ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 19 ottobre 2017

«Oggi è l’intera Chiesa che soffre»


I PASTORI DEL GREGGE

 Voi ci capite qualcosa? ma il vescovo non dovrebbe esser il pastore del gregge della sua diocesi? facciamo un esempio concreto di vescovo progressista, buonista e “misericordioso”, beninteso alla maniera di papa Bergoglio 
di Francesco Lamendola  
  

Che tristezza. Il vescovo dovrebbe esser il pastore del gregge della sua diocesi, il continuatore dell’opera degli Apostoli: dovrebbe essere saldo nella dottrina, radicato nella fede, pronto a esporsi per amore del Vangelo, come Ignazio di Antiochia e tanti altri, che affrontarono la morte per dare l’esempio alle pecorelle spaventate. Oggi molti vescovi e arcivescovi non si curano d’altro che della loro poltrona, dei loro bei paramenti, dell’anello, del prestigio della loro carica; si preoccupano di riuscire graditi alla cultura dominante, di piacere alla gente, dove “la gente” sono, in realtà, gli intellettuali progressisti, che dalla Chiesa vogliono una cosa sola: che contraddica e smentisca se stessa, e che si metta ad annunciare quel vangelo che piacerebbe a loro,  ma che non è affatto il Vangelo di Gesù Cristo; nonché preoccupati di pubblicare libri di grande tiratura, di presenziare a conferenze e tavole rotonde, di essere inviati alla radio e alla televisione, di potersi crogiolare sotto la luce dei riflettori, gonfiando il petto per la soddisfazione di poter annunciare la Chiesa dei poveri, loro che vivono in un palazzo; di prescrivere l’accoglienza verso qualsiasi numero e qualunque sorta d’immigrati, anche se loro, affacciandosi dalla finestra, vedono un bel giardino, potato e curato da inservienti, da frati o suore, e non il quartiere degradato dalle prostitute nigeriane e dagli spacciatori marocchini, in cui sono costretti a vivere milioni d’italiani, specialmente anziani e pensionati, persone a basso reddito che pure hanno lavorato una vita intera; di puntare il dito contro l’egoismo, il razzismo, la xenofobia e l’omofobia dei cattolici ipocriti, proprio loro che non si fanno mancare nulla, nemmeno i vizi privati, a cominciare da quel tal vizietto contro natura che sono, appunto, così indulgenti nel giudicare, o meglio nel non giudicare, forse per solidarietà di categoria, loro che di festini e orge gay, in Vaticano e altrove, se ne intendono, eccome, quanto se ne intende il cardinale Francesco Coccopalmerio, e chissà quanti altri come lui.

