ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 14 dicembre 2017

Chiesa per i poveri?


L'ERESIA PAUPERISTA        


L'eresia pauperista della neochiesa iniziò con Lercaro e Dossetti. La Chiesa di Cristo è solo dei poveri? è un’espressione ambigua che diventa eretica se per "poveri" s'intendono quelli che lo sono in senso puramente economico 
di Francesco Lamendola  


Siamo ormai talmente abituati a sentirci rintronare gli orecchi, dal papa Francesco e dai cardinali e vescovi progressisti, che la Chiesa di Cristo è la Chiesa dei poveri, che questa espressione ci sembra perfettamente logica e naturale, come potrebbe esserlo l’espressione che la Chiesa è cattolica, apostolica e romana; eppure si tratta di una espressione recente, conciliare e post-conciliare, e,quel che è peggio, di un’espressione ambigua, che diventa decisamente eretica se, per “poveri” si intendono quelli che lo sono in senso puramente economico. Gesù è venuto per i poveri, ha fondato la sua Chiesa per i poveri? Ma chi lo dice? E perché mai? Nella nostra grossolana ignoranza e ottusità pre-conciliare, noi credevamo di aver capito che Gesù è venuto sulla terra per amore degli uomini, di tutti gli uomini, indipendentemente dalle loro condizioni sociali, economiche, dalla loro appartenenza razziale, eccetera; e che la Chiesa da lui fondata è uno strumento di salvezza per tutti gli uomini, liberi e schiavi, greci e giudei.

