ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 25 gennaio 2018

Le prime vittime dell’inganno

LETTERA AD UN SACERDOTE - LA RISPOSTA DI BARONIO A PADRE GIOVANNI SCALESE



Per una penna un po’ polemica e talvolta acuminata come la mia, laLettera ad un Sacerdote (qui) rappresenta qualcosa di nuovo, specialmente nei modi in cui ho voluto comporla, cercando di parlare al cuore di un ideale destinatario, per suscitare nel mio interlocutore un moto interiore sincero, che riconoscesse nelle mie parole onestà di intenti e non una semplice occasione di sterile critica. Giacché la critica può toccare materie astratte, ma quando vuole accostarsi alle persone per farle riflettere deve necessariamente contemperarsi con la Carità, ossia con quello zelo per il bene altrui che ha come causa prima l’amore per Dio, ch’è Carità Egli stesso. E volere il bene di qualcuno, significa desiderare anzitutto che questi comprenda le ragioni per le quali si cerca di condividere con lui non tanto o non solo il frutto delle proprie riflessioni, quanto il loro oggetto ultimo, che deve essere sempre e solo il Signore, amato sopra ogni cosa.

La risposta del reverendo padre Scalese alla mia Lettera, pubblicata ieri su Antiquo robore (qui), mi onora per due motivi: per l’autorevolezza di chi l’ha scritta e per il modo in cui essa è stata formulata. Nelle sue parole non vi è traccia di animosità, né disprezzo per quel che ho scritto; al contrario, vi leggo un atteggiamento indulgente e - cosa molto rara - anche la condivisione di molti punti che altri giudicherebbero semplicisticamente inaccettabili. Parto quindi da questa constatazione di un comune punto di vista, nel tentativo di argomentare più diffusamente la tesi della Lettera, affinché possano diventare comuni anche le conclusioni, sulle quali al momento padre Scalese dissente. 
Non voglio dilungarmi sulle speculazioni inerenti la mia persona, anche se devo ammettere che il mio dotto interlocutore ha dato prova di una certa capacità investigativa, oltre che di gran pazienza nel cogliere anche da altri miei scritti alcuni elementi che potrebbero consentire di costruire un quadro più completo della fantomatica identità di Baronio. Dirò solo che alcune frasi, lasciate deliberatamente nei miei scritti, rivelano più un tempo dell’anima che non un mero computo anagrafico. 

Premetto che la Lettera non vuol essere un trattato sistematico sulla crisi della Chiesa, né intende esaurire l’analisi cronologica dei passi che hanno condotto all’apostasia presente: come giustamente ha notato padre Scalese, il racconto degli anni del lungo Pontificato di Giovanni Paolo II è «assai più sommario ed approssimativo». Ma d’altra parte sarebbe stato pedante elencare la progressività delle riforme di quel periodo, e probabilmente avrei finito per annoiare il lettore. Inoltre - anche se potrà stupire, detto da Baronio - mi sento di essere più indulgente verso la figura del Papa polacco, pur con tutte le riserve sulla sua visione filosofico-teologica, quale traspare dalle Encicliche ch’egli promulgò in quei ventisette anni - di quanto non sia nei confronti di Montini. Sia chiaro: la mia è una valutazione meramente caratteriale, ma ritengo che Paolo VI, al di là dell’impatto dottrinale, morale, liturgico e disciplinare del suo Pontificato, non abbia conquistato il cuore dei fedeli, cosa che per molti aspetti ha saputo fare Karol Wojtyla. Il grigiore calvinista di Montini, che caratterizza tutta la sua storia e gli atti del suo controverso ministero, mi sembra trovi conferma nella mancanza di quell’affetto sincero e quasi istintivo che il popolo viceversa ha mostrato nei confronti di Pio XII, di Giovanni XXIII e appunto di Giovanni Paolo II. 

