ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 6 luglio 2018

Vulpes heareses vel potius haereticos

L’eresia del teleologismo: dagli antichi Traci alle Indicazioni dei Vescovi dell’Emilia Romagna.




Purtroppo le Indicazioni dei Vescovi dell’Emilia Romagna sull’Amoris Laetitia contengono una grave eresia, quella del teleologismo. Un’analisi incontestabile di Don Alfredo Morselli.
Capite nobis vulpes, / vulpes parvulas / quae demoliuntur vineas; / nam vinea nostra floruit[1] (Ct 2,15)
Et si iuxta allegoriam ecclesis vineas, vulpes heareses vel potius haereticos ipsos intelligamus, simplex est sensus, ut haeretici capiantur potius quam effugentur. Capiantur, dico, non armis, sed argumentis, quibus refellantur errores eorum; ipsi vero, si fieri potest, reconcilentur Catholicae, revocentur ad veram fidem. Haec est voluntas eius, qui vult omnes homines salvos fieri et ad agnitionem veritatis venire [2]. Bernardo di Chiaravalle
Nelle Indicazioni sul capitolo VIII dell’Amoris Laetitia[3], rese pubbliche a nome dei Vescovi dell’Emilia Romagna, si trovano affermazioni inaccettabili da ogni buon cristiano; in particolare, il paragrafo 9 recita:

“9. Il discernimento sui rapporti coniugali – La possibilità di vivere da “fratello e sorella” per potere accedere alla confessione e alla comunione eucaristica è contemplata dall’ALalla nota 329. Questo insegnamento, che la Chiesa da sempre ha indicato e che è stato confermato nel magistero da Familiaris Consortio 84, deve essere presentata con prudenza, nel contesto di un cammino educativo finalizzato al riconoscimento della vocazione del corpo e del valore della castità nei diversi stati di vita. Questa scelta non è considerata l’unica possibile, in quanto la nuova unione e quindi anche il bene dei figli potrebbero essere messi a rischio in mancanza degli atti coniugali. È delicata materia di quel discernimento in “foro interno” di cui AL tratta al n. 300″.
Questo paragrafo contiene diverse problematicità: innanzi tutto vengono chiamati rapporti coniugalii rapporti sessuali tra non sposi; se il paragrafo avesse avuto il titolo corretto, ovvero Il discernimento sugli atti propri degli sposi, si sarebbe confutato da sé.
In secondo luogo viene usata improvvidamente l’espressione vocazione del corpo: l’unione sponsale tra un uomo e una donna è simbolo (è stata creata in vista…) dell’unione di Cristo con la Chiesa, e la corporeità è chiamata (analogicamente, si può parlare in questo senso di vocazione) a realizzare questa immagine: ora non è possibile che la più fedele sponsalità in assoluto (Cristo e la Chiesa, appunto) venga anche lontanamente accostata a un rapporto adulterino (cosa presentata invece come possibile).
In terzo luogo viene affermato che un certo bene (l’educazione dei figli) potrebbe essere messo a rischio dalla mancanza di un peccato (rapporti adulterini): cioè un peccato potrebbe far bene all’amore.
In quarto luogo viene indebitamente rimandata a una decisone di foro interno il presunto discernimento circa un atto intrinsecamente (e quindi sempre) cattivo; quando invece a) si usa correttamente la categoria discernimento solo riferendosi alla scelta tra più atti buoni, e non tra un atto virtuoso e un peccato, e b) nessun peccato può essere autorizzato, né in foro esterno, né in foro interno[4].
Può essere utile chiedersi, in questo vero e proprio enchiridion di errori teologici (tale è il paragrafo 9 delle Indicazioni), quale sia l’errore dominante, sul quale sono innestati tutti gli altri.
Mi pare di ravvedere che esso sia quella eresia che San Giovanni Paolo II ha chiamato teleologismo.
