ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 15 marzo 2018

Contrordine vedove inconsolabili..

 Non ci sono vedove più inopportune e petulanti di quelle che non possono piangere definitivamente il caro estinto. Basta un fremito attorno alla memoria del poverino e lo prendono per la conferma che come lui non c’è nessuno. L’hanno sempre detto, povere anime. Basta un niente perché il salottino di queste signore tornate quasi signorine venga impreziosito da un nuovo quadretto di peltro, da un ricordino posato lì con finta distrazione e guai chi li sposta. Sono i segni che lui continua a vegliare e chissà che cosa è capace ancora di inventarsi.
Prendete le vedove di Benedetto XVI. A cinque anni dalle D-I-M-I-S-S-I-O-N-I, sono convinte che se il mondo non è ancora finito nella geenna lo si debba a colui che veglia nelle emerite stanze. E ogni notizia in proposito porta nei loro tinelli, a seconda dei casi, un brivido di piacere o un moto rabbia. Quasi sempre un moto di rabbia, bisogna riconoscere, come quello procurato nei giorni scorsi dalla “clamorosa” lettera in cui il Papa Emerito avalla la statura teologica del Regnante e proclama la continuità dei due pontificati.

“Clamorosa” tra virgolette, perché è il termine usato dai giornali, ma soprattutto perché il contenuto non è una notizia. Quando mai Benedetto XVI ha sconfessato Francesco I? Un po’ per pietà e un po’ perché da queste pagine lo diciamo da qualche anno, non è necessario ricordare nel dettaglio gli attestati di stima, di obbedienza e di riconoscenza con cui il Predecessore si è sempre rivolto al Successore.
Ma le vedove non la fanno così semplice. Non gli basta la storia, figuriamoci la cronaca. Se Ratzinger elogia Bergoglio, dietro c’è sicuramente un complotto. Bisogna dire che, in questo, hanno avuto una valida mano dagli addetti alla comunicazione del Vaticano, i quali hanno citato solo una parte dello scritto di Benedetto XVI, alimentando maldestramente dubbi e sospetti. La comunicazione, sia detto per inciso, non è mai stata il punto forte della Chiesa da quando ha sostituito il sangue dei martiri con l’inchiostro degli scribacchini. Ma questo è un altro capitolo. Sta di fatto che il prefetto della Segreteria per la Comunicazione, Dario Edoardo Viganò, ricevuta la lettera per la presentazione della collana “La teologia di Papa Francesco”, ha pensato bene di rendere noti i seguenti passi: “Plaudo a questa iniziativa che vuole opporsi e reagire allo stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano oggi”. E poi ancora: “I piccoli volumi mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento”.
Standing ovation di tutti i vecchi avversari di BXVI a plaudire lo stesso senso della Chiesa che prima fischiavano impietosamente. E poi, in un angolo, le vedove inconsolabili agguerrite con i malcreati che hanno spostato le cornicette sul tavolino tirato a lucido. C’era quella voleva vedere, come è normale che sia, il testo completo della letterina, però nella versione autografa perché certi passaggi non potevano essere attribuiti alla mens di Benedetto XVI. Quella che chiedeva di vedere anche la lettera dell’incauto comunicatore Viganò per sapere che cosa lui avesse chiesto all’Emerito in proposito del Regnante. L’altra che si impuntava su termini come “stolto” che mai e poi mai il raffinato Ratzinger aveva usato nei suoi scritti, se non in una citazione di San Paolo, in latino ça va sans dire. Insomma, la lettera, comprensiva, di elogi al Successore, non poteva essere del Predecessore.
Poi, qualche ora dopo, lo scoop, un colpaccio da premio Pulitzer, il seguito della lettera in cui BXVI declina l’invito a scrivere un’introduzione teologica alla pregevole opera: “Tuttavia non mi sento di scrivere su di essi una breve e densa pagina teologica perché in tutta la mia vita è sempre stato chiaro che avrei scritto e mi sarei espresso soltanto su libri che avevo anche veramente letto. Purtroppo, anche solo per ragioni fisiche, non sono in grado di leggere gli undici volumetti nel prossimo futuro, tanto più che mi attendono altri impegni che ho già assunti. Sono certo che avrà comprensione e la saluto cordialmente. Suo, Benedetto XVI”.
Contrordine vedove inconsolabili, è proprio lui, Benedetto XVI, che scrive. È riconoscibile dalla fine ironia (l’ironia è sempre fine o sottile quando si amano gli stereotipi) con cui ripaga nella seconda parte della lettera il dazio che ha dovuto versare nella prima.
Ma qui, come direbbe Aldo Baglio, quello di Aldo, Giovanni e Giacomo, sorge spontanea una domanda nel gargarozzo: perché l’Emerito ha dovuto pagare dazio al Regnante? Con quali minacce il Predecessore viene costretto ogni volta a plaudire il genio misericordioso del Successore? C’è un non detto che si deve non dire? Oppure, per salvare le anime dalle zanne bergogliane, basta la sottile ironia ratzingeriana affidata alla decodificazione ermeneutica delle candide vedove inconsolabili?
Questa è la cronaca di una bolla in un bicchierino di rosolio che non meriterebbe considerazione, se non fosse che vari lettori hanno scritto per chiedere qualche delucidazione. Una lettera, in particolare, è composta da due parole soltanto, ma così perentorie, da indurre a una risposta: “E adesso?”, chiede il signor Roberto. Adesso, è meglio lasciare le vedove nel loro tinello a tirare a lucido la foto del caro estinto. Da quando si sono date una spruzzata di “Conservatore numero 5”, si trovano così bene fra i loro ninnoli d’antan che è peccato disturbarle. Ciascuna è lì per motivi suoi, ma non fa niente. Chi perché pensa che la Chiesa l’abbia fondata il Gius e BXVI ne sia il suo profeta, chi perché è nato moderatamente incendiario e muore moderatamente pompiere, chi perché gli intrighi e gli accrediti della Sala Stampa sono sempre gli intrighi e gli accrediti della Sala Stampa, chi perché si è convinto che in Vaticano alcuni intrepidi difensori della fede stanno preparando il dopo Bergoglio e non bisogna scoprirli. La sera, come Marilyn Monroe, indossano una sola goccia del profumo tanto amato e vanno a letto estasiate.
