ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 2 luglio 2016

Nella palude della auto-dissoluzione

VOI SIETE IL SALE DELLA TERRA


    Oggi nella Chiesa si vedono piccoli uomini gonfiarsi con grandi discorsi e ci si chiede perplessi: Ma Dio dov’è, in tutto questo? Dov’è il Vangelo? Dove sono la preghiera l’unione mistica con Dio la fervida vita spirituale?
 di Francesco Lamendola  

La minestra, e ancor più la pastasciutta, sono dei piatti gradevoli, purché debitamente saporiti: se non c’è sale per insaporirli, diventano immangiabili. C’è qualcuno che mangerebbe la pastasciutta perfino tutti i giorni, anche senza sugo, solo con l’olio: però nemmeno costui, per quanto di gusti semplici, per quanto di facile contentatura, ce la farebbe a mangiare la pastasciutta completante senza sale: neppure una volta sola. Priva di sale, la pastasciutta diventa una sbobba indecente, che non si darebbe neanche a un cane; e così la minestra, senza un po’ di sale, fosse pur fatta con le migliori verdure, risulterebbe indigesta; per non dire della carne.

Dunque: niente sale, e il cibo perde tutto il suo sapore; perfino il cuoco più abile rinuncerebbe a preparare un pasto, in tali condizioni. Eppure, il sale non è che un po’ di cloruro di sodio; in quantità, in volume, in peso, rappresenta una percentuale infinitesima del piatto in cui è messo. Neanche una bilancia di precisione registrerebbe la differenza di peso tra un piatto di pastasciutta con il sale, e senza il sale; e nemmeno l’occhio più esperto riuscirebbe a vedere e a distinguere la pastasciutta in cui è già stato messo il sale, durante la cottura nella pentola, da quella messa nel piatto, ma che non ha il sale, perché il cuoco si è dimenticato di scioglierlo nell’acqua.
Non è il solo caso in cui la differenza decisiva fra due cose, l’una ben riuscita, gradevole, perfetta, ed una mal riuscita, sgradevole e imperfetta, risiede in  una differenza di ingredienti che, dal punto di vista quantitativo, e anche visivo, è praticamente impercettibile. Una porzione di pasta di 250 grammi, non sale a 300 dopo che è stata salata, e nemmeno a 260 o 265, la differenza è questione di una quantità infinitesimale. Però, da quella quantità infinitesimale, dipende tutto. Essa fa la differenza tra un ottimo piatto da mangiare, e un piatto immangiabile, disgustoso. È una cosa che fa riflettere: una spruzzatina di sale e cambia tutto; se il sale manca, o ci si dimentica di metterlo a sciogliere nell’acqua, non resta che prendere la pasta e buttarla nel secchio.
Una riflessione molto simile si può fare a proposito della società. La società è fatta innanzitutto di esseri umani, legati da un patto di qualche tipo; poi, da molte altre cose, servizi, istituzioni, leggi, eccetera: ma ognuna di queste cose è stata fatta dagli uomini, e, prima ancora, pensata da loro: a loro tocca di organizzarla, perfezionarla, ricostituirla di volta in volta, secondo le necessità. In ogni caso, l’elemento centrale e insostituibile resta pur sempre quello umano: la quantità e l’eccellenza delle macchine di cui essa, eventualmente, dispone, rimane un fattore secondario, non rispetto al suo funzionamento, ma rispetto alla sua caratteristica essenziale, quella di essere una società umana. Infatti, per funzionare a dovere, una società ha bisogno di un elemento quasi impalpabile e certamente invisibile, che non è dato dalle macchine, o dalle riserve auree, o dalle banche, ma è un certo tipo umano, o meglio, è dato da certe caratteristiche concentrate in un certo tipo umano. Per funzionare, una società ha bisogno di una percentuale di esseri umani che non si limitino a vivere in essa, sfruttando ciò che essa ha da offrire ai suoi membri e prestandole, in cambio, una certa quantità di lavoro materiale; ma che facciano di tutta la loro vita un progetto e una offerta di edificazione a lungo termine, non in termini materiali, ma spirituali.
Una società non potrebbe esistere senza questa componente umana di tipo qualitativo: un certo numero d’individui, uomini e donne, i quali non vivono solamente per se stessi, o per la propria famiglia; i quali non si preoccupano solo di sé e di poche altre persone, i loro amici e parenti; i quali non pensano solo al bene del loro ufficio, della loro azienda, del loro quartiere, del loro ambito lavorativo, del loro partito, ma sono ugualmente interessati a tutti indistintamente i membri della società, al loro benessere interiore, e ciò in maniera gratuita, senza secondi fini, ma solo per amore del prossimo, chiunque egli sia. In effetti, secondo le normali categorie umane, riesce difficile perfino immaginarsi un simile tipo umano; figuriamoci una certa percentuale di tipi umani siffatti, i quali si prendano a cuore il bene spirituale dell’intera società. Dove trovare un tale disinteresse, un tale spirito di abnegazione? Secondo le logiche del mondo, cioè è quasi assurdo: ciascuno lavora per se stesso, si preoccupa per se stesso, per i suoi legittimi interessi, per i suoi diritti, e per quelli dei suoi intimi. Nessuno lavora per coloro che non conosce, compresi i propri nemici.
