ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 14 giugno 2017

Eccolo di nuovo..: brutto, sporco e cattivo!

Enzo bianchi e la liturigia, storia di una stereotipata (e noiosa) visione modernista

Fratel Enzo Bianchi
Ci risiamo! Ancora una volta ci dobbiamo sorbettare l’ennesimo pistolotto pseudo-teologico del sig. Bianchi sulla liturgia, conferma di sua visione superficiale e stereotipata, lontana, non solo dalla realtà, ma dal senso stesso che la liturgia ha per la Tradizione cattolica.  È dalle pagine di Avvenire, con uno articolo del 1 giugno, che Bianchi si è cimentato in una analisi nella quale si fa la distinzione, ormai diventata un cavallo di battaglia per i cattolici modernisti, di una chiesa (e conseguentemente una liturgia) brutta, sporca e cattiva pre-Vaticano II e una buona, cosciente e purificata post-Vaticano II. Peccato che quasi tutti i fatti teologici e pastorali degli ultimi cinquant’anni gli diano pesantemente torto. Non solo e non tanto perché le chiese locali, seguendo le scellerate visioni pastorali avanguardiste, si sono svuotate portando tante persone lontane dai sacramenti, primo fra tutti quello dell’ordine sacro, ma soprattutto per l’ostinata convinzione che questa rivoluzione debba essere portata ancora avanti, senza aver la minima idea di dove essa debba realmente condurre. Ma veniamo alle parole dell’onnipresente Bianchi.
Questa volta (ma non è la prima) si parla di architettura sacra, o meglio, dell’evoluzione necessaria che le chiese subiscono per meglio adattarsi allo spirito del tempo. Secondo Bianchi negli “ultimi decenni si è riflettuto poco sul fatto che la Chiesa, popolo in cammino, è una realtà in continua trasformazione” e che la fede che anima i credenti muta nel tempo specialmente nella nostra società secolarizzata. Fin qui non avrei quasi nulla da obiettare, fermo restando che la nostra fede, quella in Gesù Cristo è una, espressa nel Credo e vissuta come un corpo unico da duemila anni. Per Bianchi invece la fede sembra essere una questione talmente relativa da mutare in continuazione, anno dopo anno, e radicalmente differente da quella che precedeva, guarda caso, gli anni ’60. Da qui inizia un parallelismo fra la “grande rivoluzione degli anni ‘60” e il mutamento architettonico delle chiese contemporanee. È qui che il sig. Bianchi da il meglio di sé! Rispolvera il noioso arsenale modernista per cui prima della rivoluzione liturgica vi era una chiesa nella quale tutto era ingessato, con credenti paragonabili a mummie che invece di partecipare alla Messa erano “costretti”, in quanto non consapevoli, a recitare il Santo Rosario o a cantare inni a Maria. “Essi [i fedeli laici] non erano attori della liturgia ma, impegnati in pratiche devozionali, tra cui eccelleva il rosario, “assistevano alla messa”. Non rispondevano agli inviti del presbitero, compito riservato ai chierichetti. Durante la settimana la navata era quasi vuota e in essa comparivano solo due o tre suore e i parenti del morto per il quale si “diceva messa”. La domenica, invece, la navata era colma ma passiva, silente, eccetto che per qualche canto popolare, soprattutto di devozione mariana”. Non c’è tentennamento né eccezione, per Bianchi i fedeli pre-Vaticano II erano tutti distanti, “passivi”, o addirittura talmente timorosi da non entrare in chiesa per sostare in un apposito spazio fuori dalla chiesa stessa. Intendiamoci, quello che racconta Bianchi è, seppur superficiale, in parte vero. Sembra però che Enzo Bianchi presuntuosamente (ma quale catto-modernista in fondo non lo è!) voglia mettere sotto giudizio addirittura la fede di milioni di persone vissute prima del Vaticano II, come se la liturgia per esse non rappresentasse altro che uno sterile obbligo privo di quell’azione sacramentale che incide nelle corde più profonde dell’animo umano. Un popolo muto, immobile (non “in cammino” come quello post-conciliare) che non sa dare ragione della sua fede. E oggi? Oggi i fedeli “non assistono più alla messa ma vi partecipano, in qualità di assemblea più consapevole, coinvolta nella liturgia, celebrante. Sì, oggi la navata dà un segno del popolo di Dio, indica un’assemblea che è resa corpo del Signore e perciò nel suo cammino pellegrinante verso il Regno celebra, invoca, canta, rende grazie”. Capito? Oggi l’assemblea dà un segno del popolo divino, non come un tempo, e tutto grazie ai catto-modernisti che hanno compiuto la grande rivoluzione. Oggi all’ingresso delle chiese non si trovano più “cristiani della soglia che non osavano assistere a una messa né tanto meno comunicarsi”, ma tante persone “in ricerca, che osservano e si chiedono se mai possano fare parte di quell’assemblea, se ciò che vi si celebra è per loro significativo ed eloquente”. “E così soglia e atrio – prosegue Bianchi nel suo romantico sermone – sono oggi abitati più di ieri: in ogni caso, esprimono bene la situazione di gente che si dice cristiana, ma non partecipa alla vita della comunità, non partecipa ogni domenica alla liturgia, ma vive nel cuore sentimenti cristiani, legge il Vangelo, frequenta talvolta luoghi come le comunità monastiche, prende parte a eventi religiosi…”. Quindi ricapitoliamo; prima del Vaticano II (dagli apostoli in avanti??) abbiamo solo fedeli freddi e distaccati, che non vivono la fede se non come una tradizione mista e devozionismo,  per i quali non c’è ricerca, ne crescita, ma solo immobilismo e rubricismo. Mentre nel post-Concilio tutta la musica cambia, fedeli laici sono presenti, partecipi, un popolo che canta e rende grazia, che legge il Vangelo anche se non è praticamente, che si fa domande, dove non esistono più atei e tutti sono un po’ più felici.
Non so quali chiese e parrocchie frequenti il sig. Bianchi, sicuramente non le stesse che ha frequentato Benedetto XVI che nella sua lunga carriera di Prefetto della Dottrina della Fede prima e di Pontefice poi, ha parlato di liturgia post-Vaticano II con ben altri termini. In “Rapporto sulla fede”, libro-interista scritto da Vittorio Messori, Ratzinger definisce certa la liturgia post-conciliare, “opaca e noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da mettere i brividi…”. Nella sua autobiografia ricorda come la riforma liturgica post-conciliare ha preso subito le fattezze di una e vera e propria “rivoluzione” nella quale “si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico […] Non c’è alcun dubbio che questo nuovo Messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi”. D’altronde, divenuto Papa, ha più volte affermato come la vera crisi della fede del terzo millennio sta in rapporto di assoluta dipendenza con la crisi della liturgia: “Sono convinto – scrive Ratzinger – che la crisi della Chiesa che stiamo vivendo oggi, sia da riporre in gran parte sulla base della disintegrazione della liturgia”. Consiglierei, dunque, al sig. Bianchi di andarsi a rileggere un bellissimo libro di un Ratzinger che scrisse nel 2001, “Introduzione allo Spirito della Liturgia” dove già paventava il suo programma di “Riforma della Riforma liturgica”, combattendo proprio quel relativismo e quella ermeneutica della discontinuità tanto cara al “frate” di Bose.
Matteo Carletti13 giugno 2017

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