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giovedì 28 aprile 2016

Una teologia senza la fede

HAMILTON E LA MORTE DI DIO

    Una teologia senza la fede è come un albero secco che pretenda di dare ancora frutti. La cultura cristiana statunitense negli ani ’60 ’70 è stata investita da una corrente passata alla storia come teologia della morte di Dio 
di Francesco Lamendola  



La cultura cristiana statunitense, negli ani ’60 e ’70, è stata investita da una corrente passata alla storia come “teologia della morte di Dio”. Ne hanno fatto parte pensatori, quasi tutti, di estrazione protestante, appartenenti a diverse chiese: Thomas J. J. Altizer (del quale ci siamo già occupati nell’articolo: Thomas J. J. Altizer, ovvero il grande equivoco fondato sulla teologia della “morte di Dio”, pubblicato su Il Corriere delle Regioni il 27/03/2015), William Hamilton (del quale intendiamo parlare adesso), Harvey Cox (della Chiesa Battista), Paul van Buren (della Chiesa episcopale) e Gabriel Vahanian (l’unico non americano: un francese che, però, ha insegnato per un quarto di secolo negli Stati Uniti; e, comunque, protestante egli pure).
Si è trattato, come abbiamo già provato a mettere in luce, di un grande e, nel migliore dei casi; nel peggiore, di un suicidio deliberato della teologia, camuffato da qualcosa d’altro, ma, in effetti, caratterizzato da un continuo giocare a nascondino con l’ateismo più o meno esplicito, più o meno programmatico.
Quei teologi hanno raccolto l’invito di Dietrich Bonhoffer a fare etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse, e questo per la constatazione che l’uomo moderno è, dicono essi, diventato adulto, e dunque non può, né potrebbe continuare a credere in Dio come ci credevano i suoi antenati. Ma come credevano in Dio, gli uomini antecedenti alla modernità, e, più precisamente, i cristiani? Cosa c’era, nella loro fede, nel loro modo di rapportarsi a Lui, che l’uomo moderno non può condividere?
La risposta è implicita nella definizione di “uomo adulto” adoperata da Bonhoeffer (del quale, a sua volta, ci siamo occupati nell’articolo:Il “caso” Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea, pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 26/06/2010): a quanto pare, la fede dell’uomo pre-moderno era una fede “bambina”, o “immatura”. Peccato che Gesù in persona abbia ammonito che, se non ci si fa piccoli come dei bambini, non si può entrare nel Regno dei Cieli; perché Dio Padre ha “nascosto” (il Vangelo dice proprio così) le cose sue agli “intelligenti” e ai “superbi” e ha voluto rivelarle ai semplici. E, dunque, le vere radici della teologia della morte di Dio, più che in Bonhoeffer e più che nel troppo citato Nietzsche (ma, di solito, a sproposito) andrebbero semmai cercate in Kant, con il suo elogio dell’uomo che si fa adulto mediante l’uso libero della ragione ed esce dallo stato di “minorità” in cui s’era cacciato da se stesso, sottomettendosi a delle “verità” non verificate.
Dall’idea che l’uomo “adulto” deve fare da sé, che non deve aspettarsi nulla da Dio e che Dio stesso, in fondo, vuole che egli così faccia, ossia che dimostri di essere cresciuto ed autonomo, a quella che Dio realmente non esiste, non manca che un passo: di fatto, si nega sia la divina Provvidenza, sia il rapporto amorevole di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio, sostituendolo con una “maturità” che consiste nell’ignorare, di fatto, la presenza di Dio padre. Queste conclusioni implicite, ma logiche, sono attenuate dal fatto che la “teologia della morte di Dio” implica che Dio, se ora è morto, doveva pure esserci; e allora, se Dio c’era, propriamente parlando non se n’è andato per sempre, perché Dio non può “morire”. Solo