In questo scritto, dapprima descriverò il suddetto errore contro la fede, poi mostrerò come si tratti di un’eresia. In una seconda parte, traccerò una breve storia del teleologismo, mostrando come quanto sia esiziale traghettarlo nella pastorale (anche se animati da buone intenzioni, quali sono senz’altro quelle dei Vescovi dell’Emilia Romagna)
I parte – Che cos’è il teleologismo
Il «teleologismo» è quella eresia che si potrebbe ricondurre al principio: “Il fine giustifica i mezzi”. Con maggior precisione la descrive San Giovanni Paolo II:
“Questo «teleologismo», come metodo di rinvenimento della norma morale, può allora — secondo terminologie e approcci mutuati da differenti correnti di pensiero — chiamarsi «consequenzialismo» o «proporzionalismo». Il primo pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare dall’esecuzione di una scelta. Il secondo, ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza piuttosto sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del «più grande bene» o del «minor male» effettivamente possibili in una situazione particolare […] In questa prospettiva il consenso deliberato a certi comportamenti dichiarati illeciti dalla morale tradizionale non implicherebbe una malizia morale oggettiva”[5].
Ora, nelle Indicazioni dei Vescovi dell’Emilia Romagna, atti sempre illeciti – gli atti propri degli sposi compiuti da non-sposi – vengono ammessi in vista di un fine, ovvero evitare di mettere a rischio “la nuova unione e il bene dei figli”. Questa conclusione dipende proprio dalle premesse proporzionaliste e consequenzialiste, condannate da San Giovanni Paolo II.
Ancora lo stesso Pontefice insegna:
“Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti «irrimediabilmente» cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: «Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) — scrive sant’Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?» [Contra mendacium, VII, 18: PL 40, 528; cf S. Tommaso D’Aquino, Quaestiones quodlibetales, XI, q. 7,a. 2; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1753-1755.]”[6]
Perché il teleologismo è un’eresia? Perché costituisce una negazione formale di ciò che è proposto a credere come formalmente rivelato[7], secondo il § 1 del Can. 750:
“Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell’unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria”.
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Giovanni Paolo II è stato canonizzato, eppure il suo magistero viene continuamente calpestato.
Vediamo come le condizioni del canone suddetto corrispondono a quanto proposto a credere in Veritatis splendor, e ci consentono di qualificare la morale dell’oggetto e la conseguente esclusione del teleologismo, come divinamente rivelate:
1) San Giovanni Paolo II esplicitamente fonda nella Tradizione e nella Scrittura la dottrina della morale dell’oggetto, contraddittoria rispetto al teleologismo: “Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati «intrinsecamente cattivi…” (Veritatis splendor § 80) e “Insegnando l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura…” (§ 81)[8].
2) Inoltre troviamo la reiterazione della stessa tesi in più documenti[9], redatti da più Pontefici; importantissima la citazione esplicita, sempre in Veritatis splendor, di un’affermazione di Humane vitae: “Paolo VI insegna: «In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (cf Rm 3,8), cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali»”[10].
La reiterazione di un certo insegnamento costituisce uno dei criteri che Lumen gentium stabilisce per indicare il grado di assenso richiesto dal magistero del Romano Pontefice: questo “supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi”[11].
Veritatis splendor inoltre afferma che la ragione stessa è in grado di comprendere la gravità del teleologismo:
“Ora la ragione attesta che si danno degli oggetti dell’atto umano che si configurano come «non-ordinabili» a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati «intrinsecamente cattivi» (intrinsece malum)”[12].
Quindi la morale dell’oggetto e la conseguente insostenibilità del teleologismo fa parte di quelle verità di cui il Vaticano I dice:
“Si deve a questa divina Rivelazione se tutto ciò che delle cose divine non è di per sé assolutamente inaccessibile alla ragione umana, anche nella presente condizione del genere umano può facilmente essere conosciuto da tutti con certezza e senza alcun pericolo di errore”[13].
A conclusione di questa prima parte, possiamo dire che la fede e la retta ragione si oppongono al teleologismo e sono incompatibili con esso; sostenere il teleologismo costituisce quindi tanto un’eresia come un errore contro la verità naturale. Per capire la gravità di questo errore, può essere utile tracciarne una breve ed essenziale storia.
