ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 1 febbraio 2018

Ingegneria canonica

LA FAVOLA BELLA DEL CONCILIO TRADITO DAL POSTCONCILIO - CONTINUA LA DISPUTA TRA BARONIO E PADRE SCALESE



Non est enim pejor surdus,
quam anima quæ surda est, nec audire vult
.

Caro e reverendo padre Scalese,

ho avuto modo di leggere il Suo commento Concilio e tradizione pubblicato su Antiquo robore (qui). Apprezzo la risposta ed il pio tentativo di difendere il Concilio: esso conferma da un lato la Sua buona fede, ma dall’altro ahimè anche un errore di valutazione che proverò ancora una volta a chiarire, affinché Ella possa comprendere le ragioni - logiche ancor prima che teologiche - che mi hanno persuaso circa la necessità di rifiutare il Vaticano II, considerandolo elemento spurio del Magistero. 

La tesi della mia Lettera è che il Concilio Vaticano II non possa essere interpretato ed inteso come un qualsiasi Concilio Ecumenico. La mia argomentazione vuol dimostrare, con esempj, che vi sono elementi tali da far ritenere che il Vaticano II abbia la parvenza esteriore di un Concilio, ma che i suoi atti, così come sono stati redatti in seno alle Commissioni e poi approvati dai Padri, siano deliberatamente equivoci; e che questa equivocità, questocirciterismo siano stati surrettiziamente insinuati con due scopi: 

1 - da una lato di trarre in inganno coloro che dovevano approvare gli atti conciliari, o quantomeno di non generare in essi alcun allarme;
2 - dall’altro di consentire successivamente - in forza di quell’approvazione autorevole e pressoché unanime, ratificata dalla suprema Autorità della Chiesa - di interpretarli in un senso conforme rispetto alla mens del legislatore, contro le stesse norme generali di interpretazione canonica. 

A riprova di ciò, ho riportato l’esempio recente - e a mio avviso analogo - di conduzione del Sinodo della Famiglia, citando la frase di Bergoglio riportata da mons. Forte, a proposito della necessità di creare le premesse, tali da autorizzare - pur con una forzatura - delle conclusioni non esplicitate chiaramente: «Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati, questi non sai che casino ci combinano. Allora non parliamone in modo diretto, tu fai in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io».

L’affermazione eversiva attribuita da mons. Forte a Bergoglio non solo non è mai stata smentita, ma anzi ha trovato puntuale attuazione dopo il Sinodo, con la promulgazione dell’Esortazione Apostolica Amoris lætitia e con la pubblicazione da parte di alcune Conferenze Episcopali di norme pratiche dichiaratamente basate sull’interpretazione di Amoris lætitia favorevole all’ammissione dei divorziati ai Sacramenti. Non solo: lo stesso Bergoglio ha fatto pubblicare sugli Acta tali interpretazioni, dichiarandone la corrispondenza con la mens dell’autore dell’Esortazione Apostolica. 

Da questo episodio recente possiamo constatare alcuni fatti incontestabili:

1 - Bergoglio ha chiesto e ottenuto che venisse redatta una Relatio post disceptationem nella quale si facesse dire ai Padri Sinodali qualcosa che potesse essere da loro interpretato in senso ortodosso, e quindi fosse da essi approvato; ma che allo stesso tempo consentisse un’altra interpretazione successiva in senso eterodosso.

2 - L’Esortazione Apostolica è implicitamente coerente con questa seconda interpretazione eterodossa, non rispondente alla volontà e al voto dei Padri.

3 - Bergoglio ha fatto in modo che alcune Conferenze Episcopali rendessero chiara ed esplicita questa interpretazione e l’ha ratificata con un atto almeno apparentemente magisteriale, quale la pubblicazione negli Acta.

4 - Come risultato, il Papa ha presentato come volontà dei Padri Sinodali dei temi che essi non solo non avevano approvato, ma anzi contro cui si erano espressi a maggioranza. 