Che al mondo ci siano i poveri, che ci siano anche i poveri, è sempre stato considerato normale, sotto tutti i cieli e presso tutte le civiltà umane, con la sola eccezione delle tribù primitive di cacciatori e raccoglitori. E nessuno ha mai pensato di abolirli, perché nessuno ha mai pensato che sia “ingiusto” il fatto che ve ne siano. Oltretutto, i “poveri” costituiscono una categoria quanto mai variegata: alcuni sono poveri a causa dello sfruttamento dei ricchi, altri sono poveri semplicemente perché non hanno voglia di lavorare, preferendo vivere di accattonaggio e di furti; oppure perché hanno dilapidato stupidamente i loro beni; oppure, ancora, perché non vogliono assumersi la responsabilità del lavoro e del mantenimento della propria famiglia, preferendo lasciare che ci pensino “altri” (i parenti, gli amici, le istituzioni, la chiesa, lo stato). Una cosa è certa: il povero, per il fatto di essere povero, non è moralmente migliore di chi povero non è; può essere migliore, in senso morale, come può anche essere peggiore: e, di fatto, vi sono dei poveri moralmente ignobili, che prostituiscono le mogli e i figli, che non esitano a rapinare e a uccidere, e che, dalla loro povertà, non hanno imparato nulla, se non l’invidia, il rancore e il cinismo. Non è vero, quindi, che il povero ha sempre ragione. E non è neppure vero che Dio ami i poveri perché sono poveri, più di quanto ami qualsiasi altro essere umano: chi afferma questo, vuol fare del cristianesimo un socialismo o, quanto meno, un populismo, una religione politica basata sul fattore economico, che esaurirà la sua ragion d’essere quando la povertà sarà stata definitivamente debellata. Ma, in tal caso, perché mai Gesù Cristo avrebbe detto ai suoi discepoli: I poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre (Mc., 14,7)? Evidentemente, i poveri ci saranno sempre, finché ci sarà la storia umana.
La divisione del mondo in”ricchi” e “poveri” è rozza, schematica, del tutto ideologica, nel senso deteriore del termine. Chi non è povero, non è necessariamente un ricco, come chi possiede due case non è necessariamente un capitalista, e meno ancora uno sfruttatore, ma, per esempio, semplicemente una persona che ha duramente lavorato per acquistare la propria abitazione, e poi, alla morte dei genitori, ne ha ricevuta una seconda in eredità. I normali lavoratori, per non parlare dei membri delle classi medie, non sono poveri, ma nemmeno ricchi. Ad ogni modo, Gesù non ha mai condannato la ricchezza in se stesa: ha condannato l’avidità di chi ne fa un cattivo uso, ossia il vizio di farsene dominare. E se ha detto, molte volte, beati i poveri”, non intendeva dirlo in senso economico, o, sicuramente, non solo in senso economico: è evidente dal contesto di quelle frasi, ma anche dal senso complessivo del Vangelo, che i poveri che Gesù loda sono i poveri in spirito, i “piccoli” e i “semplici”, ossia coloro i quali ricevono con semplicità e con fiducia la parola di Dio, l’accolgono devotamente e si sforzano di osservarla. E se Gesù loda la donna povera che fa la sua commovente offerta nel tesoro del Tempio, non la loda perché è povera, ma perché, nella sua povertà, si è mostrata più generosa, ovviamente in proporzione, rispetto a tanti ricchi, che avevano fatto delle offerte assai meno generose. Certo, nella Chiesa è sempre serpeggiata la tentazione di vedere nei poveri i soli destinatari del messaggio di Cristo, e nella povertà un valore da imporre con ogni mezzo; ma si è trattato di movimenti ereticali, come quello di Fra Dolcino, che la Chiesa ha sempre condannato, appunto perché essa ha sempre rifiutato di lasciarsi strumentalizzare in senso pauperista e politico-sociale.
Ma poi è arrivata la modernità; è arrivato l’illuminismo; è arrivata l’ideologia democratica, dalla quale è derivata quella marxista. Attorno agli anni ’60 del Novecento l’ideologia comunista, benché scomunicata dalla Chiesa, ha toccato il punto più alto della sua parabola ed è sembrata a un passo dall’imporsi a livello mondiale, con l’appoggio entusiastico degli intellettuali e di grandi masse di popolazione dei Paesi che non avevano ancora avuto la delizia di sperimentare il comunismo sulla propria pelle. Anche la Chiesa cattolica era piena di simpatizzanti di sinistra che guardavano al comunismo come alla meta finale della storia, che il cristianesimo perseguiva anch’esso, a suo modo; e che si sentivano volonterosi “compagni di strada” di tutti i compagni che, scomunica o non scomunica, lottavano per un mondo “migliore”, cioè al fianco dei popoli. Inoltre, le ideologie terzomondiste avevano messo all’ordine del giorno la miseria degli ex Paesi coloniali quale risultato dello “sfruttamento” dell’Occidente: il che in parte era vero, e in parte no, dato che bisognerebbe vedere, caso per caso, in maniera imparziale, ciò che i regimi coloniali hanno preso e ciò che hanno dato ai popoli del Sud del mondo (e forse il bilancio fonale sarebbe assai diverso da quello che l’opinione politically correct ritiene ancora oggi). Si andava anche delineando l’enorme crescita demografica del Sud della Terra e il ristagno del Nord, per cui, già allora, era chiaro che, in prospettiva, il centro di gravità del cattolicesimo si sarebbe spostato dall’Europa all’Africa, all’Asia e all’America. In questo contesto, si è fatta strada l’idea, venuta pienamente in luce con il Vaticano II, che la Chiesa doveva schierarsi senz’altro dalla parte dei “poveri”, cioè della maggioranza della popolazione umana, se necessario anche prendendo posizione contro i “ricchi”, in base a delle astratte categorie ideologiche. E fu così che il 1° gennaio 1968, Giornata mondiale della Pace, a Bologna il cardinale Lercaro - il cui segretario e più stretto collaboratore era Giuseppe Dossetti, già anima dell’estrema sinistra democristiana - condannò, nel corso di una famosa e controversa omelia, i bombardamenti statunitensi sul Vietnam, mentre né lui, né altri prelati e monsignori progressisti avevano fiatato per l’invasione sovietica dell’Ungheria, o lo avrebbero fatto per quella della Cecoslovacchia; e meno ancora a avevano fiatato per il persecuzioni anticristiane nell’Unione Sovietica, nella Cina di Mao e in altri Paesi comunisti, perché i comunisti, in quel momento – anche sul piano della politica interna - erano visti come dei possibili e apprezzabili compagni di strada, coi quali i cattolici progressisti sentivano di avere, tutto sommato, più cose in comune che con i loro confratelli di tendenza conservatrice.
Nel Concilio Vaticano II Lercaro svolse un ruolo molto importante e fu specialmente lui a indirizzare i lavori nel senso di delineare una “Chiesa dei poveri”, nell’accezione puramente economica della parola: fu lui, pertanto, col suo consigliere-ispiratore Dossetti, ad attuare il passaggio dalla monarchia costituzione alla repubblica socialista; opera nefasta che è proseguita negli anni successivi e che culmina oggi con il pontificato di Francesco, il quale, paradossi dalla storia, si serve con estrema decisione di quel che resta degli strumenti coercitivi della monarchia assoluta (commissariamento dei Francescani dell’Immacolata e dell’Ordine di Malta; rimozione di vescovi e cardinali a lui sgraditi per sostituirli con uomini di sua fiducia) per instaurare definitivamente il socialismo nella Chiesa cattolica, con tutto ciò che questo comporta anche a livello di politica internazionale: si vedano le sue relazioni di ostentata amicizia con il presidente Obama e, viceversa, i suoi inauditi interventi nelle elezioni presidenziali americane terminate con la vittoria di Trump. E Lercaro, guarda caso, nel 1968 era stato legato papale al Congresso eucaristico di Bogotà, dove poté respirare a pieni polmoni la nascente teologia della liberazione.
La data ufficiale dell’inizio di questo processo di socialistizzazione della Chiesa è il 7 dicembre 1962, quando il cardinale Lercaro tenne uno storico discorso al Concilio, affermando che i nuovi schemi propositi dai padri non sembrano, più dei vecchi, tener conto in modo esplicito e adeguato della situazione storica, di questa rivelazione essenziale e primordiale del mistero del Cristo tra i poveri.Questo è un linguaggio rivoluzionario: con Lercaro non solo il socialismo, ma la rivoluzione entra nel Concilio, viene accolta ed applaudita, e la Chiesa diventa una chiesa rivoluzionaria, cioè sceglie di snaturare completamente se stessa e di trasformarsi in ciò che non era mai stata, con dei fini di giustizia terrena che, per quanto legittimi in sé, non hanno niente a che fare con il messaggio di salvezza rappresentato dal’Incarnazione di Gesù Cristo. Vale la pena di riportare un brano più esteso di quel discorso (da:Autobiografia della Chiesa. Dagli Atti degli Apostoli al testamento di Paolo VI, a cura di Michele Meslin e Jacques Loew; titolo originale: Histore de l’Église par elle-même, Paris, Fayard, 1978; traduzione dal francese di Massimo Cerea e Luigi Fiorani, Firenze, Sansoni, 1981, pp.647-650):

L’eresia pauperista della neochiesa è iniziata con Lercaro e Dossetti

di Francesco Lamendola
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