Ma torniamo al contenuto della Lettera. Padre Scalese mi riconosce un’analisi veritiera: «Siccome quegli anni me li ricordo bene, mi sembra che la narrazione di Baronio corrisponda esattamente alla realtà». E questo per me non è poco: riconoscere con onestà di giudizio che i cambiamenti successivi al Concilio non sono avvenuti tutti all’improvviso, ma progressivamente anche se inesorabilmente, mi conferma che quell’esperienza fu vissuta e percepita da altri in modo simile. Vi fu chi, nell’entusiasmo del cambiamento à la Martini, non vedeva l’ora che quei cambiamenti avvenissero, e scalpitava impaziente per bruciare le tappe. Per molti, a quel che ho compreso dai commenti di tanti sacerdoti e laici, lo stillicidio quotidiano di riforme risultava invece destabilizzante e poco pedagogico, giacché la stabilità esteriore della disciplina della Chiesa è segno della sua stabilità interiore nella Fede e nella Carità, che in Dio non conoscono mutamento.

É pur vero che, dovendo rivolgermi ad un Sacerdote, ho dovuto e voluto abbracciare più generazioni di chierici. E padre Scalese l’ha notato subito: «Ho l’impressione che nella lettera vengano sovrapposte due generazioni, contigue, ma distinte: da una parte, essa si rivolge ai coetanei di Monsignore (formati prima del Concilio e che erano già sacerdoti quando hanno dovuto cominciare ad attuare le riforme volute dal Concilio); dall’altra, accenna in alcuni passaggi a chi, come me, il Concilio lo ha vissuto da bambino, ha fatto appena in tempo a servire la Messa antica, ha svolto tutta la sua formazione ed è divenuto sacerdote dopo il Concilio». Ed è proprio quello che intendevo fare: se avessi fatto riferimento solo ai «coetanei di Monsignore», avrei dovuto lasciar da parte chi «ha svolto tutta la sua formazione ed è divenuto sacerdote dopo il Concilio». Anche qui, spero mi si perdonerà la licenza letteraria, in nome di una maggiore incisività. 

Dovrei dire, in tutta onestà, che non mi considero nel novero di quanti «non hanno mai capito perché si dovesse fare un Concilio, non lo hanno capito, non lo hanno accettato e continuano a considerarlo all’origine di tutti i mali della Chiesa». Temo di dover confessare che la percezione del Concilio in tutta la sua portata eversiva non sia stata un fatto immediato, e peccherei di presunzione nell’affermare di aver capito subito cosa stesse accadendo. Non dimentichiamo che il Clero cui fu imposto il Concilio era stato formato in Seminarj ed Università in cui, a parte alcune eccezioni peraltro - col senno di poi - significative, l’idea che la Chiesa potesse esser fatta oggetto di una rivoluzione da parte dei suoi stessi membri era impensabile. Il monolite cattolico, è pur vero, dava segni di cedimento sin dall’epoca del Modernismo, mai realmente estirpato, ma resosi più astuto, dissimulato e prudente. Sotto Pio duodecimo il progressismo incombeva minaccioso, ancorché condannato dalla Santa Sede. Ma già con Giovanni XXIII si era compreso che molte delle istanze di rinnovamento erano solo un’altra declinazione dell’errore condannato da San Pio X, e pure lasciato sopravvivere in tanti Atenei. In questo, ne sono certo, padre Scalese potrà convenire con me. E converrà anche sul fatto che, nonostante questa serpeggiante minaccia percepita solo a certi livelli del mondo cattolico, il modo di vivere il Cattolicesimo negli anni precedenti il Vaticano II era sostanzialmente quello di sempre: in Curia si parlava in latino tra sacerdoti e Prelati stranieri; la Messa era quella di sempre, ed anche certi cambiamenti quali l’orientamento dell’altare versus populum o l’uso delle casule medievali non sembravano voler compromettere l’intero corpusecclesiastico, e sembravano piuttosto animati da buone intenzioni e confinate a rare eccezioni. Senza voler apparire pedante, dovrei dire che queste innovazioni si eran viste ben prima di Pio XII, sin dagli anni Venti, e che anche la riforma della Settimana Santa - di cui furono artefici gli stessi liturgisti che poi avremmo ritrovato al Concilio e nelle Commissioni ad exsequendam - non aveva suscitato poi molte perplessità. 