Se ne deduce che Bergoglio, con un vero e proprio inganno, ha falsificato i risultati del Sinodo per farsi promotore di una modifica della discipina canonica in materia di ammissione dei concubinarj ai Sacramenti, la quale ha un’immediata ripercussione sulla dottrina cattolica. 

I soggetti coinvolti in questa frode non sono periti o passacarte, ma lo stesso Pontefice ed importanti esponenti della Curia Romana e dell’Episcopato, appositamente designati da Bergoglio in seno al Sinodo. Le vittime sono quei Vescovi che hanno approvato un documento equivoco, cadendo in inganno per ingenuità o imperizia. 

Ora, se ciò è potuto accadere sotto gli occhi di tutti e senza suscitare - salvo rarissime eccezioni - una sollevazione indignata dei Presuli, per quale motivo non sarebbe potuto avvenire in seno al Concilio, con simili modalità, dal momento che esso presenta inquietanti analogie con il Sinodo?

Infatti, tanto il Sinodo quanto il Concilio hanno proposto documenti gravemente equivoci, che consentono un’interpretazione vagamente cattolica a chi li voglia giustificare, ma anche un’interpretazione di segno opposto. Tanto il Sinodo quanto il Concilio sono stati manovrati da personaggi influenti all’interno delle Commissioni e ricorrendo a ben noti sistemi di manipolazione del voto, alterazione delle maggioranze richieste, forzature in conflitto con le procedure approvate. Tanto il Sinodo quanto il Concilio si sono presentati a parole come eventi ecclesiali a difesa della morale e della dottrina per non suscitare le legittime reazioni dei Padri, mentre nei fatti hanno favorito deviazioni morali, dottrinali e disciplinari sotto gli occhi di tutti. Tanto il Sinodo quanto il Concilio hanno beneficiato di un’autorità e di un prestigio tali da imporre obbedienza nel Clero e nei fedeli, sovvertendo la finalità stessa dell’obbedienza che è subordinata alla Verità che la Chiesa ha il compito non di modificare né contraddire ma di custodire. 

Il 14 Aprile 2016 Ella scrisse un articolo, apparso su Chiesa e Postconcilio (qui) nel quale diceva: «Il fatto che nei giorni successivi all’uscita dell’esortazione siano stati pubblicati commenti contrastanti fra loro non dovrebbe far riflettere? Non sarà che il linguaggio usato non fosse sufficientemente chiaro? È possibile che sullo stesso documento ci sia chi afferma che non cambia nulla e chi lo considera rivoluzionario? Se un’affermazione fosse chiara, non se ne dovrebbero poter dare contemporaneamente due interpretazioni opposte. La confusione provocata non dovrebbe essere un campanello d’allarme?» Ora, al di là delle domande retoriche - che contengono in sé già la risposta al quesito che sollevano - io credo che si dovrebbero applicare questi argomenti anche al Concilio: non è forse vero - per usare una domanda retorica - che anche i documenti del Vaticano II abbiano suscitato commenti contrastanti? che il linguaggio usato non è sufficientemente chiaro? che vi sia chi considera il Concilio in chiave di ermeneutica della continuità e chi di ermeneutica della rottura? 

Il suo commento continuava: «Mi rendo perfettamente conto che Amoris laetitia sfugge a questa logica dottrinale-giuridica, per porsi su un piano squisitamente pastorale; chiedo solo: è corretto rimettere in discussione un insegnamento ormai praticamente definitivo?» Ma io Le chiedo: non è forse vero che anche il Concilio sfugge a questa logica dottrinale-giuridica, per porsi su un piano squisitamente pastorale? non ha esso fosse rimesso in discussione, ad esempio con la Dignitatis humanæ, un insegnamento già più volte solennemente definito? E per quale motivo, nonostante questa contraddizione, Ella ha citato in quell’articolo fonti del Concilio a sostegno delle proprie tesi, quando queste fonti, per deliberata volontà del loro estensore, si sono volute meramente pastorali e non magisteriali, creando per la prima volta nella storia della Chiesa un’artificiosa divergenza tra dottrina e prassi? Affermare che un documento non è magisteriale costituisce una foglia di fico, che rivela la vergogna di un peccato già commesso, ma per il quale è ben più necessario un atto di accusa, il pentimento, la riparazione e il fermo proposito di non ricadervi.

