ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 18 novembre 2017

La coscienza di sé


L'ODIO DI DIO E DI SE STESSI

  
  Una società che odia Dio odia se stessa. Chi non è cristiano nel senso culturale dell’espressione non è veramente europeo: è un apolide un vagabondo un marziano al quale nulla importa della sua stessa casa dei suoi stessi figli 
di Francesco Lamendola  

  
  
Il 12 febbraio del 2013, per festeggiare l’abdicazione di Benedetto XVI, un gruppo di nove ragazze del famigerato gruppo ucrainoFemen, indossanti solo le mutandine e con il corpo decorato con scritte oltraggiose per la fede cattolica, hanno fatto irruzione nella basilica di Notre Dame, a Parigi, in mezzo al popolo dei fedeli, scandendo lo slogan Non più papa, e scagliandosi contro un’antica campana di bronzo dorato, che hanno preso a bastonate.
Allontanate a fatica dagli inservienti, sono state rinviate a giudizio e il processo si è concluso, nel settembre dell’anno seguente (!), con l’assoluzione totale. La sentenza è stata il risultato di una riduzione dell’accusa ai soli aspetti materiali dell’irruzione: niente vandalismo, niente oltraggio alla religione, niente incitamento all’odio antireligioso, ma solo danneggiamento (eventuale) di beni. E siccome gli unici danni materiali erano i segni lasciati dalle balde ragazzotte sulla secolare campana, ma nessuno poteva attribuirli con certezza proprio a loro, il comprensivo magistrato ha concluso per il nulla di fatto e le ha rimandate assolte. La loro portavoce ha dichiarato: Cari cattolici, caro papa, caro Dio, fatevene una ragione: oggi è stato tolto l’appoggio dello Stato alla vostra falsa morale. 


