ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 23 giugno 2016

Davanti a Dio non possiamo mentire

UNA SOLA E' LA META

    Abbiamo due patrie, due padri, due leggi: ma una sola è la meta. Il fatto di avere due patrie, due padri, due leggi e due cittadinanze, non significa necessariamente che dobbiamo trovarci in conflitto insanabile con noi stessi 
di Francesco Lamendola   

Il buon cittadino ha due patrie, e le ama entrambe: la patria di quaggiù e la patria di lassù; la terra natia in questa vita, e la patria celeste che ci attende dopo la morte. Ciascuno di noi ha due padri: quello umano e quello divino; dal primo abbiamo ricevuto la vita materiale, che però non è stata da lui creata, ma solo trasmessa, così come lui, a sua volta, l’ha ricevuta; dal secondo abbiamo ricevuto la vita soprannaturale, e questa, sì, ci è stata donata dal nulla. E ciascun essere umano ha due leggi da rispettare: quelle umane e quelle divine; le prime sono stabilite dal gruppo, dalla tribù, dalla società, dallo stato; le seconde sono stabilite da Dio; le prime possono cambiare nel corso del tempo, diventando lecito ciò che era illecito, e viceversa; le seconde sono eterne e immutabili. Ciascuno di noi, pertanto, possiede come una doppia cittadinanza: siamo con un piede, per così dire, immersi nella vita di quaggiù, e partecipi degli affanni, delle speranze, dei timori della vita terrena; con l’altro, invece, siamo proiettati verso l’eterno, siamo chiamati a vivere fin da ora la dimensione dell’Assoluto, preparando le condizioni per il nostro destino eterno.

Il fatto di avere due patrie, due padri, due leggi e due cittadinanze, non significa necessariamente che dobbiamo trovarci in conflitto insanabile con noi stessi. Un certo grado di conflitto è inevitabile, perché le due dimensioni si sfiorano, corrono parallele per un poco, ma poi, un po’ alla volta, si allontanano e si divaricano sempre di più, fino a perdersi reciprocamente di vista; tuttavia, il conflitto diviene aspro e insanabile solo se abbiamo la tendenza a coltivare un’indole ribelle e insofferente più di quanto sia giusto, o se abbiamo la sfortuna, non meno grave, di trovarci a vivere in una società e in momento storico in cui più grave è l’allontanamento degli uomini dal modello ideale ed eterno, quello della Città di Dio. Quando la Città degli uomini si ribella apertamente a Dio, allora ogni momento della nostra vita è una prova difficile, in cui siamo chiamati a fare delle scelte dolorose, o di qua, o di là: perché sempre spregevole è l’ignavia. In condizioni normali, però, il conflitto dovrebbe essere contenuto e limitato entro dei margini accettabili; in condizioni favorevoli, la società terrena dovrebbe ispirarsi al modello celeste, e divenire essa stessa un trampolino e una preparazione alla dimensione spirituale.
Questo vale, in primo luogo, per la società fondamentale, che è la famiglia: la famiglia vera, naturalmente (è triste che sia necessario specificarlo), quella formata da un uomo, una donna e dei figli; non quella sua abominevole caricatura che è la cosiddetta famiglia arcobaleno, formata da una copia di omosessuali e da dei figli procurati con miseri artifici. Una famiglia religiosamente ispirata, legata ai valori cristiani, permeata di amore fraterno, costituisce, di per sé, un ambiente quanto mai favorevole a sviluppare una buona cittadinanza per entrambe le dimensioni, quella di quaggiù e quella di lassù. Imparare ad amare e rispettare il padre e la madre, a collaborare con il prossimo, ad aiutare il bisognoso, a compatire l’infelice, a praticare la lealtà, l’onestà e l’amicizia, a lavorare in maniera coscienziosa, a perdonare le offese: tutte queste cose formano il buon cittadino e preparano anche le condizioni propizie alla vita eterna. Pertanto, in condizioni favorevoli, o, almeno, in condizioni normali (il che, purtroppo, non è il caso della civiltà moderna), non solo non vi è contrasto, ma si creano integrazione e collaborazione fra i due stati e le due cittadinanze.
Scriveva Silvio Pellico in una sua opera minore, Dei doveri degli uomini: discorso ad un giovane (Torino, Giuseppe Bocca, 1834; ripubblicata dall’Editrice Lucchi, in appendice a Le mie prigioni, Milano, 1966, capp. I, IX, pp. 219-220, 235):