Ma evitiamo di restare nel generico e facciamo un esempio concreto di vescovo progressista, buonista e “misericordioso”, beninteso misericordioso alla maniera di Bergoglio, cioè nei confronti di certi peccatori e di certi peccati, specie quelli della carne, ma non verso quelli, secondo loro ben più gravi, di tipo ideologico: per esempio, essere dei cattolici “rigidi”, “conservatori”, o magari, Dio non voglia, “di quelli che usano la dottrina per andare contro qualcun altro”. Ed ecco una vicenda che pare uscita da un racconto della provincia piccante: il capo scout di Staranzano, una parrocchia del goriziano, Marco Di Just, nel giugno scorso si sposa in municipio con il suo “compagno”, il consigliere comunale Luca Bortolotto. Presenti alle “nozze” vari amici della coppia, fra i quali il viceparroco, don Eugenio Biasol. Il parroco, invece, don Francesco Maria Fragiacomo, non ci sta: e chiede, sul bollettino parrocchiale, un passo indietro da parte del Di Just, ricordando che se, come cittadino, lui come chiunque altro, può fare ciò che la legge dello Stato gli consente, come cattolico, per giunta come collaboratore dell’Agesci, che lavora nel settore della gioventù, ha fatto una scelta non in linea con l’insegnamento della Chiesa. Comunque, consapevole delle divisioni che il gesto del capo scout ha provocato in parrocchia, basti vedere l’atteggiamento favorevole del viceparroco, domanda che a prendere una posizione sia l’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, che fu vescovo ausiliare di Milano e che era stato consacrato, guarda caso, da Dionigi Tettamanzi, quello che voleva fortissimamente la moschea nel capoluogo lombardo, e da Coccopalmerio, al quale abbiamo già accennato. Ma, soprattutto, Redaelli è un vescovo nella linea di Carlo Maria Martini, che considera il suo grande maestro. E infatti, all’invito del parroco di Staranzano, Redaelli risponde con una lunga lettera pastorale, in cui si rivolge a tutti i soggetti interessati, consacrati e laici, e, con una capacitò di equilibrismo che ricorda Salomone nella forma, ma Pilato nella sostanza, riesce a dire tutto e niente, invocando però, e fin dalla prima riga, il “discernimento”, la grande parola-talismano, sia dello stesso Martini, che ne fu, secondo lui, il grande maestro, sia del papa Francesco, che ne ha fatto il grimaldello per scardinare, a partire dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, il Magistero della Chiesa in materia di matrimonio e divorzio. Che cosa dice, nella sua lettera del 22 giugno 2017, l’arcivescovo di Gorizia? Sarebbe troppo lungo riportarla per esteso: chiunque la può consultare in rete; ci limiteremo, pertanto, a riportare alcuni passaggi-chiave:

… Partirei da una citazione di un grande maestro del discernimento, il cardinale Carlo Maria Martini: «L'esempio biblico di cui mi servo per spiegare il distinguere e il discernere, è la descrizione del Concilio di Gerusalemme (cfr. At 15) dove si può vedere bene la dinamica di Chiesa. Se leggiamo attentamente il resoconto del Concilio, rimaniamo stupiti nell'accorgerci che, dovendo risolvere un problema pratico molto difficile - la convivenza tra i cristiani provenienti dal giudaismo e i cristiani convertiti dal paganesimo - non si fa ricorso alle Scritture o a una tradizione canonica, di cui c'era un primo embrione, ma si fa ricorso, anzitutto, alla riflessione sul vissuto nella grazia dello Spirito santo! […] Può sembrare strano che di fronte a una realtà che ha creato contrasti e scalpore e ha evidenziato difficoltà, ci si domandi per prima cosa quali siano gli aspetti di grazia presenti in essa. Eppure non dobbiamo mai dimenticare ciò che afferma l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: «noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28). «Tutto concorre al bene»: non significa che tutto è bene e neppure che tutto è indifferente. Vuol dire piuttosto che dobbiamo avere la profonda convinzione che Dio guida la storia dell’umanità, della Chiesa e di ciascuno di noi e che tesse un percorso d’amore e di luce dentro il contraddittorio chiaroscuro delle nostre scelte. Quale può essere allora la grazia in questi avvenimenti? […] Grazia, sempre restando a noi, è la progressiva maturazione della convinzione che il discernimento stia diventando sempre più la cifra fondamentale dell’agire pastorale. […] Grazia è anche l’attenzione rispettosa, partecipe e talvolta sofferta ai cammini personali di ciascuno da parte della comunità cristiana e l’accompagnamento degli stessi. Non parliamo infatti di questioni astratte o di scuola, ma di scelte e percorsi di persone concrete. Ogni persona ha il diritto al rispetto, non va giudicata o condannata, le sue scelte (anche se non condivisibili) vanno prese seriamente. Ben sapendo che ognuno ha il dovere morale di cercare il bene e la verità. Il cristiano, in particolare, è chiamato a individuare la volontà di Dio per la propria vita nella concretezza della situazione in cui si trova. Lì infatti è la sua “grazia”. Un impegno che trova nell’assistenza dello Spirito, nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nel confronto con le indicazioni della Chiesa, nel sostegno della comunità e nel confronto con essa i mezzi per essere affrontato con autenticità. Come ci ha ricordato papa Francesco anche in diversi passaggi della “Amoris laetitia”, il processo che porta a precise scelte e le stessa attuazione di esse è condizionato da molti fattori, che possono rendere difficile l’adeguamento della propria vita alla proposta dell’ideale evangelico. In ogni caso ciascuno è tenuto a cercare non l’astratta perfezione, ma il meglio possibile nella concretezza del suo cammino. Chi accompagna pastoralmente le persone – e non solo i sacerdoti – deve tenere conto di tutto questo, non indulgere a facili giudizi, non sostituirsi alla responsabilità di ciascuno, ma insieme non rinunciare a proporre l’ideale evangelico sapendo ben distinguere le diverse situazioni di partenza. Perché il discernimento circa simili scelte personali (per esempio di convivenza) non può essere lo stesso per chi non ha avuto in precedenza la possibilità di un cammino cristiano e solo ora si sta riavvicinando alla fede (penso, per essere concreti, a chi chiede la cresima da adulto ed è disponibile a fare un percorso di ascolto del Vangelo, ma è di fatto in una situazione di convivenza) e per chi, invece, è cresciuto in ambito ecclesiale con molti aiuti e accompagnamenti e svolge un incarico dentro la comunità. […] Il Vangelo, e in genere la Sacra Scrittura – lo sappiamo –, non si presentano come un manuale di principi e di indicazioni concrete riferibili a ogni situazione della vita. […]Chi si aspetta o pretende sempre e comunque principi chiari, astratti e immodificabili e indicazioni normative vincolanti per ogni questione e per ogni circostanza, non può che restare deluso, ma dimostra anche di non avere una corretta visione della fede cristiana e del cammino della Chiesa incarnato nella storia. […]Un primo suggerimento che mi sento di offrire è quello di darci tempo. Un tempo necessario per lasciare decantare emozioni, giudizi affrettati, reazioni a caldo e un po’ sopra le righe. […] Un secondo suggerimento che mi permetto di presentare soprattutto alla comunità di Staranzano e alle altre realtà vicine più direttamente implicate, è quello di utilizzare anzitutto un saggio consiglio di sant’Ignazio, maestro di discernimento del cardinal Martini e di papa Francesco: «ogni buon cristiano dev’essere più pronto a salvare un’affermazione del prossimo che a condannarla» (Esercizi spirituali n. 22). Intendo cioè invitare a un atteggiamento di disponibilità gli uni verso gli altri, che parta dal presupposto della buona fede reciproca, trovi occasione di dialogo pacato e sincero, abbia la pazienza dell’ascolto, riannodi una comunione che resta vera anche in presenza di diverse sensibilità e accentuazioni. […]