Ella sostiene che lo spirito del Concilio si oppone al Concilio stesso: che cioè si sia fatto dire al Concilio ciò che esso non affermava, essendo questo un atto del Magistero. Però poi sostiene che Amoris lætitia non è un atto magisteriale. A me pare invece che vi sia chi cerca di appellarsi allo spirito dell’Esortazione postsinodale, proprio appellandosi al testo volutamente equivoco dell'Esortazione stessa, esattamente come si poté fare col Concilio, per l’ambiguità dei metodi tipici dei Modernisti.

Interpretare il Concilio in senso cattolico, per quanto teoricamente legittimo - e, si dovrebbe dire, persino ovvio, in condizioni di normalità - è un’operazione ex post di ingegneria canonica assolutamente inefficace e sconfessata dalla storia. Come inefficace, a ben vedere, fu aggiungere ex post quella Nota praevia, allorché Paolo VI avrebbe dovuto correggere  direttamente il testo di Lumen gentium: sarebbe come accorgersi che un medicinale è nocivo alla salute e limitarsi a scriverlo sul bugiardino, senza ritirarlo dal commercio. 

Perché l’errore di questa pia convinzione - secondo la quale le leggi della Chiesa vanno sempre interpretate ad mentem legislatoris - è di presupporre che l’equivoco sia non voluto, e che quindi sia sufficiente precisarlo per mostrarne la coerenza con l’intero Magistero; mentre è facilmente dimostrabile - come avvenuto al Sinodo della Famiglia - che quelli che i Padri Conciliari hanno approvato erano testi appositamente equivoci, non per errore, ma per deliberata intenzione di trarre da essi quelle conseguenze che ripugnavano con la mens di una gran parte dei Padri stessi. 

Leggere i documenti conciliari in senso cattolico costituisce una falsificazione, perché proprio per il modo in cui essi erano stati formulati non dovevano esserlo: dovevano solo far credere di esserlo, così da venire approvati e promulgati. Perché dovrebbe esser possibile ammettere l’inaudita frode dell’Esortazione bergogliana e negare che essa abbia trovato un precedente proprio al Concilio, da parte di altri Prelati altrettanto ultraprogressisti? O vogliamo dire che l’estensore di Amoris lætitia voleva promulgare un documento che non modificasse la disciplina sull’ammissione dei concubinarj ai Sacramenti, e che sono stati i Vescovi ultraprogressisti di alcune Conferenze Episcopali ad interpretarla in senso eterodosso?

Veniamo a Giovanni XXIII. Ella afferma, riferendosi alla convocazione del Concilio: «Pio XII […] preferí soprassedere, consapevole appunto dei pericoli che la convocazione di un concilio avrebbe comportato.Chiaramente, in Italia non ci si rendeva conto di che cosa stesse bollendo in pentola in quel momento, ma in Curia sapevano bene quale fosse la situazione della Chiesa nel resto d’Europa». Ma poco dopo aggiunge: «Sono convinto che neppure Giovanni XXIII si rendesse perfettamente conto delle possibili conseguenze della sua storica decisione. Lo dimostra il fatto che, contestualmente al Concilio, convocò anche il Sinodo Romano, che ebbe esiti assai diversi rispetto alle successive assise conciliari. Ciò fa pensare che, nella mente del “Papa Buono”, il Concilio si sarebbe dovuto svolgere sulla falsariga del Sinodo diocesano, mentre nella realtà le cose andarono in maniera un tantino diversa». 

Eppure, nonostante i fondatissimi timori della Curia Romana, Roncalli volle convocare il Concilio: mi pare che questa decisione possa esser giudicata quantomeno temeraria. Ma la storia ci presenta una realtà ben diversa: infatti, il benedettino dom Lambert Beauduin, fautore del movimento ecumenico e della riforma liturgica, confidandosi con padre Bouyer - un altro novatore nominato da Paolo VI membro della Commissione teologica internazionale e poi consultore al Concilio per la liturgia, quindi alla Congregazione del Culto divino e al Segretariato per l'unità dei Cristiani - alla morte di Pio XII disse: «Se eleggono Roncalli, tutto si risolverà; egli sarebbe capace di indire un Concilio e consacrare l’ecumenismo».

