ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 27 luglio 2016

Il vero problema è la nostra "civiltà"

Neanche un prete sgozzato in chiesa dagli islamisti risveglia politici e vescovi dal sonno della ragione
«Se non capite in tempo la minaccia, diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa vostra». La barbara uccisione di don Jacques Hamel mentre celebrava la messa nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, nella Normandia, conferma quanto aveva predetto giusto un anno fa l'arcivescovo di Mosul. Il vero problema è la nostra civiltà, ormai agonizzante e incapace di dare ragione della sua identità davanti al nemico che l’assale. E anche nella Chiesa in tanti pensano di affrontare problemi complessi con slogan e frasi fatte.

Come ogni mattina da quando, per ragioni di età, non era più parroco, don Jacques Hamel celebrava la messa feriale del mattino, alle 9, nella “sua” chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, parrocchia di 20mila anime della diocesi di Rouen, nel cuore della Normandia. Con lui, come ogni mattina, tre suore e altri due fedeli. Ma ieri qualcosa non è andato come le altre mattine: due giovani islamici armati di coltello hanno fatto irruzione durante la messa e hanno bloccato i presenti. Poi hanno costretto l’84enne don Jacques a mettersi in ginocchio.

E mentre si preparavano a sgozzarlo davanti a quell’altare dove si stava rinnovando il sacrificio di Cristo in croce, uno di loro ha preso il posto del prete e si è lanciato in un sermone in arabo, ha testimoniato suor Danielle, una delle religiose presenti riuscita a fuggire un attimo prima che i criminali infilassero il coltello nella gola di don Jacques. «È stato orribile», ha detto suor Danielle, e insieme al prete anche un altro fedele è stato colpito ed è in gravissime condizioni. La religiosa ha anche detto che i due, evidentemente fieri della loro azione, hanno ripreso tutta la scena, immagini che sicuramente ora sono nelle mani della polizia che ha ucciso i due non appena hanno messo la testa fuori dalla chiesa.
Come ormai per un riflesso, tutti i media hanno immediatamente detto che si trattava di due persone con disturbi mentali, ancor prima che si conoscessero le generalità, e il bello è che hanno continuato a scriverlo anche dopo che è stato reso noto che i due erano “soldati” dello Stato Islamico. In particolare uno dei due, un 19enne, era un foreign fighter fallito, ovvero aveva tentato l’anno scorso di entrare due volte in Siria per combattere ma era stato bloccato dagli agenti turchi e rimandato in Francia. Qui si è fatto un annetto di galera prima che un giudice gli concedesse i domiciliari malgrado il parere contrario della procura antiterrorismo parigina. Ed ecco i risultati. Davvero una gran bella dimostrazione di serietà da parte delle istituzioni francesi che – dopo la serie di attentati che stanno colpendo la Francia da oltre un anno – danno prova di una “leggerezza” a dir poco sconcertante. Tanto più che, si viene a sapere, Saint-Etienne-du-Rouvray è un noto covo di estremisti islamici, radunati attorno alla locale moschea.
Don Jacques è morto così, in odio alla fede, ma quel che è successo nella diocesi di Rouen è un chiaro salto di qualità del terrorismo islamico in Europa: i luoghi di culto sono diventati un obiettivo, uno scenario che in troppi pensavano fosse relegato al solo Medio Oriente. Ma ora, come ha giustamente notato un comunicato dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), il Medio Oriente è arrivato da noi, a conferma di una profezia che non più di un anno fa aveva fatto l’arcivescovo di Mosul, Amel Nona, in una intervista al Corriere della Sera.