le creature muoiono, non il creatore; il Creatore è immortale. Bisognerà parlare, allora, di “morte di Dio” in senso figurato; ma, per quanto figurato, si tratta anche, e soprattutto, di un orientamento pratico, che potremmo definire, appunto, un ateismo pratico, simile, per fare un esempio, a quello dell’antica filosofia di Epicuro: gli Dei esistono, ma hanno ben altro da fare che occuparsi delle vicende umane; se ne stanno, beati e imperturbabili, nei loro intermundia, e quindi gli uomini devono fare proprio se non ci fossero. Insomma: nulla vieta che questo Dio, così come è “morto”, possa anche “risorgere”; perché, dicono i teologi della sua morte, non era morto veramente, ma era morto per noi, era morto per gli uomini moderni. Ed è in questo senso che si può cogliere, in siffatta corrente teologica, una anticipazione della “svolta antropologica” in teologia, predicata e praticata da tanti sedicenti teologi cattolici a partire dal Concilio Vaticano II.
Prima di quella data, crediamo che sarebbe stato semplicemente impossibile che dei teologi “cristiani”, protestanti o cattolici che fossero, ma specialmente cattolici, incominciassero a parlare seriamente della “morte di Dio” e predicassero che il cristiano deve vivere come se Dio non ci fosse, proprio per dimostrare a Dio (e qui sta il paradosso) che sono diventati adulti, e, perciò, che sono dei bravi “figli”, dato che ogni bravo figlio ha il diritto/dovere di diventare adulto e di smetterla di strusciarsi ai pantaloni del papà (o alle gonne della mamma, se si preferisce). E sarebbe stato impossibile perché talmente contrario a ciò che la teologia cristiana ha sempre pensato di se stessa (e, in particolare, del suo rapporto con la Rivelazione, con la Grazia e con la fede), della sua natura, del suo scopo, della sua missione, che non vi sarebbe stato neppur bisogno di contestare una teologia della “morte di Dio”: sarebbe stata liquidata come una totale assurdità e, anzi, come una vera e propria contraddizione in termini.
Oltre a Kant, a Nietzsche, a Bonhoefffer (e, naturalmente, all’immancabile Rudolf Bultmann, e anche a Paul Tillich), la teologia della “morte di Dio” si rifà, in maniera esplicita, alla filosofia analitica, che è una elle maggiori espressioni del cosiddetto positivismo logico, della quale mutua concetti, impostazione e prospettive: e dunque al pensiero di Bertrand Russell,di George Edward Moore, di Ludwig Wittgenstein e a quello dei membri del Circolo di Vienna (Rudolf Carnap, Otto Neurath, Moritz Schlik, Philipp Frank e altri). Da questo punto di vista, essa può vantare il fatti di essere notevolmente “aggiornata” rispetto al quadro del pensiero contemporaneo; tutto sta a vedere se i presupposti del positivismo logico, i suoi metodi delle sue prospettive conciliarsi con ciò che, da sempre, la cultura europea ha chiamati “teologia”, o se la teologia della “morte di Dio” non dovrebbe piuttosto essere considerata, a tutti gli effetti, la morte della teologia, cioè la soppressione di se stessa.
Ma vediamo più da vicino, per non restare su un terreno puramente teorico, le idee di un altro significativo esponente della teologia della “morte di Dio”: William Hamilton, classe 1924, pensatore non lineare, la cui riflessione teologica è stata soggetta a diverse “svolte” e ad altrettanti aggiustamenti, ma le cui idee di fondo, crediamo, sono rimaste sostanzialmente invariate e, quindi, possono essere individuate e discusse con sufficiente chiarezza.
Ha scritto Thomas W. Ogletree nel suo saggio La controversia sulla morte di Dio (titolo originale: The death of God controversy, Nashville, USA, Abingdon Press, 1966; traduzione  dall’inglese di Domenico Pezzini, Brescia, Queriniana Editrice, 1968, pp. 44-48):

