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venerdì 9 marzo 2018

Il pensiero della neochiesa

BERGOGLIO DISCEPOLO DI EVOLA


Sorpresa: Bergoglio è un discepolo di Evola? L'uno e l'altro vogliono superare le diverse tradizioni religiose ma senza negarle frontalmente vogliono innalzarle al livello di una super-tradizione: una super-religione universale 
di Francesco Lamendola  

  

Si può immaginare qualcosa di più lontano, di più opposto, di più totalmente estraneo al pensiero di Julius Evola, il teorico dell’imperialismo pagano, fondato sulla volontà di potenza di una schiera di “eletti”, della Weltanschauung che, per forza di cose, dovrebbe appartenere ad un papa, al capo della Chiesa cattolica, per il quale vi è un solo Re dell’Universo, Gesù Cristo, Figlio di Dio, ed un solo popolo, quello dei suoi seguaci, tutti moralmente eguali perché tutti suoi figli?
Eppure…

Ma partiamo dal principio. Che cosa è un impero? È solo un insieme di territori e di popoli soggetti ad una stessa autorità centrale, che li governa alla stregua di un ente puramente giuridico e amministrativo, da un punto di vista produttivo e commerciale; oppure è qualcosa di più, una vera ambizione alla totalità, e, quindi, un superamento dei particolarismi nazionali e culturali? E, in questo secondo caso, che cosa può tenerlo insieme? Evola si faceva queste domande, ed era sollecitato a farsele dalla ideologia fascista, che aveva sempre parlato del “destino imperiale dell’Italia” ancor prima della guerra italo-abissina del 1935-36; e, nella sua particolare prospettiva filosofica, ch’era quella neopagana, dopo aver risposto che il "vero" impero non può ridursi a pura e semplice amministrazione, rispondeva alla seconda domanda che l’elemento unificatore dell’impero è di tipo spirituale, e consiste in un richiamo alla tradizione. Ma qui sorgeva il problema: quale tradizione, visto che l’impero, per definizione, abbraccia numerose tradizioni, nessuna delle quali può essere sacrificata, senza che l’impero si trasformi in un atto di pura violenza?
Scartato il "modello britannico", visto che l'impero inglese è un impero nato sostanzialmente da esigenze commerciali, e quindi risolto in mero "imperialismo", e focalizzata l'attenzione sull'impero romano, come tipico esempio di impero "spirituale", Evola sosteneva che l'elemento unificatore era stato duplice: da un lato, l'ideale del civis romanus (che però, contraddicendosi, per lui corrispondeva anche a una realtà etnica, e sia pure in una prospettiva supernazionale), dall'altro il culto dell'imperatore divinizzato, posto al vertice del Pantheon pagano, inteso come coabitazione di tutte le fedi riconosciute dallo Stato. I cristiani, Evola non lo dice, erano esclusi da una siffatta tolleranza proprio perché negavano l'adorazione dell'imperatore divinizzato: più coerenti e coraggiosi dei giudei, dalla cui tradizione erano nati, non chiedevano di essere riconosciuti come l'eccezione alla regola, ma contestavano, puramente e semplicemente, la pretesa di un uomo di farsi adorare come dio. Era questa la ragione della loro incompatibilità con l'ordinamento giuridico romano, per quanto si dichiarassero disposti ad onorare l'imperatore, ma sempre come uomo, cioè negandogli la funzione di proiezione ipostatica dell'elemento spirituale insito nella coabitazione delle svariate tradizioni religiose. Ed essi erano coerenti, perché, diversamente, avrebbero accettato il fatto del pluralismo religioso, che qualche teologo malaccorto ha creduto di riscoprire, con il Concilio