Ebbe viceversa un impatto devastante la traduzione latina del Salterio, imposta improvvidamente nella recita del Breviario, e poi provvidenzialmente resa facoltativa e infine abolita. Per chi era abituato alla preghiera canonica ed aveva acquisito famigliarità con la Vulgata, l’Ufficio Divino era divenuto un vero e proprio supplizio, che costringeva a leggere quei Salmi che, imparati a memoria, permettevano invece la vera preghiera. Anche qui, col senno di poi, si sarebbe capito che quello era un modo per minare un patrimonio inestimabile di pietà e devozione, dietro il pretesto di una maggiore fedeltà al testo originale. Ma né il Santo Padre né la Gerarchia avrebbero mai potuto ammettere che dietro questa operazione vi fosse una mente perversa. Eppure il risultato che ne derivò - e l’errore venne riproposto pedissequamente qualche decennio dopo, senza trarre lezione dal passato - fu che tanto il Clero quanto il popolo persero quella benedetta assiduità con la lingua della Chiesa che permetteva loro di assaporarne l’anima, sentendosi intimamente uniti a tutta la Chiesa, alla sua liturgia perenne. Fortunatamente a quell’imposizione rispose la tetragona sordità dei fedeli, che ai Vespri continuavano a cantare bellamente i Salmi come li avevano imparati da sempre, rifiutandosi di imparare l’ostica prosodia del Salterio di Bea. E questo durò in molte parrocchie fino agli anni Ottanta, ad esempio col canto del Miserere in Quaresima, a dimostrazione del fatto che i cambiamenti non significano quasi mai un miglioramento, quando il corpo sociale che li subisce attraversa i secoli. 

Non si stupisca quindi padre Scalese, quando affermo che furono in molti, moltissimi a non comprendere quel che si stava perpetrando sin da prima del Concilio. Nessuno, a quell’epoca, che non fosse parte attiva della congiura poteva realmente aver la percezione della minaccia che avrebbe potuto rappresentare la convocazione di un Concilio. Anzi: tutti nutrivamo la speranza più che legittima - ovvia, direi - che esso avrebbe segnato un momento di slancio apostolico, specialmente dopo la tragica esperienza delle due Guerre che avevano devastato l’Europa e l’Italia, i conflitti sociali che ne erano seguiti, la minaccia del Comunismo, la perdita di identità ad opera del processo di americanizzazione imposto alle masse dal cinema prima e dalla televisione poi. Non so se il mio reverendo interlocutore lo ricorda, ma vi furono momenti negli anni precedenti il Vaticano II in cui l’opposizione tra Cattolicesimo e Comunismo raggiunse livelli tremendi, specialmente in alcune regioni notoriamente rosse, dove ad esempio per la processione della Madonna di Fatima tutte le finestre delle case dei Comunisti rimanevano serrate, a differenza delle case dei Cattolici che esponevano drappi e tappeti. E come non ricordare le gare di bestemmie (sic!) organizzate dai movimenti di giovani comunisti, che volevano creare un contraltare all’Azione Cattolica, allora molto forte e non compromessa con la Sinistra?

Quel cartello che per ordine di Pio XII doveva essere esposto sulla porta di tutte le chiese, a ricordare la scomunica comminata ai Comunisti ed agli altri partiti atei e materialisti, trovava i fedeli assolutamente convinti dell’inconciliabilità tra Fede e Comunismo, e gli stessi atti preparatorj del Concilio, redatti dopo le consultazioni con l’Episcopato mondiale, prevedevano una condanna solenne del materialismo ateo. 

La formazione dei Chierici, l’obbedienza vissuta come normale espressione dell’appartenenza ad una società gerarchica, la fiducia nei Sacri Pastori ed il rispetto reverenziale verso il Romano Pontefice non potevano aprire alcuna breccia nemmeno davanti alle novità che, durante le prime sessioni della solenne assise, parevano sfuggire alla comprensione dei più. Dice bene padre Scalese: «Per noi il Concilio non era oggetto di disputa (a favore o contro); era l’aria che respiravamo»: quello che valeva per tanti Sacerdoti degli anni Settanta era ancor più vero per la generazione precedente, sia nel basso Clero - specialmente quello italiano -, sia negli esponenti della Gerarchia. Era impensabile - lo ripeto ancora - che quel che trapelava sulla stampa circa le discussioni dei Padri Conciliari potesse lasciar supporre che si stesse compiendo in seno alla Chiesa una rivoluzione di tale portata, da demolire l’intero corpo ecclesiale. 