II parte – Breve storia del teleologismo
  1. Fillide e gli antichi Traci (XII sec. A.C.)
La più antica formulazione del teleologismo – almeno per quanto ho potuto trovare – così suona: exitus acta probat, e ci è data dal poeta latino Publio Ovidio Nasone (43 a.C – 17 d.C), nella seconda delle sue ventuno Heroides.
Le Heroides (= Eroine) sono epistole immaginarie, in forma di elegie, che il poeta presenta come scritte ai loro amati da donne famose, scelte tra i personaggi del mito e della storia[14].
In queste epistole il poeta – in modo analogo alla satira – talvolta prende spunto dal mito per fustigare i costumi dell’epoca: è il caso della settima eroina, Fillide, figlia di Sitone, re della Tracia, tradita da Demofoonte spergiuro: questi era stato più che ben accolto durante il suo viaggio di ritorno dalla guerra di Troia, ma poi se ne partì per Atene, e nonostante avesse giurato di fare ritorno, mancò al giuramento e abbandonò la promessa sposa. Ella è descritta mentre sente i rimproveri beffardi dei Traci e dà loro una fiera risposta. Riporto dapprima i versi di Ovidio nella lingua latina[15], perché ritengo valga la pena gustare la bellezza del testo originale:
at mea despecti fugiunt conubia Thraces, / quod ferar externum praeposuisse meis. / atque aliquis ‘iam nunc doctas eat,’ inquit, ‘Athenas; / armiferam Thracen qui regat, alter erit. / exitus acta probat.’ careat successibus, opto, / quisquis ab eventu facta notanda putat.
Ed ora la traduzione:
Invece i Traci, che ho disdegnato, rifuggono dal matrimonio con me, / perché si riporta che ho anteposto uno straniero ai miei [compatrioti]. / E qualcuno dice: “vada ormai alla dotta Atene; / a governare la Tracia bellicosa un altro ci sarà: / il risultato prova le azioni”. Non abbia successo – io mi auguro – / chiunque ritenga che le azioni debbano essere giudicate dal risultato!
Ovidio descrive da un lato i Traci che giudicano la condotta improvvida di Fillide, dicendo: “Ecco cosa ha combinato, l’esito delle azioni dà il valore ad esse”; dall’altro, lo stesso poeta mette sulla bocca di Fillide la risposta: “Non abbia successo – io mi auguro – chiunque ritenga che le azioni siano giudicate dal risultato!”.
E così l’eroina afferma che un atto ha il suo valore indipendentemente dall’esito e che la stessa azione non è finita male per un suo improvvido comportamento, ma per lo spergiuro di Demofoonte.
Il poeta ci vuol trasmettere l’idea che  la condotta della regina innamorata, la sua fedele attesa, possiede il suo valore in se stessa, e non lo acquisisce – e neppure lo perde – per l’esito più o meno favorevole.
Certo Ovidio non parla né di oggetto formale, né di Wert, ma rifugge, disprezzandola, un’etica utilitarista.
Nel testo del poeta latino, troviamo una risposta anche alle accuse di deduttivismo, che vengono talvolta portate ai buoni oppositori della morale dell’ipertrofia del caso particolare[16]. Ovidio attua, in questi versi, una vera riduzione eidetica ante litteram: è l’esperienza di Fillide, la sua autentica esperienza umana, che le permette – induttivamente e non deduttivamente – di percepire il valore della sua scelta.
  1. Niccolò Machiavelli (1469-1527)
Comunemente si suole annoverare, tra i propugnatori del principio “Il fine giustifica i mezzi”, Niccolò Machiavelli. Alcuni critici arricciano un po’ il naso a riguardo di questa attribuzione, non potendo ritrovarsi esattamente la frase tale quale negli scritti del fondatore della scienza politica moderna. Non di meno, il presupposto delle sue affermazioni è sostanzialmente questo; infatti, al capitolo 18° de Il Principe, leggiamo: “…nelle azioni […] massime de’ principi […] si guarda al fine”[17].