Rileggiamo quelle parole: «Per favore, cercate di capirci. I vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla. Occorre che ripensiate alla nostra realtà in Medio Oriente perché state accogliendo nei vostri Paesi un numero sempre crescente di musulmani. Anche voi siete a rischio. Dovete prendere decisioni forti e coraggiose, a costo di contraddire i vostri princìpi. Voi pensate che gli uomini siano tutti uguali. Ma non è vero. L'islam non dice che gli uomini sono tutti uguali. I vostri valori non sono i loro valori. Se non lo capite in tempo, diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa vostra».
Parole chiarissime, e puntualmente confermate, ma che ancora sono ben lontane dall’essere comprese. Ancora dopo il terribile assassinio a Saint-Etienne-du-Rouvray, la preoccupazione maggiore di politici, ecclesiastici e intellettuali è quella di ripetere banalità e menzogne: “non è uno scontro di civiltà”, “i terroristi non sono l’islam”, “l’islam è una religione di pace”, e così via. E anche chi dice finalmente che «siamo in guerra», poi fatalmente dimentica di indicare quale sarebbe il nemico ed eventualmente come combatterlo.
Diciamola tutta: questo atteggiamento non è sorprendente da parte di leader mondiali che da 15 anni ci ripetono irresponsabilmente che i cambiamenti climatici sono una minaccia peggiore del terrorismo internazionale. E continuano a fare i vertici sul clima mentre gli scoppiano le bombe sotto al sedere. Non solo, da anni hanno come massima preoccupazione di promuovere i diritti gay e i matrimoni omosessuali, come potrebbero occuparsi di banalità come le migliaia e migliaia di islamici – cittadini o immigrati che siano – che non aspettano altro che il giorno in cui ci sottometteranno alla sharia? Pensiamo soltanto a casa nostra e confrontiamo le energie e risorse messe in campo da Renzi per far passare la legge sulle unioni civili con quelle dedicate alla sicurezza e alla lotta all’estremismo islamista: qualcuno ricorda un solo atto di governo significativo per mettere sotto controllo la minaccia terroristica?
E non è che dal punto di vista ecclesiale vada molto meglio: l’ecclesialmente corretto vuole che non si parli mai di islamici quando ci si riferisce ai terroristi, che l’islam sia sempre definita una religione di pace, che non si deve discriminare in fatto di immigrazione (anzi, se facciamo vedere che accogliamo i musulmani facciamo anche più bella figura). E quando accadono fatti come quello di ieri ecco che si parla genericamente di odio e violenza nel mondo a cui non bisogna cedere. 
Nessuno vuole vendetta né rispondere con l’odio a chi ci odia e, come dice l’arcivescovo di Rouen, dobbiamo anzitutto rispondere con la preghiera. Certo, la preghiera è la cosa più importante: preghiamo per l’anima di don Jacques, per i feriti (fisicamente e spiritualmente) nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, preghiamo per la conversione degli islamici, tutti gli islamici non solo i terroristi, e preghiamo anche per la pace nel mondo. Ma non è vero che possiamo solo pregare, se con questo si intende chiudersi in chiesa immaginando che Dio possa fare da solo quello che ha affidato a noi come compito, quasi fosse una magia. Così si lascia solo campo libero alla barbarie. La preghiera non è uno spiritualismo astratto; al contrario, è una comprensione più vera della realtà, ci dovrebbe donare la capacità di comprendere tutti i fattori in gioco e il coraggio di affermare e perseguire la verità. 
Se l’islam pone chiaramente una sfida, il vero problema che oggi abbiamo davanti è la nostra civiltà, ormai agonizzante e incapace di dare ragione della sua identità davanti al nemico che l’assale. Il vero problema è anche in una Chiesa che ormai si preoccupa principalmente di aggiustare le cose del mondo e non di annunciare Cristo come speranza e destino per ogni uomo. La grande lezione di Giovanni Paolo II sull’identità dell’Europa è ormai archiviata, così come il magistrale discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sulla sfida che accomuna Occidente e islam; per non parlare dei criteri sull’immigrazione suggeriti 15 anni fa dall’allora arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi che – se presi sul serio – ci avrebbero risparmiato i tanti problemi di cui oggi assaggiamo appena l’antipasto. Tutto inascoltato e dimenticato.

