ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 23 agosto 2017

Per non dispiacere a Dio...


QUANDO STRAPPARE LA ZIZZANIA      
  
Quando strappare la zizzania dal campo di grano? Monsignor Scognamiglio è un cattolico dalla spiritualità profonda, e, come tutti i santi, quando si parla di separare la zizzania dal grano, pensa subito a se stesso 
di Francesco Lamendola  


Con la parabola della zizzania Gesù ci fa capire che il buon agricoltore non ha fretta di strappare le erbacce dal suo campo, e lo stesso concetto viene espresso nella parabola del fico sterile, molto simile ad essa: la virtù principale del cristiano, insieme alla carità, è la pazienza: il cristiano è un uomo che sa aspettare, non è precipitoso nel giudicare, perché ha fede nella Provvidenza. Questa è la fede nella presenza amorevole di Dio Padre in tutta la sua creazione, in ogni istante, anche per le creature più piccole; è la fede nella bontà della creazione, che la malizia umana ha incrinato, ma non ha compromesso in maniera decisiva, perché l’ultima parola resta sempre quella di Dio, di quel Dio che si è fatto lui stesso Parola, Parola vivente, Verbo incarnato, per amore delle sue creature. La pazienza, allora, non è affatto sinonimo di debolezza, o ingenuità, o sottovalutazione del male; al contrario, è piena e incondizionata fiducia nell’amorevole attenzione di Dio, che vigila sulla sua creazione e che non permetterà al male di compromettere in maniera irrimediabile il compimento glorioso del suo disegno cosmico, di cui l’uomo è parte essenziale.
Resta, comunque, un interrogativo: posto che il buon agricoltore non ha fretta né di separare la zizzania dal grano, né di metter mano alla scure per tagliare l’albero che non dà frutti, ma nel primo caso sa attendere il momento della mietitura, nel secondo s’industria a zappare e concimare la terra attorno all’albero, insomma fa di tutto perché l’albero ritorni a dare i suoi frutti – segno che la Provvidenza va “aiutata” con le opere, e non attesa pigramente e passivamente -, quando è il momento in cui egli deve agire, deve intervenire, deve procedere alla estirpazione di ciò che è dannoso, alla rimozione di ciò che è inutile? 