Chi, invece, ha veramente a cuore tutto ciò che la Chiesa è stata nei secoli per portare le anime a Cristo non si faccia irretire da false illusioni sulla macchinazione maligna che terrebbe in scacco l’Emerito a favore del Regnante. Come diceva un critico ai tempi in cui spopolava lo strappalacrime “Love Story”, “Non piangete, vi prendono in giro”.
Esiste veramente un complotto, ma è quello a cui Joseph Ratzinger ha partecipato da protagonista in giacca e cravatta come perito e consigliere del cardinale Joseph Frings dal 1962 al 1965, si chiama Concilio Vaticano II ed è stato ordito ai danni della Chiesa cattolica. Ha origine qui la fasulla contrapposizione tra Benedetto XVI e Francesco I, che del resto viene puntualmente smentita dagli interessati, a partire dalle terribili foto in cui si fanno ritrarre insieme.
D’altra parte, le vedove dell’Emerito hanno solo da ridire sul fatto che il vescovo venuto dalle pampas entra con gli stivali sporchi di fango là dove prima si tirava tutto a cera. Per rimettere le cose a posto, sempre secondo le vedove, basterebbe una personcina ben educata che ragionasse e agisse in punta di Concilio, senza troppe stramberie. Ma non si rendono conto che sempre di apostasia si tratta. È il Vaticano II, bellezza. Dopo Francesco I, ci sarà solo un Francesco II, comunque deciderà di chiamarsi, perché prima di Francesco I c’è stato un Benedetto XVI e via via risalendo per i lombi della sovversione assisa sullo scranno di Pietro.
A suo tempo ho sperato che Benedetto XVI potesse davvero rallentare la marcia verso il baratro. Mea culpa. Ho pensato anche che certi suoi atti, per quanto incompleti e persino ambigui, opportunamente confezionati potessero diventare strumento di resistenza alla dissoluzione. Mea maxima culpa. Vedevo che erano armi scariche e ho combattuto lo stesso fingendo di sparare. Ricordo benissimo il sorrisetto ironico, neanche tanto fine, dei sacerdoti che rifiutavano la celebrazione della Messa antica mentre noi opponevamo un generico “la vuole il Papa”. Quale Papa, se non ha mai alzato una mano per difendere la carne da macello tradizionale usata come cavia dell’agone hegeliano in cui vince il più potente? Avevano ragione quelli che, documenti alla mano, spiegavano come quel Papa non volesse mettere in discussione niente di ciò che la rivoluzione aveva veramente acquisito. Giusto una raddrizzatina a certi eccessi estetici e niente di più. Il teologo Joseph Ratzinger aveva troppo a cuore ciò che a suo tempo definì con orgogliosa tenerezza un anti-Sillabo, l’anticristico principio della libertà religiosa, la pietra angolare della nuova religione predicata dalla nuova chiesa, per occuparsi di chi marciava contro il senso della storia. Francesco I è solo la prosecuzione di Benedetto XVI con altri mezzi.
Potrà sorprendere, ma, dopo le D-I-M-I-S-S-I-O-N-I, la natura del motu proprio Summorum Pontificum con cui veniva data una certa libertà alla celebrazione della liturgia tradizionale è l’esempio più chiaro di quanto poco il pontificato di Benedetto XVI avesse a che fare con la tradizione.  Con quell’atto, la Messa antica è stata messa in libertà condizionata, legata con tre metri di catena da un documento incompiuto sul piano giuridico che abbandona il rito millenario della Chiesa cattolica al dispotismo di vescovi e sacerdoti che lo odiano teologicamente. Un documento ancora più problematico sul piano teologico, poiché, fin dalla terminologia, costringe ad assumere il Vetus Ordo secondo le categorie del Novus.
Art. 1. Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano.
Pur affermando subito dopo che il Messale tradizionale romano non è mai stato abrogato, risulta evidente la sottomissione dell’antico al nuovo: è il Novus Ordo che istituisce le categorie di una nuova comprensione del Vetus Ordo secondo l’ermeneutica corrente. Non a caso, nella contestuale Lettera in cui Benedetto XVI spiegava ai vescovi di tutto il mondo il significato del motu proprio diceva:
In primo luogo, c’è il timore che qui venga intaccata l’Autorità del Concilio Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali – la riforma liturgica – venga messa in dubbio. Tale timore è infondato. Al riguardo bisogna innanzitutto dire che il Messale, pubblicato in duplice edizione da Paolo VI e poi riedito una terza volta con l’approvazione di Giovanni Paolo II, ovviamente è e rimane la forma normale – la forma ordinaria – della Liturgia Eucaristica. L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, potrà, invece, essere usata come forma extraordinaria della Celebrazione liturgica. Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero “due Riti”. Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito.  (…)
Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione “Ecclesia Dei” in contatto con i diversi enti dedicati all’“usus antiquior” studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale.
Non ho il tinello. In ogni caso, non terrei certo il ritratto del Papa Emerito sul tavolino. Non mi piace quanto il Regnante.

– di Alessandro Gnocchi

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