Se questi sono i pastori del gregge…

di Francesco Lamendola Del 19 Ottobre 2017



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Il santuario della Madonna di Oropa baluardo contro le eresie  
     

(di Cristina Siccardi) Durante la incisiva e illuminata omelia che Don Alberto Secci ha tenuto durante la celebrazione della Santa Messa nella Basilica di San Sebastiano di Biella, gremita di fedeli, il 14 settembre scorso, all’interno del VII Pellegrinaggio della Tradizione al Santuario mariano di Oropa, ha ricordato ciò che scriveva sant’Atanasio nell’anno 240: «Oggi è l’intera Chiesa che soffre. Il sacerdozio è vilipeso oltre ogni dire – c’è qualcosa di nuovo sotto il sole?! – il santo timore di Dio viene beffeggiato da un’empia irreligiosità – lo scrive nel IV secolo; è la condizione della Chiesa nel mondo che deve sempre compiere la buona battaglia della fede – Tutta la Chiesa viene smembrata”. E poi parla ai vescovi, parla ai sacerdoti; in qualche modo parla ad ogni cristiano che si rende conto del dramma e dice: “Lasciatevi commuovere, ve ne scongiuro; lasciatevi commuovere! quasi che tutti voi aveste sostenuto tanto male”. Soffrite come se fosse una sofferenza vostra, personale. “Lasciatevi commuovere!”.Credo sia questa la grande grazia che dobbiamo chiedere nel settimo pellegrinaggio che ci vede salire ai piedi della Vergine bruna di Oropa».