Ho il ricordo personale di un colloquio tra due professori universitarj notoriamente modernisti, nel 1958, appena eletto Roncalli: «Questo è un discepolo di Ernesto Bonaiuti: adesso abbiamo via libera». Come vede, reverendo, chi conosceva il Patriarca di Venezia sapeva bene che non era né uno sprovveduto né un ingenuo.

Non è poi vero che il Concilio «si sarebbe dovuto svolgere sulla falsariga del Sinodo diocesano», casomai è vero il contrario, e cioè che le norme emanate per la Diocesi di Roma nel 1960 sarebbero presto rimaste lettera morta, perché vanificate dal capovolgimento di mentalità imposto dal Vaticano II. Lei forse era ancora piccolo, ma alla chiusura del Concilio il Tevere fu costellato di cappelli romani, gettativi simbolicamente dai seminaristi dei Collegj e degli Atenei, e da non pochi chierici che già avevano compreso la portata rivoluzionaria di quell’assise. Così la ferraioletta, che il Sinodo imponeva ai reverendi per recarsi in Vicariato, scomparve nel giro di pochissimo tempo, ed anzi furono ben pochi ad osservare le norme ch’esso impartiva, sapendo quanto rappresentassero l’ultimo gesto di commiato di una Chiesa destinata a scomparire per far posto alla nuova religione. Non dimentichi che il Sinodo era stato organizzato da quella Curia che sotto Roncalli prima e Montini poi venne sistematicamente smantellata per sostituirvi gli homines novi del Concilio, tra cui molti amici dei due Papi, che fino a Pio XII avevano conosciuto i rigori delle condanne del Sant’Uffizio.  

Ella concorda con me anche sul fatto che il Vaticano II, negli schemi preparatorj, doveva essere un vero e proprio Concilio Ecumenico, al pari di tutti gli altri, per il quale era appunto prevista la proclamazione di dogmi e la condanna del materialismo ateo. E concorda pure sul fatto che così non avvenne, nonostante sul soglio sedesse quello stesso Giovanni XXIII che pure aveva approvato quegli schemi. Dinanzi alla prevaricazione di pochi, organizzatissimi congiurati, a nulla valsero le proteste dell’ala conservatrice: per quale motivo? Perché Roncalli sapeva benissimo quel che faceva, fin dove si sarebbe potuto spingere e quel che avrebbe poi fatto il suo successore. Ed è chiarissimo che quel progetto di demolizione - forse non compreso in tutta la sua portata eversiva nemmeno da parte dei suoi stessi protagonisti - non fu minimamente ostacolato, quando non venne addirittura favorito, da Giovanni XXIII e da Paolo VI. 

Quel che non comprendo è come Ella possa convenire con me - «Sull’esistenza di un piano, non per riformare ma per rivoluzionare la Chiesa, Baronio e io ci troviamo d’accordo. […] Sono convinto che il piano di destabilizzazione della Chiesa ci fosse e che, durante il Concilio, si sia fatto di tutto per attuarlo» - e poi dissenta circa i risultati, sostenendo che «il Papa e i Padri conciliari abbiano svolto, sotto la guida dello Spirito Santo, una sapiente opera di discernimento». A me pare che sia a dir poco irrispettoso nei confronti del Paraclito attribuirGli il disastro conciliare; quel che si può al massimo concedere, è che lo Spirito Santo abbia impedito che il Vaticano II fosse peggio di quel che ha dimostrato di essere. Le ricordo che l’assistenza del Consolatore non agisce indefettibilmente su chi è indocile alla Grazia, e che in questo - a parte i casi ben determinati dalla dottrina, in cui il Magistero papale è coperto dal carisma dell’Infallibilità - non fanno eccezione nemmeno il Papa ed i Vescovi, come peraltro dimostrano ampiamente le aberrazioni cui assistiamo in questi giorni, ch’Ella giustamente riconosce.