E siccome il fine del principe è l’acquisizione e il mantenimento del potere, in vista di questo, nulla può essere condannato. Ma ora sentiamo le stesse parole del Machiavelli[18]:
“E hassi ad intendere questo, che un Principe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla umanità, contro alla carità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato”.
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Niccolò Macchiavelli è ritenuto il fondatore della scienza politica moderna.
Vediamo come la forma del ragionamento di Machiavelli sia oggettivamente analoga al tour d’espritdella nuova morale: lascio in corsivo le parole dello scrittore fiorentino, e in grassetto le mie modifiche.
E hassi ad intendere questo, che una coppia di divorziati risposati, non può osservare tutte quelle cose, per le quali – secondo Paolo VI e san Giovanni Paolo – gli sposi sono tenuti buoni, essendo spesso necessitati, per mantenere la nuova unione, operare contro alla castità. E però bisogna che detta coppiaabbia un animo disposto a volgersi secondo che le situazioni particolari gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitata”.
Ancora Machiavelli:
“Facci adunque un Principe conto di vivere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati”.
Adesso riempiamo la forma di questo ragionamento con i nuovi principi etici:
Facci adunque una coppia di divorziati civilmente risposati di vivere e mantenere la nuova unione; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati“.
È da notare che, all’inizio del capitolo 18, Machiavelli aveva esposto le ragioni per cui “a uno principe è necessario sapere ben usare la bestia e l’uomo”, e “sendo dunque un principe necessitato sapere ben usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione”.
Dette ragioni stanno tutte nel pessimismo antropologico del nostro autore, pessimismo comune a tutti coloro che non sanno che cos’è la Grazia:
“E se gli uomini fussero tutti buoni, questo precetto non saria buono; ma perché sono tristi, e non l’osserverebbono a te, tu ancora non l’hai da osservare a loro. Nè mai a un Principe mancheranno cagioni legittime di colorare l’inosservanza”.
Troviamo un’analogia con tutte quella contaminazioni neo-gianseniste della  nuova morale (ovvero l’accento sulla natura ferita a discapito della Provvidenza e della Grazia), presenti negli argomenti di coloro che sono favorevoli ad ammettere ai sacramenti i divorziati civilmente risposati. Sono le teorie secondo le quali è sufficiente compiere il bene possibile[19] (come se la santità non fosse resa possibile a tutti da quel Dio santificatore che la chiede a tutti, e a tutti concede – in ogni situazione, mai casuale e sempre provvidenziale – i mezzi per conseguirla).
Lasciamo che sia Machiavelli a non far conto della grazia, ma che siano Cardinali, Vescovi, teologi… questo non è ammissibile!
E concludiamo con un ultimo adattamento del testo di Machiavelli alla situazione attuale:
Nè mai a una coppia di divorziati accompagnati da un confessore mancheranno cagioni legittime di colorare l’inosservanza“.
  1. George Washington (1732- 1799)
Il motto exitus acta probat, che abbiamo già visto in Ovidio, era anche il motto dello stemma d’armi della famiglia di George Washington, e compariva anche nel suo ex libris personale.
Da dove veniva l’affetto del primo presidente degli Stati Uniti per questo verso latino?
Probabilmente lo ha ereditato e cadeva a pennello per il suo pragmatismo militare; ma collimava anche perfettamente con l’ideale massonico, nel quale il pensiero e la vita di Washington trovarono forma[20].
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George Washington, 1° presidente degli Stati Uniti d’America e Gran Maestro della Loggia “Fredericksburg”.
Egli fu iniziato alla Massoneria il 4 novembre 1752 nella Loggia “Fredericksburg” in Virginia, e ne divenne Maestro il 4 agosto 1753. Nel 1779 gli fu proposto il titolo di primo “Worshipful Master” (Gran Maestro) della Gran Loggia per tutti i Paesi del Commonwealth, ma egli rifiutò la carica perché preferì occuparsi dei problemi militari. Nell’aprile del 1788 fu eletto Maestro Venerabile della Loggia di Alexandria, in Virginia, nei pressi di Washington DC, e il 30 aprile 1789 gli fu conferito il titolo di Gran Maestro, carica che mantenne ed esercitò fino alla sua morte[21].