Eppure, una società formata esclusivamente da individui preoccupati soltanto di se stessi e dei loro cari, per quanto laboriosi, per quanto onesti, per quanto rispettabili, non funziona, né mai potrebbe funzionare. Sarebbe sottoposta a un graduale processo di logoramento e finirebbe per disgregarsi, per dissolversi, piombando nel caos e affondando nel disordine, forse anche sanguinoso. Ed è precisamente quel che sta accadendo oggi: la nostra società può vantare un numero assai più alto di laureati, rispetto al passato; può disporre di un benessere assai maggiore; e la speranza di vita dei suoi membri è di gran lunga superiore; ciò nonostante, essa sta sprofondando nella palude della auto-dissoluzione, ha smesso di funzionare, o meglio, funziona solo dal punto di vista produttivo ed efficientistico, funziona come una macchina senz’anima, ma le persone, in essa, vivono una crisi d’angoscia e di perdita di senso quale non si era mai vista in precedenza, tranne nei momenti più cupi della storia. Quelli, appunto  nei quali le società si dissolvono.
Per tenere unita una società, per darle coesione, per conferirle vivibilità, è necessario che qualcuno, al suo interno, pensi amorevolmente al bene di tutti, ma non nell’ambito della politica, o dell’economia, o della cultura, bensì proprio nell’ambito più essenziale che attenga alla dimensione umana: quello spirituale. Se non vi sono uomini e donne spirituali, i quali non ragionano secondo il mondo, cioè esclusivamente in termini di convenienza, ma secondo il precetto dell’amore disinteressato, qualsiasi società, per quanto evoluta e benestante, è destinata alla rovina. Ce ne accorgiamo oggi, eppure stentiamo a trarne le logiche conclusioni: che abbiamo trascurato di alimentare quella sorgente misteriosa, da cui scaturiscono le vocazioni alla vita spirituale. Senza di esse, la società regredisce a quel che era decine di migliaia di anni fa: una foresta di belve, le quali si spiano l’un l’altra per cogliere le debolezze altrui, e approfittarne.
Gli uomini e le donne spirituali sono il sale della terra e la luce del mondo, per usare l’espressione evangelica. Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il suo sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad esser gettato via e calpestato dagli uomini. Queste parole (Matteo, 5, 13) Gesù le rivolse non solo ai suoi discepoli in senso stretto, ma a tutta la vasta folla che era venuta ad ascoltarlo, e alla quale aveva rivolto il suo discorso più famoso e importante, il cosiddetto Sermone della montagna, vera e propria summa di tutto il Vangelo.
Per secoli e secoli, le famiglie nelle quali fioriva una tale vocazione gioivano e si congratulavano con se stesse, anzi, pregavano perché ciò avvenisse; e si sottoponevano a duri sacrifici materiali perché un loro figlio o una loro figlia potessero  realizzarla. I genitori ne andavano orgogliosi: e c’erano famiglie contadine, assai numerose, che offrivano alla vita spirituale tre, quattro, cinque dei propri figli, sottraendoli al lavoro dei campi. Grazie al sale rappresentato da questo tipo di persone, la società acquistava il suo sapore: e bastava una percentuale modestissima, bastava un cinque, un tre, un uno per cento di tali vocazioni, nel complesso della popolazione, per fare sì che la società non perdesse il suo sapore, continuasse ad essere un corpo vivo, animato da una profonda tensione morale, in luogo di un corpo morto, cadaverico, animato solo dalle logiche egoistiche dell’interesse, per quanto rispettabili, se considerate una per una.
Quindi, quelle persone non erano considerate alla stregua di “disertori” della vita; al contrario: erano considerate il sale della terra. La loro presenza era apprezzata: la società sentiva d’aver bisogno di esse; sentiva che, senza di loro, le cose non avrebbero funzionato. La società odierna ha mutato atteggiamento, e pensa di poter fare benissimo a meno di quelle vocazioni, di quelle presenze: le considera alla stregua di una stranezza, una eccentricità; e, in fondo, le compatisce o le deride, perché le paiono un anacronismo, una sopravvivenza di antichi modi di pensare e di sentire, ormai privi di alcuna ragion d’essere. Inoltre, le società moderne vanno fiere del loro laicismo: ciò significa che delle persone dichiaratamente religiose le risultano poco gradite. Sono degli intralci fra le ruote del loro buon funzionamento. I valori ai quali si ispirano sono stati rigettati con forza: per fare solo un esempio, quelle persone tengono vivo il principio della santità della vita, quindi condannano la pratica dell’aborto; e ciò incoraggia una certa percentuale di medici e infermieri a dichiarare l’obiezione di coscienza, il che intralcia il “buon” funzionamento della sanità pubblica. E si potrebbero fare altri cento esempi, non meno significativi.