All’idea del dovere l’uomo non può sottrarsi; ei non può non sentire l’importanza  di questa idea. Il dovere è attaccato inevitabilmente al nostro essere; ce n’avverte la coscienza fin da quando cominciamo appena ad avere uso di ragione; ce n’avverte più forte al crescere della ragione, e sempre più forte quanto più questa si svolge. Parimente tutto ciò ch’è FUORI DI NOI ce n’avverte, perché tutto si regge per una legge armonica ed eterna; tutto ha una destinazione collegata ad esprimere la sapienza e ad eseguire  la volontà di quell’Ente, che è causa e fine d’ogni cosa.
L’uomo pure ha una destinazione, una natura. Bisogna ch’ei sia ciò ch’ei debba essere, o non è stimato dagli altri, non è stimato da sé medesimo, non è felice. Sua natura è di aspirare alla felicità, ed intendere e provare che non può giungervi se non essendo buono; cioè ciò che dimanda il suo bene in accordo col bene altrui, in accordo col sistema dell’universo, colle mire di Dio.
Se nel tempo della passione siamo tentati di chiamare nostro bene ciò che s’oppone al bene altrui,  all’ordine, non possiamo però persuadercene; la coscienza grida di no. E cessata la passione, tutto ciò che s’oppone al bene altrui, all’ordine, mette sempre orrore.
L’adempimento del dovere è talmente necessario al nostro bene, che pure i dolori e la morte, che sembrano essere il più immediato nostro danno, si cangiano in voluttà per la mente dell’uomo generoso che patisce e muore coll’intenzione di giovare al prossimo o di conformarsi agli adorabili cenni dell’Onnipotente.
Essere l’uomo ciò che debb’essere, è dunque ad un tempo la definizione del DOVERE e quella della FELICITÀ. La religione esprime sublimemente questa verità, col dire ch’egli è fatto AD IMMAGINE DI DIO. Suo dovere e sua felicità sono d’essere quest’immagine., di non voler essere altra cosa, di voler essere buono perché Dio è buono, e gli ha dato per destinazione di innalzarsi a tutte le virtù e a diventare uno con Lui. […]
Per amare la patria con vero alto sentimento, dobbiamo cominciare dal darle noi medesimi tali cittadini, di cui non abbia ad arrossire, di cui abbia anzi ad onorarsi. Essere schernitori della religione e de’ buoni costumi, ed amare degnamente la patria, è cosa incompatibile, quanto sia incompatibile l’esser degno estimatore d’una donna amata, e non riputare che vi sia obbligo d’esserle fedele.
Se un uomo vilipende gli altari, la santità coniugale, la decenza, la probità e grida: “Patria! Patria!” non gli credere. Egli è un ipocrita del patriottismo, egli è un pessimo cittadino.
Non v’è buon patriotta, se non l’uomo virtuoso, l’uomo che sente ed ama tutti i suoi doveri, e si fa studio di seguirli.
Ei non si confonde mai né coll’adulatore dei potenti, né coll’odiatore maligno d’ogni autorità; essere servile ed essere irriverente sono pari eccesso.
S’egli è in impieghi di governo militari o civili, il suo scopo non è la ricchezza, ma sì l’onore e la prosperità del principe e del popolo.
S’egli è cittadino privato, l’onore e la prosperità del principe e del popolo sono egualmente suo vivissimo desiderio, e nulla che vi si opponga opera egli, ma anzi opera tutto ciò che può a fine di contribuirvi.
Ei sa che in tutte le società vi sono abusi, e brama che si vadano correggendo; ma aborre dal furore di chi vorrebbe correggerli con rapine e sanguinose  vendette; perocché di tutti gli abusi questi sono i più terribili e funesti.
Ei non invoca, né suscita dissensioni civili; egli è anzi coll’esempio e colle parole moderatore, per quanto può, degli esagerati, e fautore d’indulgenza e di pace. Non cessa d’essere agnello se non quando la patria in pericolo ha bisogno d’essere difesa. Allora diventa leone, combatte, e vince o muore.