Vaticano II, come la cosa più bella e naturale per un cristiano, mentre è la negazione dell'idea stessa del cristianesimo, nonché la negazione del Primo Comandamento, dato che, per il cristiano, una sola è la via, la verità e la vita, cioè Gesù Cristo, e nessun altri che Lui. Quando, con Costantino, e poi, soprattutto, con Teodosio, l'impero romano diventa cristiano, mutano i suoi presupposti ideologici: la tradizione su cui si fonda non è una specie di sincretismo universale, cioè l'adorazione di Dio sotto le forme di molteplici dei, ma quella di una sola tradizione, quella cristiana appunto, ad esclusione di tutte le altre, che vengono respinte, demonizzate e, da ultimo, perseguitate. E sempre con molta coerenza da parte dei cristiani, perché tale è la vera prospettiva cristiana: Non avrai altro Dio all'infuori di me. Perciò, quando Pio IX, con il Sillabo, ribadiva il concetto che la libertà religiosa è un grave errore e che il cristiano non potrà mai acconsentire al pluralismo religioso, egli era perfettamente coerente e perfettamente in linea con milleottocento anni di tradizione cattolica. Sono stati i cristiani moderni, i papi della seconda metà del XX secolo e i teologi della "svolta antropologica", a rovesciare la prospettiva, imboccando fatalmente la strada dell'indifferentismo religioso. Se, infatti, esistono diverse religioni, tutte ugualmente legittime, e ciascuna delle quali contenente una scintilla della verità divina, come negare che, alla fine, nessuna di esse merita di essere seguita in maniera esclusiva, perché nessuna di esse possiede l'intera verità? E dall'indifferentismo all'ateismo, il passo è ancor più breve: se nessuna religione ha l'intera verità, a che scopo credere in Dio, o, almeno, credere nel Dio di cui parlano le religioni? Ed ecco riaffacciarsi il Grande Architetto dell'universo, il dio dei liberi pensatori e dei massoni, un "dio" fabbricato sulla misura dell'orgoglio umano, un dio luciferino, che alto non è, in buona sostanza, se non il riflesso dell'eterna aspirazione dell'uomo stesso ad auto-divinizzarsi. Come vollero fare Adamo ed Eva, appunto, quando si lasciarono tentare dal serpente, nel Giardino dell'Eden, per invidia nei confronti di Dio.
Ma torniamo a Evola. Il pensatore italiano  riteneva che l'essenza dell'impero fosse questa: innalzare tutte le tradizioni spirituali e religiose in un solo fascio, che, senza negarle, le trasfigurasse verso una sola verità d'ordine superiore. Il fatto che l'Italia allora possedesse un discreto impero coloniale, e che avesse mostrato sempre un grande rispetto verso i musulmani della Libia, dell'Eritrea o della Somalia, o verso i copti dell'Etiopia, o verso i greci ortodossi del Dodecanneso (beninteso, a patto che le loro credenze religiose non li spingessero a voler lottare contro l'idea imperiale) era per lui un primo passo sulla via dell'instaurazione del principio d'ordine superiore, che egli indicava in una super-tradizione, momento culminante della sintesi delle diverse tradizioni. E profetizzava che, dopo il fallito tentativo spagnolo di Carlo V, nel XVI secolo, nessun impero avrebbe mai più potuto riproporsi sulla base di una sola tradizione religiosa, compresa quella cristiano-cattolica.
Si rilegga quanto scriveva Evola nel saggio del 1937, un anno dopo la proclamazione dell’impero italiano d’Etiopia, nel suo articolo Sulle premesse spirituali dell’Impero (ripubblicato in: J. Evola, Nazionalismo, germanesimo, nazismo, a cura di Renato del Ponte, Genova, Fratelli Melita Editori, 1989, pp. 62-65):