La domanda, infatti, non è se agire, ma quando agire: quando è giunto il momento, senza avere l’assurda pretesa di sostituirsi al disegno di Dio, alla Sua sapienza e alla Sua potenza. Il cristiano si domanda se vi sono dei segni, se esiste un criterio per giudicare quando è arrivato quel momento, il momento della verità, allorché non è più possibile aspettare, e si deve procedere alla distruzione della zizzania. Segni e criteri, infatti, nel linguaggio comune, sono cose puramente umane; ma il cristiano si domanda se vi sia una modalità soprannaturale con cui Dio fa capire ai suoi operai che è giunta l’ora in cui anch’essi, nell’ambito delle loro possibilità, devono fare la propria parte. Questo, infatti, è un altro elemento importantissimo, che si deve tenere ben presente: il cristiano non è un superuomo; è un pover’uomo, come lo siamo tutti: ma è un pover’uomo che ha fede in Dio. Signore, non sono degno che tu entri nella mia casa; ma Tu di’ soltanto una parola: il cristiano ha sempre presente la propria pochezza, la propria miseria, la propria piccolezza di creatura debole e peccatrice. Nello stesso tempo, però, è cosciente di poter accedere a una forza immensa: la forza che Dio stesso conferisce a quanti si prestano alla realizzazione della Sua opera: Perché qualunque cosa chiederete nel mio nome, io la farò. È una promessa, una promessa solenne: dovrebbero bastare queste poche parole, pronunciate da Gesù Cristo, per riempire il cuore del suo seguace di una speranza e di una fiducia assolute, anche nelle situazioni più tetre e drammatiche.
Abbiamo trovato una interessante riflessione su questo argomento nel numero di luglio 2017 della rivista Araldi del Vangelo, a firma del fondatore della omonima Associazione di fedeli di Diritto Pontificio, monsignor João Scognamiglio Clá Dias, classe 1939, che ne è stato anche il superiore generale fino al 12 giugno 2017, quando si è dimesso, a 78 anni di età, restando però il “padre” spirituale dell’Istituto, che, in questo momento, si trova in una fase assai delicata della sua vita: messo sotto la lente d’ingrandimento da papa Francesco, in senso non troppo benevolo. E, dato il precedente dei Francescani dell’Immacolata, nemmeno noi saremmo tanto tranquilli, al suo posto. Pare che nel mirino del papa ci siano le cerimonie di esorcismo praticate presso gli Araldi del Vangelo; cosa che non stupisce, visto quel che ha detto, di recente, il nuovo generale dei gesuiti, padre Sosa Abascal, a proposito del diavolo: che questi è solo un’immagine simbolica, non una persona reale, non un essere con una precisa individualità, nominato più volte nelle Scritture e più volte affrontato e sconfitto da Gesù, nel corso d’innumerevoli esorcismi. Ma se il diavolo non esiste, allora anche gli esorcismi diventano una pratica sospetta, una cosa rozza, primitiva e anacronistica, e soprattutto inutile. Gesù li praticava? Niente paura; anche per questo c’è la “spiegazione”, e proviene sempre dalle labbra ineffabili di padre Sosa: noi non sappiamo davvero quel che disse Gesù, perché nessun registratore ci ha riportato fedelmente le sue parole; dunque, tutto ciò che dice il Vangelo è puramente indiziario, e probabilmente, almeno per ciò che riguarda il soprannaturale, assai esagerato. Si sa che gli antichi erano gente credulona; gli Ebrei di duemila anni fa, poi, non disponevano ancora delle meraviglie del progresso tecnologico e scientifico, perciò erano propensi a darsi la spiegazione più facile per tutti quei fatti che non sapevano spiegare. Si parla anche di “culti millenaristici” praticati da questi cattolici un po’ troppo vicini alla Tradizione e già solo per questo sospetti; il millenarismo, poi, è roba notoriamente screditata e adatta più a dei fanatici che a dei cattolici adulti e moderni. Fermo restando che la fine del mondo ci sarà, dopotutto (e questo, chi potrebbe negarlo? neppure un materialista; neppure un ateo lo potrebbe, e sia pure in una prospettiva completamente diversa da quella del credente), bisognerebbe smetterla di parlarne tanto: è una cosa sconveniente, inurbana, tale da rovinare la digestione dei bravi cattolici della neochiesa bergogliana, i quali preferiscono di gran lungo gustare in santa pace le bellezze di questo mondo, come se dovessero rimanerci per sempre, piuttosto che meditare anche solo un poco sul tempo in cui ogni cosa giungerà alla fine, la storia stessa finirà, e tutto e tutti verranno giudicati dal Giudice supremo, una volta per tutte, in faccia all’eternità.
L’articolo, di cui riportiamo solo il passaggio finale, si può quindi considerare una sorta di testamento spirituale di monsignor Scognamiglio, uomo di grande cultura, autore di numerosi libri e instancabile promotore di iniziative di studio, preghiera, spiritualità e apostolato, i cui principali riferimenti intellettuali sono due: san Tommaso d’Aquino e il filosofo brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira – del quale ci eravamo già occupati –, e il cui stile pastorale è caratterizzato da una estrema signorilità e linearità formale e da una nitida chiarezza di contenuti, aliena da ogni  acrobazia concettuale e da ogni “casuismo” gesuitico (cfr. il nostro recente articolo: Il cristiano non ripone la sua speranza mondo, pubblicato su Libera Opinione il 13/06/2017):

