dell'aiuto illuminante del pare spirituale riguarda il discernimento spirituale. La differenza tra il discernimento e l'illuminazione [...], è parallela a quella che intercorre fra la decisione spirituale e lo sviluppo vitale. La scelta, o per dirla con S. Ignazio, l'elezione, va effettuata con i criteri spirituali che permettono di discernere  qual è la volontà di Dio e così orientare la propria vita nella direzione voluta dal Signore. [...]
Non ci può essere opposizione tra vita evangelica e realizzazione umana, né questa ultima va misurata secondo i nostri criteri, come se, seguendo il detto degli antichi sofisti, l'uomo fosse "la misura di ogni cosa". [...]
La realizzazione vera della persona singola deriva dall'attuazione della sua vocazione personale.  [...] Ciò significa che la vocazione va considerata come una realtà che, a modo di una pianticella, deve crescere e quindi ha bisogno di essere protetta, nutrita, sorretta. Come la pianta, la vocazione possiede un dinamismo interiore, ma risente delle condizioni esterne che provocano reazioni vitali.  [...]
Lo sviluppo della personalità non è esente da tensioni o difficoltà. Anche nei casi più semplici esistono tensioni fra le varie dimensioni dello sviluppo personale: ogni uomo ha diritto a far fruttificare i  talenti personali  e le forze corporali e intellettuali, ma, allo stesso tempo, ha bisogno degli altri e della società per realizzarsi pienamente e, soprattutto, ha bisogno dell'amore vero nelle sue varie manifestazioni. Ora, queste necessità possono entrare in conflitto perché l'amore egocentrico deve subordinarsi all'amore oblativo. Oltre a questo, la  vita impone scelte decise: professione, scelta del congiunto, rinuncia a desideri poco accessibili ecc.
Nella vita spirituale si aggiunge una tensione più radicale: l'amore di Dio, che è il valore supremo, tende a sottomettere a sé tutte le altre tendenze per realizzare l'unità integrativa di tutta la persona.»