Dirò di più: le stesse parole di Roncalli, nella famosa allocuzioneGaudet Mater Ecclesia con la quale egli apriva il Concilio, parevano voler finalmente por fine ad un’opposizione tra Chiesa e mentalità secolare, quasi a pacificare con un gesto di grandissima magnanimità la società prostrata da decenni di conflitti. Si era talmente abituati a considerare la Chiesa come Madre, che era inaudito anche solo osar mettere in dubbio l’onestà d’intenti della Gerarchia e del Papa. 

Padre Scalese osserva: «Personalmente, sono convinto che ci fosse un piano di demolizione della Chiesa; ma tale piano non è stato formulato in Concilio; è ad esso precedente. Il Concilio faceva certamente parte di quel piano, ma non è andato come previsto; come non sono andati secondo programma i cinquant’anni successivi al Concilio. Non per nulla, le forze della dissoluzione hanno continuato a tramare in questi cinquant’anni, finché non sono riuscite a conquistare il potere». É vero: il piano di demolizione della Chiesa non è stato formulato al Concilio, bensì prima della sua convocazione. Ma esso è riuscito a penetrarvi, prima con il rigetto ad opera di membri dell’Episcopato tedesco ed olandese degli schemi preparatorj approvati da Giovanni XXIII, e poi in modo sempre più aggressivo dopo la morte di Roncalli e l’elezione di Paolo VI. 

Vi è poi un’affermazione di padre Giovanni che non mi trova d’accordo: «Un Concilio è fatto, innanzi tutto, dai Vescovi. Che poi questi si servano dell’opera di teologi e periti (che possono essere piú o meno ortodossi), è vero; ma alla fin fine sono i Vescovi che approvano i documenti finali; ed è a loro che è garantita l’assistenza dello Spirito Santo». Il motivo del mio disaccordo non risiede tanto nella proposizione in sé, che ogni buon Cattolico deve ovviamente condividere; la ragione per cui non posso concordare con padre Scalese è che egli, come molti altri autorevolissimi Cardinali e Presuli presenti al Concilio furono le prime vittime dell’inganno ordito ai danni della Chiesa intera. Essi continuavano a ritenere di trovarsi in una situazione di normalità, in cui la legittima divergenza di opinioni dei Padri e dei loro collaboratori partisse dal presupposto condiviso dell’immutabilità del Depositum Fidei. In realtà, chi muoveva il Concilio non erano i Padri sinodali, ma i membri delle Commissioni, scelti e nominati con criterj discutibilissimi: decine e decine di teologi e periti che sino ad allora erano stati guardati con sospetto dal Sant’Uffizio per le loro tesi ardite, se non addirittura condannati per l’aperta formulazione di dottrine eterodosse. Chi li ha fatti nominare, e chi ne ha approvato la nomina, sapeva che sarebbe stato grazie al loro contributo ed alla loro esperienza che il Concilio sarebbe potuto diventare in itinere qualcosa di assolutamente diverso da ciò che si voleva fosse, o quantomeno da ciò che in buona fede credevano i Padri. Lo stesso mons. Lefebvre firmò gli Atti conciliari, assieme alla maggioranza dei suoi eccellentissimi confratelli. 

Per usare una similitudine, si potrebbe dire che lo svoligimento del Concilio ebbe le stesse dinamiche di una commissione convocata per decidere il restauro di un antico edificio storico, con un ordine del giorno preventivamente approvato in tal senso, ma in cui essa si trova ad approvare delibere redatte da altri, sulla base di un altro ordine del giorno, il cui tenore sembra volere il restauro di quell’edificio, mentre nei fatti, grazie ad espressioni deliberatamente equivoche, in sede di attuazione dei progetti lo si demolirà e si costruirà un centro commerciale o un parcheggio. Così chi approvava le delibere crede di contribuire al restauro dell’antico monumento, ma chi le ha redatte vuole ottenere un esito opposto. La buona fede dei membri di quell’assemblea nulla toglie alla portata devastatrice delle decisioni, perché non è l’intenzione di chi le ha approvate ad interessare, ma il risultato finale. 