Sono giunti da tutta Italia i fedeli per questa novena annuale iniziata nel 2011 e organizzata da Don Alberto e Don Stefano Coggiola (http://radicatinellafede.blogspot.it/), che si concluderà fra tre anni quando si celebrerà la quinta solenne incoronazione della Madonna nera di Oropa (1620-2020), la Madonna della Terra Santa che sant’Eusebio di Vercelli nel IV secolo, in fuga dalla persecuzione degli ariani, nascose fra le rocce della montagna biellese.
Secondo la tradizione l’effigie fu inizialmente celata presso la cittadina valdostana di Fontainemore, località nella quale è ancora vivo tale culto, e quindi custodita sui monti biellesi presso quello che, in futuro, si svilupperà come il monumentale Santuario di Oropa (la Basilica superiore oggi è chiusa per imponenti restauri), che fra Seicento e Settecento, per volere di Casa Savoia, ebbe un’ampia espansione architettonica su progetti di Filippo Juvarra, Ignazio Galletti, Guarino Guarini.
Strenuo oppositore dell’arianesimo, nonché sostenitore del simbolo niceno, Eusebio, nato in Sardegna agli inizi del IV secolo, si trasferisce a Roma con la famiglia, dove porta a termine, insieme a sant’Atanasio, gli studi ecclesiastici ed entrando così a far parte del clero dell’Urbe. Lodevolmente osservato da Papa Giulio I, questi lo eleva nel 345 alla cattedra episcopale di Vercelli, prima diocesi e per molti anni unica del Piemonte. Qui stabilisce per sé e per i suoi sacerdoti l’obbligo della vita in comune, collegando l’apostolato con lo stile monastico.
Spiegò Benedetto XVI, durante la sua catechesi del mercoledì incentrata proprio su sant’Eusebio di Vercelli (17 ottobre 2007): «Ispirato da sant’Atanasio – che aveva scritto la Vita di sant’Antonio, iniziatore del monachesimo in Oriente –, fondò a Vercelli una comunità sacerdotale, simile a una comunità monastica. Questo cenobio diede al clero dell’Italia settentrionale una significativa impronta di santità apostolica e suscitò figure di Vescovi importanti, come Limenio e Onorato, successori di Eusebio a Vercelli, Gaudenzio a Novara, Esuperanzio a Tortona, Eustasio ad Aosta, Eulogio a Ivrea, Massimo a Torino, tutti venerati dalla Chiesa come Santi. Solidamente formato nella fede nicena, Eusebio difese con tutte le forze la piena divinità di Gesù Cristo, definito dal Credo di Nicea «della stessa sostanza» del Padre. A tale scopo si alleò con i grandi Padri del IV secolo – soprattutto con sant’Atanasio, l’alfiere dell’ortodossia nicena – contro la politica filoariana dell’imperatore. Per l’imperatore la più semplice fede ariana appariva politicamente più utile come ideologia dell’Impero. Per lui non contava la verità, ma l’opportunità politica: voleva strumentalizzare la religione come legame dell’unità dell’Impero. Ma questi grandi Padri resistettero difendendo la verità contro la dominazione della politica». Per questa ragione Eusebio fu condannato all’esilio come tanti altri vescovi di Oriente e di Occidente: Atanasio, Ilario di Poiters, Osio di Cordova.
L’esilio arrivò in seguito a questi fatti: egli fu inviato da papa Liberio, insieme al Vescovo Lucifero di Cagliari in missione dall’Imperatore Costanzo II, per chiedergli la convocazione di un Concilio che ponesse termine alla controversia fra ariani, sostenuti dallo stesso Imperatore, e gli ortodossi orientali, al quale Eusebio fu teologicamente più affine. Tale Concilio si celebrò a Milano nel 355.
I vescovi ariani erano in maggioranza, perciò subito si riparlò di condannare ed esiliare Atanasio. Con lucidità Eusebio dichiarò che prima di esaminare i casi personali, era prima necessario mettersi d’accordo sui problemi di Fede, firmando uno per uno il Credo di Nicea. Si scatenò un caos fra i vescovi, ma anche un tumulto dei fedeli contro i vescovi stessi. Dunque Costanzo fa proseguire i lavori nella residenza imperiale, allontanando dalla zona i fedeli.
Tutti i vescovi decidono di firmare la ri-condanna di Atanasio, tutti tranne tre: Eusebio, Lucifero, Dionigi, Vescovo di Milano. Essi non cedono, e Costanzo li esilia. Eusebio viene mandato a Scitopoli, in Palestina e dopo il 360 è trasferito in Cappadocia, quindi nella Tebaide egizia dove subisce vessazioni e torture. La condanna ha termine sotto l’Imperatore di Giuliano l’Apostata, che non si interessa del Cristianesimo come religione dell’Impero, ma vuole restaurare il paganesimo.