Il problema dell’impero, nella sua espressione più alta, è quello di una organizzazione supernazionale tale, che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo  e livellatore nei riguardi della molteplicità etnica e culturale da essa ricompresa.
Così impostato il problema dell’impero ammette due principali soluzioni, che sono quella GIURIDICA e quella SPRITUALE.
Secondo la prima, l’unità dell’impero è quella di una semplice unità politico-amministrativa, di una legge generale di ordine, nel senso più empirico del termine. In questo caso le qualità, le culture e le tradizioni specifiche dei vari popoli raccolti dall’impero non sono lese, per il semplice fatto che l’impero resta, rispetto ad esse, indifferente ed estraneo. All’impero, qui, importa la semplice organizzazione politico-amministrativa e la semplice sovranità giuridica. Esso si comporta rispetto ai singoli popoli così come lo Stato agnostico del liberalismo si comporta rispetto ai singoli, ai quali lasciava fare quel che volevano purché certe leggi  generali venissero rispettate.
Nei tempi moderni, un esempio caratteristico di impero di questo tipo è l’impero inglese. Da alcuni, per es. dal Bryce, si è voluto stabilire, si è voluto stabilire, a questa stregua, un analogia fra l’impero inglese e quello dell’antica Roma; e anche da noi non sono mancati storici caduti in questo grave errore, per il fatto di aver considerato, nell’antico impero romano, il suo aspetto giuridico e politico, tralasciando, o considerando come irrilevante, ogni presupposto d’ordine superiore, spirituale e religioso.
Vero è, invece, che con Roma si delineò già una organizzazione imperiale del SECONDO TIPO, un impero, cioè, corrispondente alla seconda soluzione.  È questa la soluzione, nella quale l’unità è determinata dal riferimento a qualcosa di spiritualmente più alto, che non il particolarismo di tutto ciò, che, nei singoli popoli, è condizionato dall’elemento etnico e naturalistico.
In Roma antica si ebbe già una realtà di questo genere per una doppia via.  
In primo luogo, per la presenza di un tipo unico, e di un unico ideale, corrispondente al “civis romanus”, il quale non era per nulla, come da alcuni si ritiene, una mera formula giuridica, ma una realtà etnica, un modello umano di validità supernazionale.
In secondo luogo Roma pose quel punto trascendete di riferimento di cui dicevamo, attraverso il CULTO IMPERIALE. Il Pantheon romano, come è noto, ospitava i simboli di tutte le fedi e le tradizioni etnico-spirituali delle genti soggette a Roma, che Roma rispettava e perfino tutelava. Ma questa ospitalità e questa protezione avevano per presupposto e per condizione una fedeltà, “fides”, d’ordine superiore. Al di là dei simboli religiosi raccolti nel Pantheon, troneggiava il simbolo dell’imperatore, concepito come “nume”, come essere divino: esso raffigurava la stessa unità trascendente e spirituale dell’impero, perché l’impero dalla tradizione romana veniva concepito meno come semplice opera umana che come opera di forze dall’alto. La fedeltà a questo simbolo era la condizione. Giurata una tale fedeltà nei termini di un rito sacro, ogni fede o particolare tradizione nei popoli soggetti, sempreché non ledesse o offendesse l’etica e la legge generale romana, era accolta e rispettata.
In questi termini, Roma antica ci ha presentato un esempio di organizzazione imperiale di perenne e universale valore. Basta infatti sostituire alle forme condizionate dal tempo, di una soluzione del genere, altre forme, per allontanare qualsiasi apparenza di anacronismo e per accorgersi che chi, oggi, volesse di nuovo studiare il problema di un impero spirituale, difficilmente saprebbe trovare altre prospettive.
Oggi, infatti, molto più anacronistica sarebbe l’idea di una organizzazione super-nazionale basata sull’affermazione di una particolare idea religiosa, sia pure quella cristiana. Non vi è chi possa sensatamente pensare, oggi, all’attualità e al ritorno di un impero sul tipo di quello spagnolo, supercattolico e inquisitoriale di Carlo V: ma anche all’infuori di questa formula estremistica, ma pur coerente, altre formule, più vaghe e “intellettuali”, di unità supernazionale su base unilateralmente religiosa palesano, di fronte ad un’analisi approfondita, lo stesso difetto. In un grande quadro d’insieme, non si può dimenticare che di tradizioni religiose ne esistono molte, e spesso di dignità e di elevatezza spirituale quasi pari. Se l’impero dovesse usar violenza su di esse nel realizzare la sua unità definita dall’affermazione e dal riconoscimento di una soltanto di tali fedi, allora è chiaro che noi avremmo dinanzi assai più un esempio di settarismo, che non di universalismo spirituale. (…)
Riconosciuto ciò, il problema generale dei presupposti spirituali dell’impero è di definire il principio, in funzione del quale si può avere, simultaneamente, riconoscimento e superamento di ogni particolare fede religiosa delle nazioni da organizzare. Questo è il punto fondamentale. L’impero, infatti, nel senso vero, può esistere solo se animato da un empito spirituale, da una fede, da qualcosa che si rivolge alle stesse profondità spirituali, dalle quali la stessa religione prende vita. Senza di ciò, non si avrà mai che una creatura di violenza - l’”imperialismo” – e una meccanica, disanimata superstruttura. È perciò necessario captare – se così si può dire – le stesse forze agenti nelle fedi, senza però che queste fedi ne risultino comunque lese, ma invece, integrate e riportate ad un più alto livello. Ora, a tanto, esiste una via: ESSA CI È DISCHIUSA DALLA CONCEZIONE, SECONDO LA QUALE OGNI TRADIZIONE SPIRITUALE E OGNI PARTICOLARE RELIGIONE NON RAPPRESENTA CHE L’ESPRESSIONE VARIA DI UN CONTENUTO UNICO, ANTERIORE E SUPERIORE A CIASCUNA DI TALI ESPRESSIONI. Saper risalire fino a questo contenuto unico e, per dir così, super-tradizionale, significherebbe anche raggiungere una base atta ad affermare una unità che non distrugge, bensì integra, ogni particolare fede e che può definire una “fedeltà” imperiale, nel riferimento, appunto, a quel contenuto superiore. TRASCENDERE, nella sua etimologia latina, significa “superare ascendendo” – epperò  in questa parola sarebbe racchiusa tutta l’essenza del problema. (…)