Nei suoi commenti sulla “morte di Dio” pare che Hamilton muova dalla coscienza delle difficoltà profonde che implica l’affermazione della realtà di Dio, che passi poi attraverso un’aperta confessione di incredulità in Dio sottolineata da espressioni di speranza del suo “ritorno” e che finisca in una fiduciosa accettazione dell’idea che un uomo può essere seriamente cristiano anche se crede che un discorso su Dio che sia utile e significante  è cosa ormai finita per sempre. Nel suo libretto “The New Essence of Christianity” (La nuova essenza della cristianità […]) ha scandagliato con sensibilità i problemi che minacciano la fede in Dio. È abbastanza interessante notare che l’idea che gli stava allora davanti alla mente non era la sfida di un’epoca scientifica, ma l’antico problema della sofferenza. Più di qualsiasi altra, sembrava questa la difficoltà che pareva dover concludere all’impossibilità di accettare le immagini tradizionali di Dio. Hamilton sentì molto profondamente la necessità di superare questa particolare forma di esperienza della “morte” di Dio. Come lui stesso disse, l’uomo “non può vivere a lungo da cristiano con il sospetto che Dio si è ritirato” (p. 59).
Un po’ di temo dopo, tuttavia, in una notevole confessione pubblica di “mancanza di fede”, Hamilton riconobbe la perdita di Dio, in un senso che non ammetteva equivoci. Nel saggio fortemente autobiografico “Thursday’s Child: the Theologian Today and Tomorrow (Il ragazzo del giovedì: il teologo di oggi e di domani) diceva che il “teologo” d’oggi “realmente non crede in Dio, qualunque cosa ciò possa significare, o che c’è UN Dio o che un Dio ESISTE. In questo caso il riconoscimento della perdita si traduceva in un atteggiamento di attesa silenziosa e paziente, “perfino in una specie di preghiera”, fino al riapparire di ciò che era perduto (p. 489). Questo senso di attesa divide Hamilton dall’ateismo classico e da ogni forma di angoscia o di depressione. Certo, finché l’attesa era un fattore importante, l’espressione “assenza di Dio” o “eclissi di Dio”avrebbe potuto rendere il suo punto di vista molto più appropriatamente che non “morte di Dio”.
Da allora Hamilton ha sviluppato il pensiero sul significato della perdita di Dio in relazione al’idea di Bonhoeffer secondo cui l’uomo è “diventato adulto”. Dire che l’uomo è “diventato adulto” non vuol dire che l’uomo ha risolto tutti i suoi problemi, ma vuol dire che egli non aspetta più che Dio intervenga miracolosamente a liberarlo  dalle situazioni difficili. L’uomo, invece, guarda alle varie questioni e ai problemi della sua vita come se fossero compito e responsabilità propria. Più specificamente, considera i suoi bisogni e i suoi problemi  come qualcosa ch non chiede atti religiosi o devozionali, ma l’applicazione intelligente dello sforzo umano. Questo significa, per Hamilton, che è scomparso il Dio visto come colui che “soddisfa un’esigenza” e “risolve i problemi”. Anche affermando questo, Hamilton continua a considerare possibile una ripresa  del discorso su Dio, purché questo discorso non fosse fatto in termini di esigenze e problemi. Richiamava l’attenzione sulla distinzione di Agostino, che poteva essere utile a questo punto, tra il valutare una cosa per la sua utilità e il valutarla invece perché è piacevole in se stessa. Se Dio non esiste più come colui che soddisfa le esigenze e risolve i problemi, forse la nostra attesa può trovare un senso diventando una ricerca  di ciò che significa compiacersi in lui. Questo suggerimento di Hamilton rimase un frammento non sviluppato, e pare che egli lo abbia poi lasciato perder. Qui possiamo semplicemente notare che la teologia cristiana migliore non ha mai trattato Dio come una specie di fattorino d’albergo cosmico che risolve tutti i problemi dell’uomo e si occupa di tutte le sue esigenze. Nello stesso tempo la teologia cristiana ha pure affermato che l’uomo non è pienamente uomo se è staccato dal suo rapporto con Dio, un rapporto che è caratterizzato come il godimento di Dio per se stesso. Ricordiamo il catechismo di Westminster: “Qual è il fine ultimo dell’uomo? “. “Il fine ultimo dell’uomo è di glorificare Dio e di goderlo per sempre”. In altre parole,mentre Dio deve esser goduto e non usato, tale godimento viene incontro  d’altra parte a un bisogno fondamentale dell’uomo.  Se si tenta di parlare di Dio come di uno di cui l’uomo non ha bisogno in alcun modo, allora sarà difficile pensare al godimento  di Dio come a qualcosa che sia di più di una aggiunta superflua alla vita, senza nessun rapporto  essenziale con l’essere umano.
Le più recenti affermazioni di Hamilton sulla “morte di Dio”sono meno precise. Pare che il senso di attesa e il tentativo di conservare una nuova specie di consapevolezza di Dio siano stati completamente abbandonati. Per dirla con lui, è più utile descrivere di nuovo o chiamare con un altro nome le esperienze di “Dio” che ancora abbiamo; quanto alle altre esperienze, di lui esse semplicemente non fanno più pare della nostra vita. La prima nozione comporta un processo di tradizione delle affermazioni circa Dio in qualcos’altro; la seconda indica una specie di consapevolezza del mondo diversa da quella  che prima era comune tra gli uomini. Benché Hamilton   sia ora preparato a “rinunciare a Dio” in maniera definitiva, egli richiama l’attenzione sull’importanza di notare e di valutare quelle esperienze umane che hanno attorno una specie di alone “sacro”, per esempio le esperienze sessuali e la morte. Tali esperienze, dice, dovrebbero avere un posto speciale nella nostra vita, e dovrebbero essere trattate con una attenzione speciale.