E per aggiungere il danno alla beffa, a venire condannati sono stati gli inservienti della cattedrale, per aver adoperato maniere troppo rudi nel cacciar fuori le vivaci fanciulle: a delle pene pecuniarie abbastanza lievi, da 300 a 1.000 euro, però significative: nella Francia laicista, erede della Rivoluzione del 1789, il reato di profanazione e sacrilegio non esiste, semmai esiste il reato di tentare d’opporvisi. L’opinione pubblica è avvertita: chiunque può entrare in un luogo sacro, denudarsi e sbeffeggiare i sentimenti e le credenze delle persone le quali, pie e inoffensive, sono lì raccolte soltanto a pregare; e se qualcuno prova a buttar fuori il profanatore, rischia una multa più o meno salata, dal valore soprattutto simbolico: oltraggiare e vilipendere Dio e i fedeli si può, opporvisi no. Al massimo, bisogna dire all’energumeno (o all’energumena): Per favore, caro amico, sii così gentile da uscire, sai bene che questa è una chiesa, rispettala e lascia in pace quelli che sono qui per adorare il Signore. A quel punto, bisogna solo sperare che costui (o costei, come nel nostro caso) si sia sfogato abbastanza, che abbia ottenuto sufficiente attenzione da parte dei fotografi e dei giornalisti, e che i suoi muscoli affaticati dalla acrobatica performance reclamino un po’ di riposo, e quindi che se ne vada con le buone, di sua spontanea volontà. Questo, nella cattedrale più famosa e più importante del mondo, dopo quella di San Pietro a Roma, cara al cuore di un miliardo e mezzo di cattolici distribuiti nei cinque continenti. Non sappiamo quale sentenza esprimerebbero i giudici dell’Europa laicista e post-cristiana, se l’assalto dovesse aver luogo in qualche cattedrale o basilica di minore importanza, o in qualche chiesa o abbazia di provincia, sullo fondo di uno scenario meno famoso.
Sta di fatto che quando tre ragazze di un altro gruppo femminista punk, le Pussy Riot (si noti che pussy, in slang anglosassone, indica il gatto, ma anche la vagina), ha fatto irruzione nella cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca, nel 2012, i giudici russi non sono stati altrettanto indulgenti, benché le ragazze fossero più o meno vestite, e non seminude, e non se la fossero presa con gli arredi sacri: due ani di prigione per teppismo motivato da odio antireligioso; che è, fra parentesi, il minimo della pena prevista in simili casi (il massimo sarebbe stato sette anni), quasi del tutto scontati perché l’amnistia è arrivata a soli due mesi dal completamento della detenzione. Ma la Russia, si sa, è un Paese arretrato e semibarbaro, per giunta sottoposto alla brutale dittatura di Putin, una specie di orco uscito da qualche fiaba per bambini, e pronto a divorare sia persone in carne ed ossa, che diritti umani; mentre la Francia, da oltre due secoli, si è posta all’avanguardia della civiltà e del progresso (nonché della Massoneria) e addita gloriosamente alle altre nazioni la strada da seguire, per lasciarsi alle spalle per sempre l’obbrobrioso passato medievale, fatto di superstizioni e oscurantismo; un passato generato da quel monstrum che è la Chiesa cattolica, e che merita soltanto, secondo l’incitamento del “tollerante” Voltaire, d’essere schiacciato, come si fa coi serpenti velenosi: écrasez l’infâme!
Vale la pena di notare che, mentre il pubblico ha seguito con distacco, o con malcelata simpatia, il processo alle Femen che hanno profanato Notre Dame, e che i mass media ne hanno parlato poco e in maniera estremamente faziosa, facendo passare la cosa per una innocente monelleria (mentre si sa che dietro le Femen ci sono i miliardi di qualche potere occulto, intenzionato a destabilizzare quel poco di senso morale che ancora sopravvive in Europa), una parte non indifferente della opinione pubblica russa era favorevole a una severa condanna per le profanatrici della cattedrale di Cristo Redentore. E mentre il clero cattolico, non solo francese, ha taciuto, e la stessa cosa hanno fatto i pur loquacissimi monsignori di casa nostra, i Paglia, i Galantino, per non parlare degli storici come Meloni, o i teologi come Enzo Bianchi e Andrea Grillo, la cui parola d’ordine è stata: bocche cucite e fare finta di nulla, tanto erano tutti presi dall’entusiasmo per l’elezione del “loro” papa, Francesco, portatore delle tanto attese  novità progressiste e moderniste, il clero ortodosso, invece, e sia pure con qualche eccezione, si è espresso con molta severità nei confronti delle Pussy Riot. Cirillo I, il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, nel mezzo di una celebrazione nella centralissima chiesa della Deposizione della Veste, nella Piazza del Cremlino, ha qualificato l’azione di quelle ragazze come blasfema e demoniaca: Il diavolo ci ha irrisi… - ha detto. - Non abbiamo un futuro se permettiamo che ci prenda gioco di grandi luoghi sacri e se alcuni vedono queste prese in giro come una sorta di valore. E questo mentre negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale si mobiliava una forte campagna in difesa delle Pussy Riot, e se non proprio della legittimità, almeno della scarsa gravità della profanazione da esse attuata; fra tutti, si segnalava l’intervento a gamba tesa della cancelliera tedesca Angela Merkel, negli affari interni di uno Stato sovrano, la quale, dopo la condanna delle discutibili eroine, si è affrettata a criticare la sentenza, definendola sproporzionata ed esageratamente severa.