Perché il principio exitus acta probat è coerente con l’ideale massonico? Proprio per la sua incompatibilità con la morale oggettiva, con una qualsiasi morale che ponga dei valori assoluti e non formali.
Sul sito del Gran Loggia Svizzera Alpina è comparso anni fa un articolo in cui questo concetto è ben spiegato:
“Come possiamo, allora, affermare l’esistenza di un’Etica massonica? Se questo fosse possibile, definiremmo a priori un principio etico assoluto! Se poi dovessimo definire e predicare un’Etica massonica, significherebbe anche definire un codice comportamentale cui attenersi strettamente. Potremmo così arrivare a stabilire un dogmatismo etico massonico, che di per sé ci porterebbe a contraddire e a svilire i principi cardini della Massoneria stessa!”[22]
In realtà, sotto altri aspetti, potremmo palare di un’etica massonica, ma costituita solo da una sorta di opzione fondamentale massonica. Scriveva a questo proposito Giuliano De Bernardo[23]
“Riteniamo che la quintupla <Libertà, Tolleranza, Fratellanza Trascendenza, Segreto iniziatico>, comprensiva degli elementi basilari dell’antropologia massonica, costituisca la fonte da cui enucleare i principi etici fondamentali della Massoneria, principi da ritenersi irrinunciabili per ogni massone al di là delle differenze culturali e storiche che la loro applicazione può comportare. Come si è infatti sostenuto nei capitoli precedenti, l’antropologia che scaturisce dalla quintupla è un’antropologia essenzialmente etica, caratterizzata in prima approssimazione da due principi generali: il principio secondo il quale all’uomo va riconosciuta la sua dignità di essere libero di esprimere le proprie idee e di realizzarle nel rispetto della libertà degli altri e il principio di tolleranza, conseguente al precedente, in forza del rispetto dovuto a tutti gli uomini”[24].
Nell’ambito di questa opzione fondamentale massonica, che Di Bernardo chiama quintupla, non è possibile, al dire della Gran Loggia Alpina, “definire un codice comportamentale cui attenersi strettamente”, pena “contraddire e a svilire i principi cardini della Massoneria stessa”.
Ho chiamato la quintupla di Di Bernardo opzione fondamentale massonica, per la sua sostanziale formale rassomiglianza con le teorie dell’opzione fondamentale condannate in Veritatis splendor. Vediamone i punti che ne trattano:
“Si giunge […] ad introdurre una distinzione tra l’opzione fondamentale e le scelte deliberate di un comportamento concreto, una distinzione che in alcuni autori assume la forma di una dissociazione, allorché essi riservano espressamente il «bene» e il «male» morale alla dimensione trascendentale propria dell’opzione fondamentale.
[…]
Sembra così delinearsi all’interno dell’agire umano una scissione tra due livelli di moralità: l’ordine del bene e del male, dipendente dalla volontà, da una parte, e i comportamenti determinati, dall’altra, i quali vengono giudicati come moralmente giusti o sbagliati solo in dipendenza da un calcolo tecnico della proporzione tra beni e mali «premorali» o «fisici», che effettivamente seguono all’azione”.
Ed ecco svelato il nesso logicamente causale tra la dissociazione tra l’opzione fondamentale e le scelte deliberate: criterio della moralità è il “calcolo tecnico della proporzione tra beni e mali «premorali» o «fisici», che effettivamente seguono all’azione”. Rispunta allora il nostro exitus acta probat, perché, se non c’è un nesso causale oggettivo tra i principî e gli atti particolari, tanto per il massone quanto per il neo-modernista, il criterio ultimo di valutazione di un atto non potrà essere che nell’esito: nel nostro caso, evitare di mettere a rischio la nuova unione.