D’altra pare, la società moderna non è afflitta solo dalla mancanza di vocazioni alla vita spirituale; è afflitta anche da un altro problema: e cioè dal fatto che quelle vocazioni, oggi, oltre ad essere insufficienti (se il sale è tropo poco, non si percepisce il sapore della pietanza), sono anche, non di rado, mal coltivate dalle strutture e dalla cultura, le quali dovrebbero orientarle, sostenerle, accompagnarle. I seminari, per parlarci chiaro, e i conventi, stanno perdendo, in molti casi, il loro carattere genuino. Vi si insegnano molte cose, ma sempre meno la cosa essenziale: la preghiera, l’unione mistica con Dio. Il futuro prete, il futuro religioso e la futura religiosa rischiano di formarsi l’idea che basti amare il prossimo, così, genericamente, e tutto andrà bene; oppure che sia necessario aver letto e digerito libri di psicologia, di economia, di politica, di critica sociale, ma che le Sacre Scritture siano ormai “superate”, o che vadano lette in senso puramente simbolico. Miracoli, risurrezione dai morti, giudizio finale, cieli nuovi e terra nuova: tutto questo viene percepito come un residuo di mentalità mitica, viene interpretato in senso allegorico.
In questo modo, l’anima chiamata alla vocazione spirituale diventa insipida, perde il suo sapore: parla di mille cose e si affaccenda in mille altre, ma smarrisce l’essenziale: la preghiera e l’unione mistica con Dio, che le permettono di essere d’esempio, di fornire il modello della vita perfetta. E, senza di questo, la società non riceve alcun beneficio dalla presenza delle persone consacrate, perché le vede parlare, pensare ed agire proprio come qualsiasi altra persona, che è immersa nello spirito del mondo e ragiona come ragionano le persone del mondo. Non sente il soffio dell’infinito, non sente la presenza ineffabile di Dio. Già da come si presentano: pare che abbiamo paura di mostrarsi quali sono in realtà, persone chiamate da Dio; infatti si vestono come tutti gli altri, quasi volessero mimetizzarsi, passare inosservate. E ciò è profondamente sbagliato.
Ecco cosa diceva Pio XI nella enciclica Ad Catholici sacerdotii, del 20 dicembre 1935; sono passati ottant’anni, ma sembrano più che mai parole scritte per i nostri giorni (§ 225-6):
Chi non si preoccupa di imporre con l’esempio della sua vita la verità che va predicando, distrugge con una mano quello che edifica con l’altra. E invece Do benedice largamente le fatiche di quei predicatori del Vangelo, che prima di tutto e con serietà attendono alla propria santificazione. Essi vedono sbocciare i fori irrorati dal loro sudore e maturare frutti copiosi. Nel giorno della messe “torneranno cin gioia portando i loro covoni” (Salmo 125, 6). Sarebbe un errore gravissimo e pericolosissimo se il sacerdote si lasciasse trascinare da un falso zelo e si immergesse talmente nelle opere esteriori, anche buone, del suo ministero, da trascurare la propria santificazione.  Con ciò metterebbe in pericolo la sua salvezza eterna, come temeva di se stesso San Paolo: “Castigo il mio  lo rendo schiavo, perché non abbia a capitarmi di diventare reprobo, dopo aver predicato agli altri” (1 Corinzi, 9, 27). E si esporrebbe anche a perdere, se non la grazia divina, certamente quella unzione dello Spirito Santo, che imprime una straordinaria efficacia all’apostolato esterno.
Sono parole chiare e concetti che dovrebbero risultare d’immediata comprensione; eppure ci si è allontanati da essi, e il cattivo esempio è partito dall’alto: dai pastori del gregge. Oggi vi sono troppi vescovi che parlano fin troppo volentieri con la stampa e la televisione, rilasciano interviste, fanno continue dichiarazioni: sostengono che la Chiesa dovrebbe scusarsi con gli omosessuali, impegnarsi di più per la giustizia sociale, mostrarsi indulgente e comprensiva con i divorziati, abolire il celibato ecclesiastico e ordinare anche le donne al sacerdozio; però nelle loro parole, e, molto più, nella loro vita, non si vede il modello della santità cristiana, non si respira il soffio dell’infinito. Si vedono piccoli uomini gonfiarsi con grandi discorsi e ci si chiede, perplessi: Ma Dio dov’è, in tutto questo? Dov’è il Vangelo? Dove sono la preghiera, l’unione mistica con Dio, la fervida vita spirituale…?
Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?
di Francesco Lamendola

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