Che dire di questo preteso pensiero “teologico”, dove una sola cosa appare chiara e costantemente presente: che non di Dio si parla, ma della percezione che, di Dio, possiede l’essere umano? In primo luogo, che si tratta di un grandissimo pasticcio. Se ci soffermassimo a considerare uno per uno tutti i nodi concettuali, potremmo coglierne a pieno tutta l’inconsistenza, la vacuità, la contraddittorietà, la provvisorietà (nel senso peggiore del termine). Qui ci limiteremo soltanto, per ragioni di spazio, a prendere in esame alcuni punti più significativi.
Cominciamo dal concetto della “nuova cristianità”. Dunque, non si parla del cristianesimo (Verità eterna), ma della cristianità (come gli uomini tentano di viverlo): distinzione essenziale, che, però, non sembra essere abbastanza evidenziata, nemmeno da parte dell’Autore rispetto a se stesso. Non si tratta di ragionare su quel che Dio è, ma su quel che Dio appare; e non su quel che appare all’uomo in generale, ma all’uomo moderno (la “nuova” cristianità), il quale, essendo diventato “adulto” (Bonhoeffer), rivendica un altro modo di rapportarsi a Lui. Ora, l’uomo che rivendica qualcosa di fronte a Dio è già completamente fuori strada. Davanti a Dio l’uomo, sua creatura, non ha nulla da rivendicare, ma solo da lodare e adorare: questo ha sempre insegnato la sana teologia.
Punto secondo: quando mai la sana teologia ha considerato il problema della sofferenza come un ostacolo insormontabile? Basta leggere il Libro di Giobbe; basta pensare alla Passione di Cristo. Il cristianesimo è la religione della croce e della Resurrezione; ma non vi è Resurrezione senza la croce. Chi vuole scansare la sofferenza, è meglio che lasci perdere il cristianesimo. Altrimenti, come Hamilton, si scandalizzerà o, peggio, tenterà d’annacquarlo, per togliere la spina dello scandalo. In realtà, c’è una ragione per cui Hamilton trova che sia quello della sofferenza, e non quello della scienza, il grande ostacolo, la grande pietra d’inciampo sul cammino della cristianità moderna. Evidentemente, nel suo pensiero c’è un pesante riflesso del “pensare Dio dopo Auschwitz” di Hans Jonas. Non lo turbano i progressi sconvolgenti della scienza e della tecnica, che paiono andare in direzione opposta a quella indicata dalla legge divina; lo turbano le tragedie del XX secolo, lo turba il genocidio degli Ebrei. Questo, sì, è tipicamente moderno. In effetti, è con la religione colpevolistica dell’Olocausto che molti, e sia pure inconsciamente, vorrebbero rimpiazzare il cristianesimo, o, per lo meno, “aggiornarlo”. Dio deve tenere conto di Auschwitz. Se il Dio cristiano non ha impedito Auschwitz, vuol dire che è latitante o inefficiente; dunque, bisogna sostituirlo con qualcos’altro. L’uomo moderno, che pure ha perpetrato il genocidio, è troppo sensibile per proseguire nella sua storia senza farne un punto di non ritorno; Dio, apparentemente, sì: e dunque, è inevitabile che le strade di Dio e dell’uomo, arrivati a questo punto, si dividano.
Terzo: dire che il teologo d’oggi realmente non crede in Dio, equivale a dire che il teologo non crede in se stesso e che la teologia è da buttare, perché non c’è alcun Dio in cui credere. E qui il discorso potrebbe anche finire. Se non finisce, è perché Hamilton continua a lambiccarsi con giravolte ed equilibrismi verbali che tentano invano di mascherare la perdita della fede. A questo punto, si scivola alla teologia nella diaristica. Che egli voglia confessarci la sua perdita della fede, può anche interessarci sul piano storico e documentario; ma non c’interessa sul piano speculativo, cioè teologico. Sarebbe come se un matematico volesse raccontarci di come ha smesso di credere nella matematica. Possiamo comprenderlo, sul piano umano; ma che cosa avrebbe a che fare, tale confessione, con lo studio della matematica? In verità, è come se Hamilton cercasse in noi dei complici, o, almeno, dei giudici benevoli, per coinvolgerci nella sua perdita della fede. E questo non è intellettualmente onesto. Se il nocchiero non se la sente più di pilotare la nave, ebbene, che ceda il timone ad un altro; ma che non si azzardi a seminare la confusione tra l’equipaggio e i passeggeri, dicendo loro che quella navigazione è folle e che non li condurrà in nessun luogo, perché non esiste alcun porto verso cui dirigersi.