Quanto alla necessità di un rinnovamento - «penso che vada serenamente ammesso che nella Chiesa preconciliare ci fosse qualcosa da cambiare» - mi permetto di osservare che la riforma auspicata per la Chiesa avrebbe dovuto sanare quello spirito mondano e secolarizzato che si era infiltrato tra i chierici, spirito che viceversa il Concilio ha confermato. Non mi pare si possa affermare - anche solo a leggere i resoconti ed i diarj dei Padri Conciliari - che costoro «si sono opposti con forza alle proposte eversive»: chi si oppose venne tacciato semplicisticamente di tradizionalismo, ghettizzato, addirittura messo a tacere nell’aula conciliare, come nel caso del Card. Ottaviani. Altri - pur scettici circa le proposte dell’ala progressista - per una inveterata abitudine all’obbedienza o per il rispetto ch’essi portavano al Vicario di Cristo, ritennero che se quelle proposte erano state approvate dal Papa vi ci si doveva adeguare in silenzio. Altri ancora, perfettamente consapevoli di quanto si preparava, prestarono la propria opera quali cooperatori attivi. 

Non posso non dissentire con Lei, allorché Ella afferma che «i risultati del Concilio — i suoi documenti, intendo — non sono stati quelli previsti e auspicati dai novatores (tanto è vero che non sono stati accolti da loro con eccessivo entusiasmo)». Quando mai i novatores hanno criticato i documenti conciliari? Non è forse vero il contrario, e cioè che essi si sono fatti scudo proprio di quei documenti per legittimare le più ardite innovazioni dottrinali, morali, liturgiche e disciplinari di questi decenni? E se mai da parte loro vi fu scarso entusiasmo, non è forse questo da attribuire al fatto che le famose premesse da essi poste al Concilio tardavano a produrre le auspicate conseguenze? Abbiamo mai udito un solo Vescovo o teologo progressista lamentarsi di Nostra ætate o diDignitatis humanæ? O non è vero il contrario, e cioè che tutti gli atti magisteriali contro cui essi si sono scagliati erano o precedenti al Concilio, o considerati con esso incoerenti, come appunto la Nota prævia o Humanæ vitæ? Non erano sempre loro, sin dalla promulgazione di quest’Enciclica, a considerarla retaggio di un Magistero preconciliare, in conflitto col progresso e con la mentalità del mondo?

Sulla favola bella del Concilio opposto al postconcilio, in cui Ella evidentemente crede, intervenne anche Benedetto XVI: «Per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire». Ma non furono il New York Times, né il Corriere della Sera, a creare il virus della collegialità e delle Conferenze Episcopali, né a chiedere una maggiore partecipazione attiva dei laici nel governo della Chiesa: sono stati i documenti del Concilio Vaticano II a farlo. Non fu la stampa ad adottare il nuovo Codice di Diritto Canonico, il quale, per volere del Padre del Concilio Giovanni Paolo II, trasformò in legge la collegialità. Ecco cosa scrisse Giovanni Paolo II nel suo decreto di promulgazione del Codice: «Questa nota di collegialità, che caratterizza e distingue il processo di origine del presente codice, corrisponde perfettamente al magistero e all’indole del Concilio Vaticano II. Perciò il Codice, non soltanto per il suo contenuto, ma già anche nel suo primo inizio, dimostra lo spirito di questo Concilio, nei cui documenti la Chiesa universale sacramento di salvezza (cfr. Cost. Dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, nn. 1, 9, 48), viene presentata come Popolo di Dio e la sua costituzione gerarchica appare fondata sul Collegio dei Vescovi unitamente al suo Capo» (Cost. Ap. Sacræ disciplinæ legesqui).

Allo stesso modo, Benedetto XVI dà la colpa della crisi liturgica a ciò che egli chiama Concilio virtuale, non al Concilio storico: «E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via».