Le conseguenze di queste premesse sono disastrose, e sono ben descritte al § 61 di Veritatis Splendor:
“Nella logica delle posizioni sopra accennate, l’uomo potrebbe, in virtù di un’opzione fondamentale, restare fedele a Dio, indipendentemente dalla conformità o meno di alcune sue scelte e dei suoi atti determinati alle norme o regole morali specifiche. In ragione di un’opzione originaria per la carità, l’uomo potrebbe mantenersi moralmente buono, perseverare nella grazia di Dio, raggiungere la propria salvezza, anche se alcuni dei suoi comportamenti concreti fossero deliberatamente e gravemente contrari ai comandamenti di Dio, riproposti dalla Chiesa[25].
In realtà, l’uomo non si perde solo per l’infedeltà a quella opzione fondamentale, mediante la quale si è consegnato «tutto a Dio liberamente». Egli, con ogni peccato mortale commesso deliberatamente, offende Dio che ha donato la legge e pertanto si rende colpevole verso tutta la legge (cf Gc 2,8-11); pur conservandosi nella fede, egli perde la «grazia santificante», la «carità» e la «beatitudine eterna». «La grazia della giustificazione — insegna il Concilio di Trento —, una volta ricevuta, può essere perduta non solo per l’infedeltà, che fa perdere la stessa fede, ma anche per qualsiasi altro peccato mortale»”. 
Certamente la quintupla massonica è compatibile con la caricatura di ama e fa ciò che vuoi, cioè con l’idea di un amore senza alcuna determinazione assoluta del modo concreto con cui si ama; ma il modo in cui bisogna amare è assolutamente Gesù Cristo, un modello storico concreto: non un chi è Cristo per me, ma  quel Gesù che ha detto: “Io sono la via la verità e la vita[26] e “Chi  vuol venire dietro a me rinneghi se stesso prenda la sua croce e mi segua[27].
Spesso i massoni scrivono la parola Uomo con la U maiuscola: per il Cristiano l’uomo assume la Umaiuscola quando si conforma alla verità assoluta che è Gesù Cristo, quando può dire “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”[28]. Allora ciò che stabilisce il valore morale di un atto non è il suo risultato, ma la risposta alla domanda: “In questo atto, realizzo l’immagine di Dio?”. Gli atti intrinsecamente cattivi non sono dunque deduzioni dei filosofi, ma azioni compiendo le quali l’uomo non potrà mai conformarsi a questa verità concreta, che è Gesù, lo stesso Regno di Dio fattosi vicinonel tempo ora compiuto, per cui dobbiamo convertirci e credere la Vangelo[29]. San Giovanni Paolo II così spiega:
“…le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto «soggettivamente» onesto o difendibile come scelta. 82. Del resto, l’intenzione è buona quando mira al vero bene della persona in vista del suo fine ultimo. Ma gli atti, il cui oggetto è «non-ordinabile» a Dio e «indegno della persona umana», si oppongono sempre e in ogni caso a questo bene. In tal senso il rispetto delle norme che proibiscono tali atti e che obbligano semper et pro semper, ossia senza alcuna eccezione, non solo non limita la buona intenzione, ma costituisce addirittura la sua espressione fondamentale”[30].
Conclusione.
Di fronte alle Indicazioni pastorali dei Vescovi dell’Emilia Romagna, si levano le voci della ragione e della fede, “le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”[31].
La ragione, per mezzo di Fillide, grida: “Non abbia successo – io mi auguro – chiunque ritenga che le azioni debbano essere giudicate dal risultato!”
La fede, per mezzo del Beato Paolo VI e di San Giovanni Paolo II proclama: “In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (cf Rm 3,8), cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali”.
E adesso vorrei rivolgere una parola ai Vescovi dell’Emila Romagna, a cui capiterà questo scritto tra le mani: ho forse voluto insinuare che siete eretici, massoni, seguaci di Machiavelli etc.? No, ma soltanto mettervi una pulce nell’orecchio circa le conseguenze che certe affermazioni logicamente comportano, sicuramente molto al di là delle vostre intenzioni.
Siamo tutti d’accordo sull’urgenza del Vangelo della misericordia, ma non c’è ancora unità (e non solo tra noi, ma tra Cardinali e Cardinali, Vescovi e Vescovi, fedeli e fedeli) sul modo di essere misericordiosi.