Lo stesso è accaduto al Concilio, e gli studj recenti hanno consentito di svelare gli inquietanti retroscena della gestione criminale - e non uso questo termine a caso - da parte delle Commissioni. Si tenga ben presente che i metodi di manipolazione degli organi assembleari erano ben noti alla fazione progressista, mentre trovavano del tutto impreparati i Presuli conservatori. 

Senza enumerare i moltissimi casi di cui si hanno esempj dai diari dei Padri, potrei ricordare semplicemente la convocazione di una Commissione il giorno in cui si celebrava il solenne Pontificale per la proclamazione della Mater Ecclesiae. La notizia della convocazione venne lasciata la sera della vigilia nella casella dei Padri, sapendo benissimo che l’indomani la parte conservatrice si sarebbe recata ad assistere al rito papale, mentre i progressisti, debitamente informati, erano tutti presenti al voto, che ovviamente passò senza alcuna opposizione e venne presentato a Paolo VI come frutto di una regolare consultazione. Casi come questo erano la norma, e dimostrano che se da un lato vi fu una incomprensibile ingenuità in tanta parte dell’Episcopato, dall’altra si stavano adottando metodi dolosi e disonesti per far dire al Concilio, in seguito, ciò che mai sarebbe stato approvato se fosse stato espresso in modo diretto. 

D’altra parte, simile procédé è stato adottato anche al recente Sinodo per la Famiglia, e ne abbiamo avuto notizia da mons. Bruno Forte, della cui attendibilità non vi è ragione di dubitare. Riferendo le parole di Bergoglio, egli ha detto: «Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati, questi non sai che casino ci combinano. Allora non parliamone in modo diretto, tu fai in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io» (qui). Sull’eloquio bergogliano, glissons. Ma in realtà queste parole riassumono perfettamente non solo ciò che si è dimostrato esser avvenuto al Sinodo, bensì anche quello che avvenne al Concilio. Stessi metodi, e stessa malafede. E come al Sinodo i Padri credevanodi aver scongiurato la legittimazione del concubinato ed erano convinti di aver ribadito il divieto di ammissione ai Sacramenti per i pubblici peccatori, in realtà le decisioni erano state già prese altrove e ratificate in alto loco: si trattava solo di creare le premesse, e poi altri avrebbero fornito un’interpretazione prontamente ratificata, addirittura con la loro pubblicazione sugli Acta. 

Non erano guidati dallo Spirito Santo anche i Padri Sinodali? Non si dovrebbe poter dire di un Sinodo presieduto dal Papa ciò che padre Scalese afferma, «Un Concilio è fatto, innanzi tutto, dai Vescovi. Che poi questi si servano dell’opera di teologi e periti (che possono essere piú o meno ortodossi), è vero; ma alla fin fine sono i Vescovi che approvano i documenti finali; ed è a loro che è garantita l’assistenza dello Spirito Santo»? In condizioni normali sì, e sarebbe temerario affermare il contrario. In condizioni normali. Ma noi non ci troviamo in condizioni normali, e non lo eravamo nemmeno settant’anni fa, quando i più autorevoli esponenti della Curia Romana sconsigliavano la convocazione di un Concilio, giudicando troppo rischioso esporsi alle manovre dei novatori. La Storia ha dimostrato che essi non avevano torto, ma ripeto: a quel tempo nessuno ne aveva la percezione chiara, a parte pochi Cardinali. 

Affermare che il Concilio «è stato tradito» equivale a dire che Amoris Laetitia è stata fraintesa. Se quel Concilio fosse stato dottrinale, avrebbe formulato precise definizioni ed altrettanto precise condanne: ma non era quello che si voleva da parte dei novatori. Solo avendo un Concilio pastorale senza condanne e senza formule chiare si potevano creare le premesse per il cosiddetto postconcilio, seguendo appunto lo spirito del Concilio, ossia la sua anima, la suamens. A credere che il Vaticano II fosse più o meno come il Vaticano I erano solo gli ingenui, i Pastori in buona fede, tratti in inganno da traditori che sono tanto più colpevoli, quanto più il loro tradimento si mostrò verso chi si fidava di loro. 