In base a questa immaginaria dicotomia, non sarebbe stata la Costituzione sulla Sacra Liturgia a chiedere la revisione dei libri liturgici per renderli più pertinenti, che permise l’inculturazione delle relative pratiche locali, che autorizzò per la prima volta le traduzioni che il Santo Padre deplora; insomma, non fu Sacrosanctum Concilium a distruggere lo stretto controllo gerarchico sulla Liturgia, che la Santa Sede aveva praticato per secoli per permetterne la preservazione. Non fu una Commissione della Santa Sede, sotto l’occhio vigile di Paolo VI, che approntò la nuova Messa, respinta dai due terzi dei Vescovi quando per la prima volta la si mostrò loro. Ed anche se quelle deplorevoli traduzioni furono tutte autorizzate dal documento del Concilio e dalla Santa Sede, la distruzione della liturgia fu precedente ad esse, perché le obiezioni teologiche alla nuova Messa sono fondate primariamente non tanto sulla cattiva traduzione del testo latino, quanto sul testo latino stesso. Il quale, per chi ha consuetudine con la voce della Chiesa, suona falso, artefatto, e pensato come un canovaccio, un brogliaccio nemmeno destinato ad essere usato per il culto.  

Quanto al mio giudizio sui Papi del postconcilio, credo non sussistano dubbj circa la loro responsabilità - quantomeno omissoria - nella difesa del Depositum Fidei. Il pantheon di Assisi non l’ha fatto Pio IX, né Pio XII ha mai dichiarato gli Ebrei «fratelli maggiori». La laicità dello Stato così com’è intesa oggi non è magistero di Leone XIII, né San Pio X ha mai baciato il Corano o visitato una moschea. I Vespri ecumenici a San Paolo non li ha celebrati Pio XI e sotto Benedetto XV non è mai stato sostituito il Simbolo Niceno con quello degli Apostoli per non offendere gli Eterodossi. E non ricordo che nessun Papa prima di Montini abbia deposto la tiara, restituito i vessilli delle ammiraglie turche conquistati a Lepanto o incontrato gli esponenti del B’nai B’rith. O sbaglio? Che da Giovanni XXIII a Benedetto XVI si siano promulgati anche - direi quasi per accidens - dei documenti ortodossi, questo sta a dimostrare che, almeno nelle questioni che coinvolgono l’Infallibilità, lo Spirito Santo impedisce ai Papi di definire ex cathedra delle eresie. Ma l’esempio ed il Magistero non coperto dal carisma dell’Infallibilità da Roncalli in poi, nessuno escluso, è comunque coerente con le deviazioni del Vaticano II, che appunto non solo non voleva essere, ma nemmeno poteva essere un concilio dottrinale. 

Ecco perché quella Sua frase - «Non credo proprio che i santi Pontefici, che il Signore ha donato alla Chiesa in questi cinquant’anni, avessero intenzione di portarci gradualmente, a nostra insaputa, alla situazione attuale» - suona a dir poco paradossale. Un’analisi attenta e scevra da pregiudizj sull’opera dei Pontefici postconciliari non potrà che confermare da un lato la loro formazione intellettuale e teologica perfettamente coerente con la mentalità conciliare, e dall’altro il loro ruolo svolto in seno a quell’assise - come nel caso di Ratzinger - o nella sua applicazione successiva. E le resipiscenze tardive di Benedetto XVI non hanno mai messo in discussione il Concilio, ma i suoi eccessi, esattamente come i Girondini ebbero a deplorare gli eccessi della Rivoluzione pur condividendone i principj e le finalità. 

C’è poi una Sua frase sconcertante: «Credo che sia giunto il momento di cominciare a difendere il vero Concilio da chi pretende di farsene abusivamente interprete, spacciando per “Concilio” ciò che ne è una semplice caricatura». Ed è ancor più sconcertante leggere: «Credo che sia giunto il momento in cui i veri amanti della tradizione incomincino a considerare il Vaticano II e il magistero postconciliare come parte della tradizione (con tutti i possibili distinguo sul piano teologico) e a difenderli in nome della tradizione», perché alla Tradizione ripugnano le modalità stesse in cui si è espresso questo Concilio. Dico sconcertante, perché a mio avviso pensare al Vaticano II usando le categorie che normalmente si applicano ai Concilj Ecumenici equivale sostanzialmente a giudicare il Magistero di Bergoglio usando le categorie che si applicano al Magistero di Pio IX.