Ho scritto queste note anche perché sono convinto che, con Caffarra vivo, queste Indicazioni pastorali non avrebbero mai visto la luce. E dal Cardinale Caffarra non ho ereditato solo la teologia morale, ma anche l’amore al Santo Padre e la fedeltà a tutto il Magistero.
Sottopongo quindi quanto ho scritto al giudizio della Chiesa, ed intendo per ritrattato tutto ciò che, a suo insindacabile giudizio, fosse contrario a ciò che Ella ci propone a credere.
Ho sbagliato a scrivere (Ah volesse il cielo che mi fossi sbagliato!)? Punitemi, perché “Chi risparmia il bastone odia suo figlio, chi lo ama è pronto a correggerlo”[32]. Accolgo già fin d’ora tutte le sanzioni canoniche che vorrete comminarmi. Ma se non mi fossi sbagliato, allora ricordatevi che “Chi ascolta un rimprovero salutare, potrà stare in mezzo ai saggi”[33].
Infine, affido infine questo scritto a Maria Santissima, debellatrice di tutte le eresie, in attesa dell’immancabile trionfo del Suo Cuore Immacolato.
NOTE
[1] Tr. it: “Prendeteci le volpi, le volpi piccoline che devastano le vigne: le nostre vigne sono in fiore”. (CEI 2008)
[2] Sermoni sul Cantico dei Cantici, LXIV, III, 8; tr. it.: “E se, secondo il senso allegorico, intendiamo per vigne le chiese, per volpi le eresie o meglio gli eretici stessi, il senso è semplice: gli eretici vengano presi piuttosto che scacciati. Siano presi, dico, non con le armi, ma con gli argomenti, con i quali siano confutati i loro errori; essi poi, se possibile, si riconcilino alla Chiesa Cattolica, siano richiamati alla vera fede. Questa, infatti, è la volontà di colui che vuole che tutti gli uomini si salvino e pervengano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4)“. Il testo latino è preso dall’edizione a c. dello Scriptorium Claravallense, Milano 2008, pp. 358.
[3] Ho ricavato il testo dal sito della diocesi di Imola, https://tinyurl.com/indicazioni-AL-vescovi-ER.
[4] Giovanni Paolo II, lettera enciclica Veritatis splendor, 6-8-1993, § 56: “Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette «pastorali» contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica «creatrice», secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare.
Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l’identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell’uomo e alla legge di Dio. Solo la chiarificazione precedentemente fatta sul rapporto tra libertà e legge fondato sulla verità rende possibile il discernimento circa questa interpretazione «creativa» della coscienza”.
[5] Veritatis splendor, § 75.
[6] Veritatis splendor, § 81. Inoltre, in generale , al § 115: “È la prima volta, infatti, che il Magistero della Chiesa espone con una certa ampiezza gli elementi fondamentali di tale dottrina, e presenta le ragioni del discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche. Alla luce della Rivelazione e dell’insegnamento costante della Chiesa e specialmente del Concilio Vaticano II, ho brevemente richiamato i tratti essenziali della libertà, i valori fondamentali connessi con la dignità della persona e con la verità dei suoi atti, così da poter riconoscere, nell’obbedienza alla legge morale, una grazia e un segno della nostra adozione nel Figlio unico (cf Ef 1,4-6).
[7] CIC, Can. 751: “Vien detta eresia, l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa…”
[8] Grassetto redazionale.
[9] Ad esempio al § 80 di Veritatis Splendor, viene citata Reconciliatio et poenitentia: “la Chiesa insegna che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto”; la nota (131) fornisce la referenza e aggiunge un insegnamento di Paolo VI: “Esort. Ap. Post-sinodale Reconciliatio et paenitentia (2 dicembre 1984), 17: AAS 77 (1985), 221; cf Paolo VI, Allocuzione ai membri della Congregazione del Santissimo Redentore (settembre 1967): AAS 59 (1967), 962: «Si deve evitare di indurre i fedeli a pensare differentemente, come se dopo il Concilio fossero oggi permessi alcuni comportamenti, che precedentemente la Chiesa aveva dichiarato intrinsecamente cattivi. Chi non vede che ne deriverebbe un deplorevole relativismo morale, che porterebbe facilmente a mettere in discussione tutto il patrimonio della dottrina della Chiesa?»”