Come si spiega questa differenza di opinioni, ed evidentemente, anche di sensibilità e di cultura, fra la Russia e il resto del mondo occidentale? A nostro avviso, essenzialmente con due ordini di ragioni. Prima di tutto, l’esperienza storica dei rispettivi popoli. Nell’ex Unione Sovietica, la gente ha sperimentato una politica statale anticristiana che si è accanita contro il clero e contro i fedeli per circa settant’anni, cercando di sradicare completamente la religione cristiana, in maniera sistematica e capillare e ricorrendo a dei metodi estremamente brutali. Centinaia di migliaia di esseri umani, sia ortodossi sia cattolici (questi ultimi specialmente in Ucraina), sono stati trascinati nei campi di concentramento, dove moltissimi hanno peso la vita. Eppure, quando il comunismo è crollato e l’Unione Sovietica si è dissolta, il popolo dei fedeli è riemerso dalle catacombe: le chiese, che erano state chiuse, sono state riaperte; quelle demolite, sono state ricostruite; i conventi, i seminari, le icone, i libri sacri, sono riapparsi e hanno ripreso il posto che occupavano prima delle “gloriose” giornate dell’Ottobre 1917. E quando un popolo esce da una prova così dura, quando una religione supera una persecuzione di un tale entità, scopre, sulla propria pelle, ciò che prima, forse, dava per scontato, e che non apprezzava nel suo giusto valore: l’importanza che Dio occupa nella vita degli uomini e nel corso della storia, e l’impossibilità, per una società consapevole di se stessa, di strappar via da sé la fede religiosa, con la quale è impastata la sua stessa identità. A questo punto, quel popolo e quei fedeli non hanno più voglia di vedere che qualcuno venga a scherzare sulla loro fede, a irridere le loro credenze, a profanare i loro luoghi santi: lo percepisce come un oltraggio molto grave, non certo come una semplice ragazzata. Ma come potrebbero capire tutto ciò gli occidentali, presso i quali irridere il cristianesimo è diventato una cosa pressoché ovvia, specie fra le persone che si credono colte; le stesse che hanno coltivato e alimentato, per una settantina d’anni, il mito di cartapesta della cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre e della costruzione del socialismo nella patria di Lenin e Stalin? Come potrebbero apprezzarlo i figli (di papà) di quegli studenti parigini, e non solo parigini, i quali, ancora nel 1968 – ossia cinquant’anni dopo il colpo di stato bolscevico – sfilavano per le strade brandendo ilLibretto rosso di Mao Tse-tung e scandendo gli slogan di Lenin, Trotskij e compagni; studenti che oggi sono la classe dirigente dell’Europa occidentale e che non hanno mai fatto ammenda del loro clamoroso errore, anzi, se ne vantano?
La seconda ragione ha a che fare con la coscienza di sé che i popoli hanno o non hanno, nel senso che l’hanno perduta. Il popolo russo ha coscienza di sé, perché ha coscienza di essere nato dall’incontro della civiltà latina (e bizantina, cioè greca) col cristianesimo: ricorda la sua secolare servitù sotto i musulmani dell’Orda d’Oro e sa, per averne fatta l’esperienza, che costruire una identità nazionale su basi puramente laiche e irreligiose equivale a costruire sulla sabbia. Molti russi di una certa età ricordano che, quando i carri armati di Hitler, nel 1941, sferragliavano alle porte di Mosca, è stata una grande sollevazione patriottica e religiosa a salvare il loro Paese (così come l’aveva salvata nel 1812 davanti alla Grande Armée di Napoleone, in un epos splendidamente narrato da Tolstoj in Guerra e pace); e che, in quel drammatico frangente, perfino Stalin non aveva esitato a fare appello al clero ortodosso, da lui perseguitato a morte fino al giorno prima, perché lanciasse una “crociata” vera e propria in difesa della Patria, lui, il padrone del Comintern, cioè dei senza patria. È questa la ragione per cui i Russi, e, in una certa misura, anche i Polacchi, gli Slovacchi, i Cechi e gli Ungheresi, non ne vogliono sapere di farsi i invadere da milioni di falsi profughi islamici; ed è la stessa ragione per cui non gradiscano che qualcuno scherzi ed irrida le loro credenze religiose. La religione la prendono sul serio, loro; così come prendono sul serio la propria identità. In perfetta mala fede, i nostri mass media vorrebbero darci a intendere che il rifiuto di accogliere “quote” d’immigrati extra europei, da parte della Polonia, dell’Ungheria, eccetera, sia dovuto solo a ottuso egoismo e ad insensibilità; niente affatto: è dovuto al fatto che presso quei popoli è ancor vivo il senso dell’identità europea; e identità europea vuol dire anche, inseparabilmente, cristianesimo. 


Una società che odia Dio, odia se stessa

di Francesco Lamendola
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