Ecco perché non è sostenibile questa sua affermazione: «Pensare che la tradizione si sia fermata al 1962 (o al 1958) significherebbe dare ragione a quanti prima, durante e dopo il Concilio, fino ai nostri giorni, hanno cercato e stanno cercando di sovvertire la Chiesa». La Tradizione non si sarebbe dovuta fermare, né si è fermata quando è riuscita ad emergere dalle nebbie con documenti infallibili, quale ad esempio la Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II, che Bergoglio si appresta a contraddire ancorché essa sia impeccabilmente cattolica nella forma e nella sostanza. Anzi: proprio in quanto cattolica ed infallibile. Il Suo riferimento ai veterocattolici - che cattolici non sono - non è pertinente, perché essi rifiutarono proprio di accettare la Tradizione che si esprimeva nella voce della Chiesa, confinandosi in una tradizione sterile, ch’essi credevano comunque migliore; i modernisti non sono da meno, perché rifiutano la Tradizione gettandosi in un futuro che per loro rappresenta comunque un progresso migliore del passato. Ed anche qui: se da un lato non è possibile tornare indietro, perché mai col Concilio avremmo dovuto ritrovare una «“grande tradizione” della Chiesa, dalla quale probabilmente, col passare dei secoli, ci si era talvolta allontanati»? Cosa autorizza a ritenere che la Santa Chiesa si sia allontanata dalla sua Tradizione prima del Concilio? Non sono invece gli eretici di tutti i tempi ad abbandonare la Tradizione, col pretesto di ritornare ad una purezza originale del messaggio cristiano?  

Infine conclude: «Sono convinto che, per opporsi all’attuale deriva, non si possono continuare a usare le armi spuntate della neoscolastica preconciliare». Mi piacerebbe capire - magari con una risposta argomentata - in virtù di quale principio Ella parli di neoscolastica e non di scolastica tout-court, e perché la consideri inefficace per controbattere gli errori attuali, se non per quel pregiudizio insinuatoLe sin dal Seminario, assieme al latte maternodella dottrina conciliare. Le ricordo che il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva che la filosofia e la teologia fossero insegnate «ad Angelici Doctoris rationem, doctrinam et principia», raccomandando che docenti e discenti «ea sancte teneant» (can. 1366, § 2). Forse non è un caso se, anche in questo, la neo-chiesa si è voluta discostare dalla saggezza della Chiesa Cattolica. 

Spero che Ella, reverendo padre, vorrà ricredersi sul fatto che il mio non è un «rifiuto aprioristico del Concilio apparentemente motivato», ma si fonda su argomentazioni che la logica, la storia, la dottrina confermano come necessario per la salvezza della Chiesa e delle anime ad essa affidate. 

Quanto ai «ferri vecchi del passato», mi permetto di farLe presente che se c’è qualcosa di irrimediabilmente démodé, questo è il ciarpame ideologico che ci viene riproposto da cinquant’anni senza accorgersi di quanto sia squllidamente vintage, e di cui Bergoglio è massima espressione e al tempo stesso infelice risultato della formulazione conciliare. Il resto - come il Vangelo stesso, d’altra parte, o la Messa tridentina - non è vecchio, ma antico e venerando. E mai fuori moda. 

Copyright MMXVIII - Cesare Baronio

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Vedi anche:

- Cesare Baronio, Lettera ad un Sacerdote (qui)
- padre Giovanni Scalese, Un inganno durato cinquant'anni? (qui)
- Cesare Baronio, Lettera ad un Sacerdote - La risposta di Baronio a padre Giovanni Scalese (qui)
padre Giovanni Scalese, Concilio e tradizione (qui)


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