Adesso vanno di moda vescovi e opinionisti del “dialogo” e dell’accoglienza “senza se e senza ma”, che pensano di affrontare problemi complessi con slogan e frasi fatte. Ovviamente corteggiano gli islamici radicali e pensano di essere superiori perfino alle giuste norme di diritto internazionale che distinguono tra il diritto a migrare e il diritto all’invasione. Purtroppo, per questi neanche il sangue di don Jacques basterà a risvegliarli.  
di Riccardo Cascioli27-07-2016

- SONO AUSILIARI, NON MALATI MENTALI, di Stefano Fontana- "ACCADRA' ANCHE A VOI"di Andrea Zambrano

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I cattolici praticanti devono essere autorizzati a difendersi

di Camillo Langone | 27 Luglio 2016 

Un soldato francese a Rouen (foto LaPresse)
Che i cattolici praticanti (i cattolici non praticanti manco il diavolo se li piglia) siano riconosciuti dal ministero dell’Interno categoria a rischio e godano di una corsia preferenziale per il rilascio del porto d’armi. L’anno scorso chiesi il porto d’armi e in questura mi seppellirono di scartoffie e di richieste di requisiti: avendo anche altro da fare nella vita dovetti lasciar perdere.

Dopo Saint-Etienne-du-Rouvray, dopo che i maomettani coerenti ossia guerreschi hanno cominciato a insanguinare anche in Europa la celebrazione della messa, questo non deve più succedere: la minoranza perseguitata dei cattolici praticantidev’essere autorizzata a difendersi, magari con armi non letali come le Taser, le pistole elettriche. Perché Allah sarà pure grande, ma Ampère, Volta e Watt lo sono ancora di più.

Il gesto eroico di padre Jacques: "Non si è inginocchiato"

Dopo l'orrore nella chiesa di Rouen emergono nuovi dettagli sulla morte del prete 86enne sgozzato da due jihadisti: cosa ha fatto il prete


Dopo l'orrore nella chiesa di Rouen emergono nuovi dettagli sulla morte del prete 86enne sgozzato da due jihadisti.
A quanto pare il prete prima che venisse sgozzato ha cercato di difendere la sua chiesa. Non si è piegato al diktat dei due islamici e si è rifiutato di inginocchiarsi. Un gesto che di certo segna la drammaticità di quegli attimi. La consapevolezza di morire e il rifiuto di soccombere davanti ai due assassini. A raccontare il retroscena è stata suor Danielle che ha assistito alla scena senza che i due jihadisti si accorgerserro della sua presenza. “Sembravano invasati” ha raccontato suor Danielle. “Gridavano Daesh, Daesh o anche Allah Akbar”. “Volevano che Padre Jacques si inginocchiasse, giravano attorno all’altare facendo una specie di proclama islamico, in arabo. Tutti gridavano. “Fermatevi, non sapete cosa state facendo”. “E’ una follia”. Ma i due avevano i coltelli e minacciavano tutti”. Poi quella richiesta al prete: “Inginocchiati”, avrebbero detto al prete. “Padre Jacques non ha voluto inginocchiarsi, ha resistito e credo che tutto sia degenerato in quel momento”. Così uno dei due ha sgozzato il prete. “Tutti urlavano, i fedeli inorriditi e anche i due invasati. “Fermatevi, fermatevi”. Io ero vicina alla porta, nessuno mi guardava”. Padre Jaques si deve essere accasciato perché la suora racconta che “quello del coltello si era chinato per raccoglierlo. L’altro stava riprendendosi mentre pregava in arabo davanti all’altare. Una barbarie. Ed è stato allora che sono corsa fuori senza che nessuno se ne accorgesse”.
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/gesto-eroico-padre-jacques-non-si-inginocchiato-1289852.html

Papa Francesco condanna "ogni forma di odio". Ma (in pubblico) non nomina ancora l'Isis