… Più importante che strappare la zizzania è sapere quando farlo. Di fronte alle proprie miserie non si deve disperare, perché ci sono occasioni in cui non possiamo estirparle in un colpo solo. Dobbiamo avere la pazienza del signore della parabola e accettare il consiglio dato  da lui ai servi: “Lasciateli crescere entrambi fino alla mietitura”.
Nel frattempo, questo sì, facciamo attenzione a che la zizzania non danneggi il nostro grano e progrediamo nella vita spirituale sapendo circoscrivere il male, a che se nell’ora della nostra more esclamiamo come San Luigi Maria  Grignon di Montfort: “Sono arrivato alla fine del mio. È fatto. Non peccherò più”.
È impossibile che il giusto non commetta questa o quella imperfezione, ma la sua condotta deve essere quella di mantenere il grano e la zizzania sufficientemente separati, in modo che quando si sviluppano, sappia distinguerli facilmente al fine di bruciare uno e approfittare dell’altro. Al grano buono tocca soltanto esser se stesso, ossia, crescere all’interno delle spighe della santità e della virtù. Presa una tale decisone, per quanto la zizzania germini insieme, non riuscirà a soffocare la pianta sana. […]
Tuttavia, a un certo punto è necessario agire contro il male. E la circostanza opportuna ci è indicata dalla prudenza, virtù interamente fatta di saggezza, che non significa connivenza con il peccato, ma la scelta del cammino più breve tra due punti, cioè, il mezzo più idoneo per raggiungere la meta. Questo insegnamento si applica alla nostra vita quotidiana, sia in famiglia, nella società o anche nell’ambito di una consacrazione religiosa.
Nelle relazioni familiari, per esempio, qual è il momento di correggere un figlio? A volte non conviene farlo subito dopo l’infrazione, poiché il temperamento può tradirci, causando un danno maggiore perla sua anima. Dopo qualche tempo sarà più facile censurare il suo comportamento con fermezza, ma senza aggravare con la nostra carica temperamentale, incoraggiandolo alla fiducia.
L’Autore si ricorda di un racconto fatto da una persona alla quale il Dr. Plinio Corrêa de Oliveira affabilmente aveva indicato un certo difetto dell’anima. Dopo aver ringraziato, l’interlocutore gli chiese quando aveva visto questa mancanza. Il Dr. Plinio rispose: “Io l’ho vista da quando ti ho conosciuto”, cioè, da quindici anni. E non poteva essere diversamente, a causa dell’acuto carisma di discernimento degli spiriti che adornava quest’uomo dalla più tenera infanzia. Sorpreso, quel seguace gli chiese perché avesse aspettato tanto ad ammonirlo, al che il Dr. Plinio rispose: “… perché stavo aspettando il momento in cui avresti avuto la forza di mettere mano nella tua anima e strappare tutto ciò”. Fu necessario aspettare tutto questo tempo per evitare che la zizzania si portasse via il grano!
Fatti come questo ci aiutano a considerare la nostra vita spirituale con rassegnazione, calma e, soprattutto, molta fiducia nella Provvidenza, poiché Ella è la padrona della grande proprietà chiamata mondo e di queste particelle che sono le nostre anime. E quanto Ella sa aspettare ciascuno di noi! Tutto dipende da una grazia. Pertanto, senza mai scoraggiarci, dobbiamo capire che, finché Dio non metterà la mano per strappare la zizzania al momento opportuno, noi non avremo forze sufficienti né perizia per farlo.
Nella parabola, il proprietario del campo affrontò la questione in tutta serenità, essendo apparentemente persino umiliato dal nemico… In realtà accettare la presenza della zizzania era molto più astuto che strapparla. Analogamente, aver pazienza e rassegnazione per i nostri difetti molte volte finisce per essere più virtuoso che voler raggiungere una perfezione repentina, che ci porterebbe a una pericolosissima presunzione. Dobbiamo quindi saper sopportare le nostre miserie con pace dello spirito, senza permettere che esse prevalgano nel campo della nostra anima, ma aspettando il momento in cui il Divino Proprietario le strappi con la sua grazia…
Quando strappare la zizzania dal campo di grano?

di  Francesco Lamendola
continua su:

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.