E ora veniamo a Bergoglio. A noi sembra che il disegno (massonico) della neochiesa consista sostanzialmente nella ricerca di quell'elemento "spirituale" che possa condurre a unità il nuovo impero, quello creato dalla modernità e dalla globalizzazione. I vertici dell'Ordine dei gesuiti, in particolare, hanno riflettuto se sia ancora possibile proporre al mondo intero il modello "unico" del cattolicesimo, come ai tempi del Concilio di Trento e di Ignazio di Loyola, ma anche come ai tempi di Pio X del suo instaurare omnia in Christo e hanno concluso che no, non è possibile; così come non possono sperare di riuscirci gli esponenti delle altre grandi tradizioni religiose, se non, forse, con la violenza, ma tradendo con ciò l'idea di una coesistenza pacifica. I gesuiti, in effetti, avevano già tentato di realizzare una strategia di unificazione spirituale globale, nel XVII e XVIII secolo, al tempo della controversia sui riti cinesi" e sui "riti malabarici", cioè al tempo in cui tentarono di "evangelizzare" la Cina e l'India adattando la tradizione cristiana alle credenze religiose locali, rispettivamente confuciane e induiste. Allora essi vennero fermati e sconfessati dai pontefici romani; ora stanno ripetendo il tentativo, ma in forma diversa e più diffusa: quel che vogliono fare è sostituire all'idea della sola via cattolica alla Verità divina, l'idea delle molte strade, corrispondenti alle grandi religioni, e ciò spiega il bacio del papa sul Corano, l'abbraccio coi rabbini e la kippah in testa del santo padre, l'invito ai musulmani a partecipare alla santa Messa, per non parlare delle concelebrazioni liturgiche coi luterani e della clamorosa riabilitazione di Lutero, nel cinquecentesimo della sua "riforma".La posizione dei gesuiti è ora molto più forte di quella di tre secoli addietro, sia perché ormai si è definitivamente insediata nella Chiesa l'idea della libertà religiosa, sia per gli spazi di autonomia che le chiese locali, specie nel Terzo Mondo, si sono prese nei confronti di Roma, sovente dietro incitamento dei missionari, come nel caso dei comboniani in Africa e della "teologia della negritudine". Infatti è considerato ormai normale che il cattolicesimo sia annunciato in forme anche assai diverse, a seconda della latitudine e della longitudine, e che persino in ambito strettamente dottrinale e pastorale, vedi l'applicazione di Amoris laetitia al caso dei divorziati che vogliono far la Comunione, ogni chiesa locale prenda decisioni autonome e anche contraddittorie rispetto alle altre. Contemporaneamente, è considerato normale non solo "dialogare" con le altre religioni, ma perfino vedere in esse delle strade, altrettanto legittime e fruttuose, verso la Verità divina: al punto che qualche prete di larghe vedute ha ritenuto cosa buona e giusta invitare il dio Ganesha a fare una bella processione in una chiesa cattolica (a Ceuta, territorio spagnolo del Nordafrica), o un vescovo francese (nella diocesi di Rodez) ordinare i nuovi sacerdoti secondo un rito misto cattolico e induista, con tanto di danzatrici del dio Shiva nello spazio del presbiterio, e la Comunione impartita sotto la specie del mango o della papaya (visto che il pane è un cibo europeo e, quindi, fastidiosamente etnocentrico).

Sorpresa: Bergoglio è un “discepolo” di Evola?

di Francesco Lamendola
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