Il dolore di Bergoglio per il prete sgozzato


Roma - «La condanna più radicale di ogni forma di odio e la preghiera per le persone colpite».
È stata questa la prima reazione pubblica di Papa Francesco e del Vaticano dopo l'attacco jihadista nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray in Normandia. Una condanna contro le violenze in cui non viene pronunciata la parola «Isis» o «Daesh» ma a cui Bergoglio è ormai abituato, avendola pronunciata sempre più spesso a seguito degli attentati terroristici che stanno sconvolgendo il mondo.
Dentro le stanze vaticane, i più vicini collaboratori di Francesco raccontano però di un Pontefice in partenza per Cracovia sempre più preoccupato e turbato, un Papa che nel 2014 diceva: «È bene tenere una porta aperta per il dialogo con l'Isis, anche se penso che sia impossibile» e che oggi invece non sembra trovare più parole per discutere della barbarie jihadista, rimanendo spesso in silenzio a riflettere o a pregare di fronte a discorsi in cui si parla del Califfato e sperando che la «Guerra mondiale a pezzi», di cui parla ormai da tempo, si vinca anche con l'appoggio dell'Islam moderato. Proprio per questo motivo, Francesco, ha riallacciato i rapporti con le massime autorità sunnite e dialoga da tempo con il governo sciita di Teheran, nella speranza che siano principalmente loro a combattere dall'interno, anche ideologicamente, la deriva fondamentalista.
«Se c'è una condanna banale da parte dell'islam moderato, anche senza impegno, allora è senza senso», commenta invece al Giornale il cardinale Velasio De Paolis, Presidente Emerito della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede: «Non c'è dialogo se una comunità non riesce a condannare nemmeno in modo evidente, palese, convinto, direi quasi universale, questi fatti ed episodi. Il Papa fa bene a intervenire e a condannare. Dovrebbero farlo però anche i musulmani cosiddetti moderati, dovrebbero associarsi senza tentennamenti alle parole di condanna».
Da quando si sono intensificati gli attacchi in Europa, Papa Francesco, in più di un'occasione privata, racconta chi gli sta accanto, ha definito i terroristi come «degli uomini che hanno perso la vera visione di Dio, accecati dal dio denaro e dall'odio». «Dei giovani - avrebbe detto durante una colazione a Santa Marta - che non hanno più degli ideali, plagiati da chissà quale mente criminale». Un Papa provato, che se in pubblico non punta il dito chiaramente contro il sedicente stato islamico, in privato, come Jorge Bergoglio, si dice addolorato ma allo stesso tempo «speranzoso che questi terroristi trovino la ragione e depongano le armi per abbracciare i fratelli». «Il dialogo - spiega il cardinale De Paolis - si dovrebbe sempre fare, altrimenti facciamo muro contro muro. Però non dev'essere motivo per dimenticare gli atti terroristici come questo. Purtroppo - conclude - spesso ci si dimentica di quanto è avvenuto e ci si appella al dialogo con l'Islam quasi per evadere il discorso. E le cose rimangono come prima».
http://www.ilgiornale.it/news/politica/papa-francesco-condanna-ogni-forma-odio-pubblico-non-nomina-1289761.html

Ora la linea morbida mette a disagio il mondo cattolico

I malumori per le posizioni delle gerarchie ecclesiali: "Ingenue e buoniste, serve verità"