Padre Scalese afferma: «Forse, se si studiasse la storia con maggiore attenzione, ci si accorgerebbe che anche in passato i concili sono stati accompagnati da polemiche e lotte spesso violente». Concedo. Ma mai, nella storia della Chiesa, queste polemiche sorsero in modo così massiccio e organizzato contro la Fede da parte degli stessi membri della Gerarchia. E dopo il pronunciamento di un Concilio - fosse quello di Ferrara-Firenze, il Tridentino o il Vaticano I - tutta la Chiesa vi si adeguò. Come si adeguò con il Vaticano II, ma contro tutti i Concilj precedenti, per la prima volta in tutta la storia della Chiesa. E se vi furono turbolenze contro i Concilj, esse vi furono da parte di coloro che quei Concilj avevano condannato.

É quindi speciosa la distinzione tra la lettera e lo spirito del Vaticano II: come indica la parola stessa, lo spirito è ciò che anima qualcosa. E lo spirito del Vaticano II non ha fatto eccezione, anche se questo impone l’inquietante necessità di trarre le dovute conclusioni. Aggiungerei: si è mai avuto uno spirito del Concilio di Calcedonia che in qualche modo ne ha contraddetto i dettami? o uno spirito del Tridentino che ne ha capovolto i decreti? No. E non vi è stato nemmeno un postconcilio costantinopolitano IV od un postconcilio lateranense III che abbia tradito quei Concilj.

Il problema del Vaticano II è che esso, nelle intenzioni di chi lo ha manovrato nell’ombra, doveva essere qualcosa di completamente diverso dagli altri Concilj Ecumenici, esattamente secondo la mensespressa da Bergoglio nella conduzione del Sinodo per la Famiglia. Ed è proprio padre Scalese che conviene con me sul fatto che «ci possano essere nel Concilio ambiguità di linguaggio», strumentali al loro utilizzo doloso. D’altra parte, non mi pare che l’ecumenismo di Assisi o degli incontri sincretici di questi decenni possa appigliarsi ad alcun documento magisteriale, se non a quelli deliberatamente equivoci del Vaticano II. Né che la dottrina eterodossa del permanere dell’Antica Alleanza trovi altra legittimazione se non inNostra Aetate. O che la collegialità abbia altre basi che non siano quelle di Lumen gentium. Anzi: tutti questi errori trovano unanime condanna nel Magistero precedente - guarda caso - proprio al Concilio. 

A riprova di ciò, inviterei padre Scalese a redigere una semplice statistica circa il ricorso a citazioni del Vaticano II nelle encicliche, negli atti e nelle allocuzioni papali da Paolo VI in poi, paragonandoli alle fonti preconciliari. Si vedrà che nel cosiddetto magistero postconciliare il riferimento a decreti precedenti al Concilio è drasticamente ridotto se non totalmente scomparso. 

Conclude padre Giovanni: «Pensare che, per contrastare l’attuale deriva, sia necessario abiurare il Vaticano II e tornare alla situazione ante è pura illusione». Ma se confermo che ritengo l’abiura del Concilio assolutamente imprescindibile per sanare la crisi presente, non mi pare di aver mai detto che è necessario tornare indietro. Anche perché sono convinto, come padre Scalese, che «senza il Concilio, non avremmo a disposizione gli strumenti per leggere correttamente l’attuale situazione, valutarne l’effettiva gravità e porvi adeguato rimedio». 


Il Concilio Vaticano II rimarrà nella storia della Chiesa come un’ingloriosa sconfitta della Gerarchia cattolica dinanzi ai nemici di Cristo. Voglia il Cielo che essa ci serva quale sprone per un doverosomea culpa - l’unico che finora nessun Papa recente abbia mai pronunciato - dinanzi all’immane disastro ch’esso ha causato alle anime, l’offesa alla Maestà divina, il disonore arrecato alla Chiesa ed al Papato.
Copyright MMXVIII - Cesare Baronio

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