[10] Veritatis splendor, § 80.
[11] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, § 25. Cf. anche Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della «Professio fidei», 29 giugno 1998, § 11.
[12] Veritatis splendor, § 80; grassetto redazionale.
[13] Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius, cap. II.
[14] A parte tre, in cui sono gli uomini a scrivere, e a loro rispondono le donne.
[15] Heroidum epistula II, 81-86, in Peter E. Knox (ed.), Ovid. Heroides Selected Epistles, Cambridge 1995, p. 47.
[16] Ad esempio, il Card. Kasper ha dichiarato: “Ogni situazione è un “Einzelfall” [= caso particolare; n.d.r.], perché ogni uomo è unico. Certo valgono sempre i principi teologici, ma la loro applicazione concreta non si fa in un modo solo deduttivo e meccanico”, in «Il Concilio e due encicliche ammettono casi di eucaristia ai protestanti», a c. di Andrea Tornielli, Vatican insider, pubblicato il 13/05/2018, ultima modifica il 14/05/2018 alle ore 07:56; https://tinyurl.com/ybunvrgp.
[17] Niccolò Machiavelli, Il principe con una scelta dei discorsi, a c. di E. N. Girardi, Brescia: La Scuola, 1967. p. 180.
[18] Le citazioni senza altro riferimento sono tutte tratte dal cap. 18 de Il principe, passim.
[19] Così Kasper: “il vero matrimonio è il matrimonio sacramentale; il secondo non è un matrimonio nello stesso senso, ma ci sono degli elementi di esso: i partner si prendono cura uno dell’altro, sono vincolati esclusivamente uno all’altro, c’è l’intenzione di permanere in questo vincolo, si prendono cura dei bambini, conducono una vita di preghiera, e così via. Non è la situazione migliore. È la migliore situazione possibile”, in «Ecco gli argomenti per la comunione ai divorziati risposati», a c. di Andrea Tornielli, Vatican insider, Pubblicato il 08/05/2014, Ultima modifica il 08/05/2014 alle ore 11:16; https://tinyurl.com/yd8cmxdf.
[20] Secondo William Stern Randall, non si può escludere che George Washington sia stato il massone di più alto grado negli Stati Uniti; cf. George Washington: A Life, New York: Henry Holt and Company, 1998, p. 67, cit. in https://en.wikipedia.org/wiki/George_Washington.
[23] Dal 1990 al 1993 Di Bernardo è stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Palazzo Giustiniani.
[24] Giuliano De Bernardo, Filosofia della Massoneria e della tradizione iniziatica, Padova: Marsilio, 2016, prima edizione elettronica, https://tinyurl.com/ycz4z8sr.
[25] Ad analoghe conclusioni, pur senza arare di opzione fondamentale, giunge il Card. Kasper: “A coloro che dicono: “Beh, sono in una situazione di peccato”, risponderei: Papa Benedetto XVI ha già detto che questi cattolici possono ricevere la comunione spirituale. Comunione spirituale significa essere unito con Cristo. Ma se io sono unito con Cristo, non posso essere in una situazione di peccato grave” (in «Ecco gli argomenti per la comunione ai divorziati risposati»). Il punto debole del ragionamento è che è tutto da dimostrare che la Comunione spirituale di chi non è in grazia di Dio sia la stessa di chi invece lo è (si tratta invece di una tensione verso la Comunione, più che una reale Comunione); e quindi si deve escludere che chi vive in stato di peccato sia unito a Cristo in atto.
[26] Gv 14,6.
[27] Cf. Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23.
[28] Gal 2,20.
[29] Cf. Mc 1,15.
[30] Veritatis splendor, § 81-82.
[31] San Giovanni Paolo II, lettera enciclica Fides et ratio, 14-9-1998, incipit.
[32] Prov 13,24.
[33] Prov 15,31.

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