La parola disagio stava già stretta prima. Figurarsi oggi dopo la mattanza in una chiesetta della Normandia. Una parte del mondo cattolico fatica a riconoscersi nelle perifrasi delle gerarchie, nel pastoralismo di tante prediche, nel buonismo spalmato sui massacri sempre più frequenti.
Il Vaticano gr
Non si tratta di iscriversi al partito degli anti Bergoglio, formuletta frusta e un po' semplicistica, e però diverse voci segnalano un malessere crescente dentro il corpo, vasto e trasversale, della Chiesa italiana che troppo spesso usa un linguaggio politicamente corretto, inadeguato davanti ai drammi della nostra epoca. «La Chiesa - punge Sandro Magister, storico vaticanista dell'Espresso e autore di un blog, Settimo cielo, molto seguito - ha il dovere della verità e invece continua a non chiamare le cose con il loro nome. Nessuno che ai piani alti della Cei metta il terrorismo in relazione con l'Islam. Si utilizzano giri di parole per non dire quel che il fedele vorrebbe sentire. Nessuno che alzi il velo della reticenza: il terrore non è figlio della povertà o della mancata integrazione. In Germania l'integrazione era andata avanti, ma è successo quel che è successo e invece tutti, anche i vescovi, se la cavano parlando di follia, di psichiatria, di emarginazione. La Chiesa - conclude Magister - dovrebbe tornare a Ratzinger e ai suoi ragionamenti sul rapporto fra cristianesimo e illuminismo. Benedetto sosteneva che il cristianesimo ha avuto benefici dall'incontro, pure aspro, con l' illuminismo mentre l'Islam questo confronto non l'ha neanche iniziato. Ma la lezione di Ratzinger è stata oscurata».
La requisitoria di Magister coincide per molti aspetti con quella di Riccardo Cascioli, direttore del foglio on-line La Nuova bussola quotidiana e del mensile Il timone, punti di riferimento per molti laici inquieti e disorientati. «Qui si fanno grandi teorie sull'accoglienza senza distinguere - spiega Cascioli - non si è capito che siamo in guerra, non si è compreso che il Medio Oriente è arrivato qui da noi. Ho appena letto un discorso di monsignor Galantino, voce unica dei vescovi italiani, che dice di non capire chi prega e poi frena sulla politica delle porte aperte a tutti. Ma no, sono io che non capisco lui, come si fa a non misurarsi con quello che sta accadendo?».
Cascioli va all'attacco: «Siamo davanti a una Chiesa ingenua e buonista che ha tradito il realismo cristiano. Ci si balocca con slogan vuoti, si dialoga con l'Islam presunto moderato che pure è una finzione e così si accreditano i fanatici dell'ideologia travestiti da agnelli. E non si distingue fra profugo, rifugiato, immigrato, clandestino perdendo concetti preziosi che sono nel diritto internazionale». Dunque, niente dubbi: «La melassa dei buoni sentimenti non aiuta a capire la complessità delle sfide che dobbiamo fronteggiare e nello stesso tempo annacqua pericolosamente la profondità del messaggio cristiano».
Siamo all'origine, secondo i critici, della malattia. «Guardi - riprende Cascioli - la diagnosi l'aveva già fatta il cardinal Biffi quando diceva che o l'Europa ritrova il suo spirito cristiano, le sue radici, oppure verrà spazzata via dall'Islam. Sarà un'immagine forte ma ora, dopo quello che è successo in Francia, è ancora più vera». E di immagine in immagine, anche il polemista cattolico finisce per recuperare il magistero di Ratzinger e del Benedetto più urticante, quello di Ratisbona: «Il Papa sosteneva che l'Occidente ha come suo
pilastro la ragione ma dimentica la fede, l'Islam al contrario privilegia la fede ma mette in un angolo la ragione. È un discorso scomodissimo ma non per questo meno attuale».
Un tema variegato, con molte suggestioni. L' ultimo tratto lo accenna Stefano Fontana, direttore dell'Osservatorio internazionale cardinale Van Thuan: «La dottrina sociale della Chiesa ci dice che le nazioni hanno il diritto a non perdere la loro identità. E invece dopo Giovanni Paolo II in questa sottolineatura è andata persa in un universalismo zuccheroso e incolore». E il gregge è sempre più confuso.