Quarto: che significa dire che l’uomo non può più credere in un Dio che venga a soddisfare tutte le sue esigenze e a risolver miracolosamente tutti i suoi problemi? Partiamo dal concetto di miracolo: qui c’è un’eco delle tesi di Bultmann contro il cristianesimo “mitologico”, e un riflesso della mentalità scientista oggi imperante. Che brutta parola, “miracolo”: togliamola via, non è degna di uomini “adulti”. Peccato che eliminare il concetto dell’intervento straordinario di Dio equivalga a tirare una riga su tutta la dimensione del soprannaturale, e, pertanto, a rendere inutile qualunque fede religiosa. Se Dio non interviene nella vita di chi crede in Lui e domanda il suo aiuto, che razza di Dio è? Non certo il Dio cristiano; non certo il Dio di Gesù Cristo. Eppure, il Vangelo è chiarissimo su questo punto. Chiedete e vi sarà dato; bussate e vi sarà aperto. Quanto alle “esigenze”, non sappiamo che cosa siano; semmai, crediamo che l’uomo abbia dei bisogni. E quale Padre non soddisferebbe i bisogni legittimi dei suoi figli? Quale padre – per usare le parole di Gesù Cristo - darebbe loro delle pietre, quando gli domandano del pane? Che poi debba risolvere tutti i nostri problemi, è un altro discorso. Le sue vie non sono le nostre vie; quel che sembra bene a noi, non è detto che lo sia davvero. Lui ne sa di più, su ciò che è veramente il nostro bene. Ma, imbevuto di razionalismo, Hamilton non se ne accorge…
Quinto: la citazione di Sant’Agostino, oltre ad essere intellettualmente disonesta (non si cita qualcuno per volgere le sue parole in un senso palesemente contrario alle sue intenzioni), è anche in se stessa contraddittoria. Dire che l’uomo può compiacersi in Dio, ossia godere di Lui disinteressatamente, solo dopo aver sbrigato da solo tutte le proprie faccende, è come dire che noi possiamo godere dell’amicizia di un amico, solo dopo che abbiamo fatto ogni cosa da soli, senza metterlo alla prova nell’ora del bisogno. Ma, in tal caso, come facciamo a sapere che è un amico? Quanta superbia, anzi, quanta falsa modestia c’è, in questo atteggiamento, per mascherare la superbia!
Sesto: “rinunciare a Dio” equivale ad affermare l’ateismo pratico; su questo non ci piove. Ma dire che bisogna tenere la porta socchiusa sul sacro, mediante la considerazione dell’atto sessuale e della morte, equivale a dire che, al posto di Dio, dobbiamo accontentarci di qualche coriandolo, di qualche frammento disperso; cioè, che dobbiamo fabbricarci un Dio sulla nostra misura. E questo, è molto peggio dell’ateismo, dal punto di vista di una sana teologia: è il pervertimento e il capovolgimento della religione. Ma di quale religione? Non si sa; Hamilton non specifica che sta parlando del Cristianesimo. Cita sant’Agostino (quando gli fa comodo: come è tipico dei protestanti), ma non il Vangelo. Nel Vangelo, Dio non è un’idea astratta, un Deus absconditus: è un Dio che si rivela in piena luce. Chi ha visto me, ha visto il Padre, dice Cristo ai suoi discepoli. Non è ancora sufficientemente chiaro, cari teologi della “morte di Dio”?

Vedi anche:
TEOLOGIA DELLA "MORTE DI DIO"  -  Thomas J. J. Altizer, ovvero il grande equivoco della teologia fondata sulla “morte di Dio”

IL CASO BONHÖFER - Il « caso » Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea


Una teologia senza la fede è come un albero secco che pretenda di dare ancora frutti

di Francesco Lamendola

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