Sono riflessioni profonde, sagge e di notevole, sconcertante attualità, a dispetto del fatto che siano state scritte quasi due secoli or sono. Il che la dice lunga sul valore di qualunque “progressismo” (oh, per carità, per quanto bene intenzionato, per quanto professato con autentico disinteresse: ma Hitler e Stalin, a loro modo, non erano forse “disinteressati” e “in buona fede”, quando facevano quel che facevano?): vorrà pur dire qualcosa se gli uomini, anche dopo cento e cento esperimenti, uno più sanguinoso dell’altro, uno più funesto, demagogico e feroce dell’altro, non son riusciti a individuare, non diremo la formula della felicità universale e del benessere per la maggioranza, ma neppure quella di un ordinato e tollerabile modus vivendis, sia all’interno di ciascuna delle umane società, sia nei rapporti internazionali fra i popoli e le nazioni.
Eccellente, poi, quella considerazione finale: in tutte le società esistono abusi: non vi sono società tutte solamente buone o tutte cattive; dal che possiamo dedurne che, oggi, la pretesa di attribuire alla democrazia virtù quasi miracolose, atte a garantire pace, sicurezza e benessere per tutti, ed a rovesciare sulle forme di governo diverse da essa ogni possibile infamia e ogni responsabilità nel minacciare la pace fra le nazioni (magari inventandola di sana pianta, come fu per le famigerate e inesistenti “armi di distruzione di massa” attribuite al governo irakeno di Saddam Hussein da quello statunitense di George Bush jr., allo scopo di giustificare una aggressione deliberata a freddo) è una mistificazione bella e buona, oltre che una solenne ipocrisia.
Tutto il ragionamento di Silvio Pellico, comunque, si può ridurre in tre punti essenziali, che ci apparirebbero di una semplicità e di una chiarezza addirittura disarmanti, se solo non fossimo abituati a considerare buone e intelligenti solamente le “verità” complicate, aggrovigliate, espresse in un linguaggio criptico, ermetico;
1)  Noi non staremo bene né con noi stessi, né con gli altri, né con la società in cui viviamo, se non ascolteremo la voce del dovere e non quella del piacere: perché noi siamo a chiamati ad essere, non quello che ci dà piacere, ma quel che dobbiamo diventare;
2)  Il dovere non è una legge esterna, minacciosa, nemica della nostra felicità; al contrario: il dovere ci indica la via della felicità, perché è felice colui che realizza ciò che è chiamato ad essere, e infelice colui che non vi riesce, o non ci prova neppure, o non si pone addirittura la questione;
3)  L’uomo è fatto a immagine di Dio: dunque, per realizzare se stesso, deve cercare e trovare Dio; e, trovatolo che l’abbia, non potrà non essere diventato anche un buon cittadino, un buon patriota, un buon marito, un buon lavoratore, un buon uomo; e se no, no, perché, senza Dio, resterà sempre un uomo mediocre, un mediocre lavoratore, un mediocre marito, eccetera, se non addirittura pessimo.
In altre parole: sia le cose esterne, sia la voce della coscienza, concorrono a ricordare all’uomo quale sia lo scopo, quale il significato, quale la meta della sua esistenza terrena: e cioè la beatitudine della vita eterna. Le cose di quaggiù, altro non sono che una preparazione a quella meta. Chi non ha saputo amare quaggiù, chi non ha saputo seguire la voce della coscienza, chi non ha saputo ascoltare il richiamo del dovere, avrà mancato il senso della sua intera esistenza, quand’anche vivesse mille anni e quand’anche collezionasse, esteriormente, successi  e trionfi d’ogni genere: sociale, politico, economico, sessuale… È meglio, dunque, aver fallito nel perseguimento delle mete materiali, ma aver compreso e realizzato, o tentato sinceramente di realizzare, la meta ultima, piuttosto che essere diventati dei perdenti di successo: di successo, secondo il giudizio del mondo; ma dei perdenti, al cospetto della vita soprannaturale.
Davanti a Dio non possiamo mentire. Possiamo mentire agli altri e, a certe condizioni, perfino a noi stessi; ma a Dio, no. Davanti a Lui, la nostra miseria è palese, anche se la nascondiamo e la imbellettiamo dietro pesanti cortine di finzione.
Il male è che noi non comprendiamo che il primo a soffrire del nostro fallimento esistenziale è proprio Lui: Lui, che ci ha creati a sua immagine e somiglianza, che ci ha dato il dono sommo della libertà, proprio perché lo utilizziamo per innalzarci fino al Bene, cioè fino a Lui. Il bene è il Bene in se stesso: dunque, non può non essere anche, e prima di tutto, il nostro bene. È una grande illusione, ed è un grande errore, pensare che vi sia conflitto fra ciò che noi riteniamo il nostro bene e ciò che reputiamo il nostro dovere. Pensiamo che essi, in ultima analisi, siano inconciliabili: e, ovviamente, quello che siamo più che disposti a sacrificare, fra i due, è il dovere. Pensiamo che il dovere sia una zavorra fastidiosa e in fondo inutile, e che, liberatici di essa, voleremo più leggeri verso il successo, verso la felicità. Ma il successo e la felicità, se intesi in senso grettamente, meschinamente umano, non sono realmente dei beni; anzi, non sono il Bene. Ed è solo questo che conta, per tutti: il Bene…


Abbiamo due patrie, due padri, due leggi: ma una sola è la meta

di Francesco Lamendola


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