Hollande sul poto in Normandia
di Luciano Lago
Di fronte al susseguirsi  degli avvenimenti  in Europa, con attacchi terroristici  che vengono attuati contro obiettivi differenziati, in Francia (Parigi e Nizza) come in Germania ed in Belgio,  da ultimo con un attacco contro una Chiesa Cattolica in Normandia,  si palesa sempre con maggiore evidenza il punto di svolta del terrorismo islamista, di radice wahabita e salafita,  che, dopo il Medio Oriente,  si rivolge a colpire l’Europa.L’avevamo peraltro previsto, vedi: Parigi è stata una prova generale
A questo punto soltanto gli ottusi, gli imbecilli o i tanti poveri diavoli inebetiti dalla propaganda mediatica,  possono pensare che non ci sia una regia dietro questi avvenimenti  con l’intento della creazione di una psicosi del terrore conforme all’ instaurazione di uno stato di emergenza continuato.
L’ondata di attentati e’ collegata al fenomeno dell’immigrazione di massa e della crisi dei rifugiati, con  la presenza ed il coinvolgimento di immigrati di ultima come di precedente immigrazione, tutti arruolati o emulatori dell’ISIS, un fatto che dimostra fra l’altro il fallimento delle teorie della “società multiculturale” predicata  come una sorta di Eden dai mondialisti.
Quanto alle origini dei gruppi terroristi, abbiamo  più’ volte documentato su questo sito quale sia stata l’origine di questo (l’ISIS) e degli altri gruppi terroristici  sviluppatisi in Medio Oriente, cosi’ come sosteniamo da tempo che l’immigrazione  è’ un fenomeno  che ha delle cause precise e che viene sospinto da alcune centrali di potere dominanti. Vedi: L’utilizzo delle migrazioni di massa come arma geopolitica
Vari commentatori hanno rilevato che l’attuale crisi dei rifugiati  risulta ampiamente fuori controllo in Europa : la crisi migratoria e’destinata a  disarticolare gli equilibri sociali di alcuni paesi europei ed a minarne l’identita’ culturale. Questo non è’ casuale ma è’ un obiettivo previsto dalle stesse centrali che sono responsabili della destabilizzazione dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa da cui provengono le masse di profughi.
Alla luce di quanto sta accadendo possiamo rilevare che i peggiori nemici della civiltà europea sono le elite al potere a Washington, a Londra e Bruxelles” –
Fin dal 2007 l’Elite al potere a Washington è stata occupata nella scientifica pianificazione per il rovesciamento e la distruzione dei regimi politici istituiti in tutta la regione del Medio Oriente e Nord Africa (MENA), aggiungendo che i rifugiati indigenti che oggi si riversano sulle coste europee sono diventati “pedine di guerra” nella strategia di Washington.
Queste centrali di potere, con interessi particolari economici e geopolitici,  hanno intenzionalmente creato il caos in tutta la regione del MENA, ben sapendo quale catastrofe sarebbe accaduta, non solo per l’Africa e il Medio Oriente, ma per l’Europa e l’Eurasia.
Secondo  le ammissioni fatte da vari esponenti dell’establishment di Washington, come risulta anche dai documenti dei think tank vicini ai circoli di potere di Washington,  i politici americani erano a conoscenza di tutte le conseguenze e hanno pianificato l’inevitabile afflusso di rifugiati in Europa.
Sarebbe difficile credere che una qualsiasi nazione che provoca intenzionalmente conflitti in altri paesi , come fatto dagli Stati Uniti, non abbia  previsto  la crisi di massa dei rifugiati che ne deriva in conseguenza.
La cosa più probabile è che i politici americani sapevano e hanno previsto l’inevitabile afflusso di rifugiati, essenzialmente come sistema d’arma ibrida, tentando di manipolare la percezione del pubblico e provocare nel lungo termine un supporto per l’intervento militare diretto più in Siria contro il governo di Damasco ed altre nazioni come l’Iraq, il Libano e l’Iran.
Attualmente è subentrata la fase degli attacchi terroristici a sciame che sono destinati a portare insicurezza, ansia, psicosi nell’opione pubblica occidentale con un inevitabile risvolto di legislazione eccezionale, limitazione dei diritti di circolazione, di movimento e di opposizione alle politiche governative. La Francia ci ha insegnato che, nonostante massicce proteste  di massa, Hollande ha approfittato del clima di emergenza per far passare la sua legge del Jobs Act alla francese che aveva contro tutta l’opinione pubblica.  In Germania non è escluso che la Merkel faccia qualche cosa di simile appellandosi alle leggi eccezionali.
Naturalmente passa in secondo ordine e neanche viene affrontata sui media la questione essenziale: chi sono i mandanti e gli ispiratori del terrorismo? Da dove proviene l’ideologia wahabita e salafita a cui si ispirano terroristi, integralisti ed emulatori dei tagliatori di teste dell’ISIS? Alcuni lo sanno ma non si vuole dire:Arabia Saudita e monarchie petrolifere, strette alleate degli USA e dell’Occidente. Guai a parlarne perchè emergerebbero tutte le complità , gli intrecci e gli affari dei politici europei intrattenuti con i monarchi sauditi.