Nel 362 Eusebio viene invitato da Atanasio a partecipare al Concilio di Alessandria, dove si decide di perdonare i vescovi ariani purché facciano ritorno allo stato laicale. Il Vescovo di Vercelli eserciterà per una decina d’anni ancora, fino alla morte (371 ca.), il ministero episcopale, realizzando nella sua ampia diocesi un rapporto ammirevole con il clero e con i fedeli, così esemplare da ispirare il servizio pastorale di altri vescovi, come sant’Ambrogio di Milano e san Massimo di Torino.
L’ammirazione di Ambrogio per Eusebio si fondava soprattutto sul fatto che quest’ultimo governava la diocesi con la testimonianza della sua vita: «Con l’austerità del digiuno governava la sua Chiesa» (Lettera di sant’Ambrogio di Milano ai Vercellesi, 394ca., più di vent’anni dopo la morte di Eusebio, Ep. fuori collezione 14). Disse ancora Benedetto XVI nel 2007:«Di fatto anche Ambrogio era affascinato – come egli stesso riconosce – dall’ideale monastico della contemplazione di Dio, che Eusebio aveva perseguito sulle orme del profeta Elia. Per primo – annota Ambrogio – il Vescovo di Vercelli raccolse il proprio clero in vita communis e lo educò all’“osservanza delle regole monastiche, pur vivendo in mezzo alla città”. Il Vescovo e il suo clero dovevano condividere i problemi dei concittadini, e lo hanno fatto in modo credibile proprio coltivando al tempo stesso una cittadinanza diversa, quella del cielo (cfrEb 13,14)». Qui sta il segreto dell’autentica evangelizzazione, quella che unisce e miete in abbondanza.
Sant’Eusebio fece sue le sofferenze della Chiesa del suo tempo e trasmise ciò ai suoi fedeli. Ha detto Don Alberto Secci nella sua magistrale predica: «Voi vedete, dobbiamo evitare per primo di vivere una devozione che non si preoccupa della Fede; è la Fede di tutto il popolo, è la Fede della Chiesa. Questa non è una devozione cattolica: penso a me e basta. Non sarà mai cattolico tutto ciò, ovvero una devozione che non vuol vedere le sofferenze. […] Si comportano così quelli che ricercano la loro devozione, la propria santità personale dimenticando del dramma che sta vivendo la Santa Chiesa di Dio in mezzo a questo mondo irreligioso. Guai a voi; chiediamo la grazia di non essere mai così; insopportabilmente non cattolici così. Non c’è una santità individuale; la santità viene da Gesù Cristo, unico Santo, per mezzo della Chiesa.
Il secondo pericolo è quello di vivere così tanto il dramma della Chiesa in modo umano e non cristiano. Molti di voi hanno detto “È proprio così. È’ come nella crisi ariana”. Ma qual è il pericolo? È quello di agire con una durezza e un’amarezza dentro che rendono solo capaci di recriminazione. Ci sono quei devoti – devoti tra virgolette – che sanno solo lamentarsi della Chiesa. È come se il dramma della Chiesa fosse loro personale; e lo vivono partendo da se stessi. Come se fosse una questione politica da difendere; una propria opinione. Non è così. Devi vivere il dramma della Chiesa, amando la Chiesa, perché è il dramma della Chiesa. E devi imparare ad unire le tue sofferenze, le croci, le prove, le fatiche che il Signore ti chiede di vivere; unirle alla fatica, alla lotta – ripeto – al dramma che la Chiesa vive. Il Suo dramma, il dramma della Santa Chiesa attaccata da tutte le parti, deve essere il tuo dramma. Ricordatevi di queste parole di Sant’Atanasio, grande maestro di Sant’Eusebio: “Ve ne scongiuro, lasciatevi commuovere!”. Lasciatevi commuovere! Se uno difende la Chiesa, anche nella sana dottrina, senza commozione vuol dire che fa del dramma della Chiesa il suo. E invece sei tu che devi unire il cuore al cuore della Chiesa tutta».
Sant’Eusebio, che lottò e soffrì con e per la Chiesa, morì a Vercelli nel 371, ma le sue reliquie furono rinvenute soltanto durante la ricostruzione del Duomo della città nel XVI secolo. Grazie alle opere eusebiane di capillare evangelizzazione fra le genti pagane del nord-ovest d’Italia si svilupparono altri siti di tradizione mariana legati al suo nome, come, per esempio, il Duomo stesso di Vercelli, la chiesa di Sant’Eusebio di Pavia, il Sacro Monte di Crea nel Monferrato, il santuario Madonna del Palazzo di Crescentino.
Straordinario fu l’impegno del coraggioso e fedele Eusebio nell’eliminare l’idolatria, come ad Oropa e Crea, sostituendo il culto delle deità femminili celtiche con il culto della Madre di Dio. La Madonna fu per sant’Eusebio lo scudo contro l’eresia ariana e la Madonna continua ad essere oggi l’unica intermediaria efficace per ristabilire la Verità cattolica in seno alla Chiesa, così come fu l’unica mediatrice quando san Basilio, ricordato ancora da Don Alberto, scriveva con angoscia in una lettera del 371: «Tutta la Chiesa è in via di dissoluzione». (Cristina Siccardi)
https://www.corrispondenzaromana.it/santuario-della-madonna-oropa-baluardo-le-eresie/