Il discernimento spirituale, dunque, non è una espressione generica e buona per tutte le stagioni; non indica una qualità propriamente umana, bensì un tipo di attività dello spirito che si realizza quando l’anima è entrata in sintonia con la vita divina; quando, magari sotto la guida di un vero maestro spirituale (che può essere anche il Maestro interiore) si abbandono all’azione della Grazia ed esce, per così dire, dai limiti del mondo naturale, entro i quali è confinata anche la ragione umana, e vede spalancarsi innanzi a sé gli orizzonti infiniti del Divino.
Discernere spiritualmente, quindi, equivale a riconoscere come “vere” o “false”, “buone” o “cattive”, “giuste” o “sbagliate”, quelle cose che, considerate da un punto di vista prettamente umano, possono anche risultare sostanzialmente indifferenti, o, addirittura, mostrarsi sotto una luce ingannevole, sì da presentarsi come il contrario di ciò che sono realmente.  In una logica puramente umana, e cioè, in ultima analisi, utilitaristica ed egoistica, perfino una azione malvagia può prendere le apparenze di una cosa buona; perfino toglierla vita a un essere umano, come nel caso dell’aborto o dell’eutanasia, può nascondersi sotto le apparenze di una “buona” azione, laddove si ponga attenzione soltanto ad un aspetto della realtà: il fatto che il nascituro abbia una qualche malformazione, ad esempio; oppure il fatto che il malato terminale chieda lui stesso di poter finire i suoi giorni mediante un atto “pietoso” dei familiari e dei medici.
Per uscire dalla palude del relativismo, dove tutto è uguale a tutto e dove le ragioni dell’uno si contrappongono frontalmente a quelle dell’altro, con il risultato di una instaurazione della legge del più forte, del più astuto, del più fornito di beni materiali, la ragione stessa, se rettamente utilizzata, indica la sola, possibile via d’uscita nel riconoscimento d’una Verità superiore, anzi, per dir meglio, della Verità assoluta, della quale le piccole verità parziali, che ciascuno di noi sfrutta e brandisce come altrettante armi per giustificare il proprio egoismo e la difesa del proprio cieco interesse, appaiono per quello che realmente sono: dei pallidi, sbiaditi e, soprattutto, ingannevoli riflessi di quell’unica verità, che sola è vera per se stessa, buona e giusta e bella in se stessa, e non per altro da sé o per qualsiasi ragione che stia al di fuori di essa.
Ma come si fa a sviluppare il discernimento spirituale, se si ignora perfino – come tanto spesso accade nella civiltà moderna – di possedere un’anima soprannaturale; di provenire da un progetto che esiste fin da prima che il mondo incominciasse a esistere; e di essere stati scelti e chiamati, uno per uno, a compiere e realizzare lo scopo di glorificare, nella propria vita, nei propri pensieri e nelle proprie opere, la Verità, la Bontà, la Giustizia e la Bellezza, da cui ogni cosa ha avuto inizio, e alla quale ogni cosa farà infine ritorno?
La prima forma di consapevolezza, pertanto, dovrà essere proprio questa: riconoscere l’inganno del materialismo, del relativismo, dell’utilitarismo e di tutte le filosofie e le pratiche di vita basate sull’egoismo, sull’immanentismo e sull’autosufficienza dell’uomo; prendere atto della piccolezza, della fragilità e della labilità della natura umana, considerata esclusivamente sotto l’aspetto materiale; aprire la mente e il cuore alla dimensione della trascendenza (che è cosa ben diversa da certe confuse pratiche pseudo spirituali, malamente importate o imitate dall’Oriente, e basate non sull’apertura al divino, ma sulla supposta auto-divinizzazione dell’uomo).
Una volta fatto ciò, si tratta di allenare la vita dell’anima al colloquio costante, fiducioso, fervido, con Dio: cioè alla preghiera, nelle varie forme della preghiera “tradizionale”, della locuzione interiore, della contemplazione, della meditazione, della lettura mistica delle Scritture; cosa, quest’ultima, evidentemente diversa da una lettura puramente “umana”, storica e critica, anche se a questa spettano pure uno spazio e una dignità specifici, però su di un piano differente, quello dello studio e dell’approfondimento intellettuale. Peraltro, per l’uomo che cerca Dio, non è mai possibile separare totalmente le due cose, la fede e la ragione, come hanno visto tutti i grandi teologi, da san Paolo ad Agostino, da Tommaso d’Aquino a Kierkegaard. Solamente i teologi moderni, imbevuti di razionalismo e scetticismo, credendo d’aver fatto chi sa quale meravigliosa scoperta, si sono scostati dalla strada tracciata dai loro predecessori: col risultato che, un poco alla volta, togliendo un “mito” qua, un dogma là, hanno finito per ritrovarsi in mano non già la Rivelazione “sfrondata” dalle sedimentazioni posteriori, e abusive, ma un guscio vuoto me inerte, dove la Verità si è eclissata definitivamente nel gran mare del dubbio e della sospettosità permanente (ah, quanto male hanno fatto alla dimensione spirituale dell’uomo i moderni “maestri del sospetto”!), e dove la fede non è che una parola senza più un reale significato.
La vita soprannaturale, dunque, finché siamo legati, mediante il corpo, alla dimensione del finito e del contingente, è, essenzialmente, quella dell’anima, che si apre alla Grazia e ne riceve i doni copiosi, anche attraverso la mediazione di altri spiriti umani e delle cose stesse: da questo punto di vista, tutto è Grazia e tutto parla all’uomo dello splendore di Dio. Ma il corpo, appunto, e la nostra natura materiale, ci attirano verso la terra, verso il dominio delle passioni e degli istinti: ciò non è male in se stesso, ma può diventarlo, se tali istinti vengono “naturalizzati”, ossia se vengono recepiti come una forza di per sé giusta e irresistibile, mentre invece è proprio lì che l’anima deve fare ricorso a tutte le sue capacità di discernimento spirituale. Non tutto è buono, quel che proviene dalla natura: se così fosse, il Peccato originale sarebbe soltanto una pia leggenda, e la stesa Redenzione diverrebbe superflua, perché l’uomo avrebbe la possibilità di giungere alla Verità e alla perfetta santità con le sue sole forze, senza alcun bisogno della Grazia. Non vi sarebbe bisogno della protezione degli Angeli, né dalla intercessione della Vergine Maria: ciascuno di noi, da se stesso, potrebbe prendere in mano la propria direzione spirituale, vincere qualunque tentazione, realizzare compiutamente il disegno divino a proposito dell’uomo. Ma questo, ripetiamo, renderebbe inutile quel progetto, anzi, renderebbe inutile Dio stesso: perché sarebbe l’uomo, a  quel punto, a diventare il Dio di se medesimo, al di sopra e al di là del quale non vi sarebbe più nulla, né esisterebbe la necessità, per lui, di cercare qualche cosa d’altro. È il vecchio, antichissimo peccato di superbia: il peccato di Adamo ed Eva. È la prima e fondamentale forma della umana concupiscenza, dalla quale derivano le altre due: la lussuria e l’avarizia/cupidigia (come adombrato da Dante Alighieri nella allegoria delle tre fiere: il leone, la lonza e la lupa). Anche Cristo, nel deserto, fu tentato dal Diavolo di mettere alla prova l’amore di Dio: una tentazione della superbia, che seppe respingere con forza...  

1 commento:

  1. Le Messe buone non potranno mai essere "troppe"... Dio non è mai "troppo": Dio è Dio , lui non stanca (per essere sempre più suo vuole che tu sia te stesso al massimo grado in lui); la sua caricatura invece stanca: forse per questo c'è il rischio di superare la "dose minima consigliata".

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