Hollande con i sauditi
Hollande con i sauditi

Le monarchie  saudite  sono la versione statale dello Stato Islamico, all’interno di quelle società sono in vigore le stesse norme che vengono adottate nei territori conquistati dall’ISIS: taglio della testa per gli eretici ed i dissidenti, e lapidazione per le donne adultere, repressione di ogni dissenso. Monarchie ereditarie ed assolutiste fra le più tiranniche del mondo, risultano grandi alleati e finanziatori della UE e degli USA, quei paesi che si atteggiano a protettori dei “diritti umani” e che si ergono a giudici per gli altri paesi.
Si sa che il Business con  paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa (primo importatore modiale di armi) è enorme e non si vuole e non si può interrompere: “business is usual”.
http://www.controinformazione.info/la-svolta-dellattacco-terroristico-alleuropa/#

L'islam usa la spada non la ragione. Così Ratzinger ci aveva avvertiti

La lectio magistralis tenuta dall'allora Pontefice nel 2006 aveva squarciato il velo sulla vera natura del Corano Benedetto XVI fu accusato dalla stampa di islamofobia, ma dieci anni dopo le sue parole appaiono profetiche


Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis «Fede, ragione e università - Ricordi e riflessioni». L'orazione è stata tenuta da papa Benedetto XVI il 12 settembre 2006 all'università di Regensburg (Ratisbona) durante il suo viaggio apostolico in Baviera. Un discorso profetico nel quale il Pontefice toccava i temi del rapporto tra il cristianesimo e l'islam, parlando anche di jihad. Citando un teologo e la sua analisi di un dialogo tra un dignitario persiano e l'imperatore bizantino del XII-XIII secolo, si parla dell'«irrazionalità» della guerra di religione propugnata da Maometto. La lezione provocò molto clamore e scatenò dure polemiche nei confronti di Ratzinger, ma aprì uno squarcio sulla natura dei rapporti tra le due religioni e sulla vera essenza del Corano.


Un documento che risulta ancora più attuale ed efficace.
Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell'Università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era nel 1959 ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari.
(...)
L'Università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del «tutto» dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra Università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva. Di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'Università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le «tre Leggi»: Antico Testamento, Nuovo Testamento e Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento piuttosto marginale nella struttura del dialogo che, nel contesto del tema «fede e ragione», mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (controversia) edito dal professor Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihad (guerra santa). Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2,256 si legge: «Nessuna costrizione nelle cose di fede». È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il «Libro» e gli «increduli», egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». L'imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. «Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione (logos) è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte».
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. Theodore Khoury commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.
Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: «In principio era il verbo», ovvero il logos. È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola: una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di San Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (cfr At 16,6-10), questa visione può essere interpretata come una «condensazione» della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo.
(...)
Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento - la «Settanta», realizzata in Alessandria - è più di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: non agire «con il logos» è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore «sorpassa» la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-logos, per cui il culto cristiano è logike latreia, un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo: una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.
La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali della Riforma del XVI secolo. (...) Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il «sola Scriptura» invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. (...)Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'Università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'Università. In sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle «critiche» di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali.
(...)
Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina «scientifica», del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del «da dove» e del «verso dove», gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla «scienza» e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la «coscienza» soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo constatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione, patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell'incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco, un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell'Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l'opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell'illuminismo, rigettando le convinzioni dell'età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all'uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L'ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l'intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'Universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare, alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: «Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno». L'Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza: è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica entra nella disputa del tempo presente. «Non agire secondo ragione (con il logos) è contrario alla natura di Dio», ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'Università.
Regensburg, 12 settembre 2006

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