Il Puntatore. Il dramma liturgico


di Aurelio Porfiri
Penso che ci sia un elemento importante nell'attuale crisi su cui non si riflette abbastanza. La crisi liturgica in cui ci troviamo non va vista solamente come un elemento negativo per la nostra vita spirituale, ma soprattutto come un segno del declino della nostra civilizzazione occidentale, che dalla liturgia cattolica e dalle creazioni intorno ad essa tanto ha ricevuto. Non è forse il canto gregoriano, ad esempio, alla base della nostra musica occidentale? E di esempi così potrebbero essere fatti a centinaia.

La crisi della liturgia è uno dei sintomi peggiori della malattia dell'occidente, un occidente "sazio e disperato" (come diceva il Cardinal Biffi di Bologna), un occidente che oramai ha rinunciato alla verità oggettiva per satollarsi con un soggettivismo senza via d'uscita. La crisi della liturgia dovrebbe interessare proprio tutti, anche coloro che non sentono affinità per la stessa, anche gli atei. Perché la cultura occidentale riguarda tutti noi che siamo figli dei greci, dei romani, dell'ebraismo e del cattolicesimo. In passato ci sono stati appelli per ridare dignità alla liturgia cattolica firmati anche da atei. Questo si spiega con quello che ho detto sopra: quod omnes tangit ab omnibus approbari debet. Quello che tutti riguarda deve essere approvato (o disapprovato) da tutti.
Insomma, bisognerebbe sensibilizzare tutti sul grave dramma liturgico che stiamo vivendo, un dramma che si è insediato nel ventre stesso della Chiesa e che va sempre più in profondità.
http://www.campariedemaistre.com/2017/10/il-puntatore-il-dramma-liturgico.html

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