Foto: Piazza San itero a Roma
di Aurelio Porfiri
Nel mio ultimo paragrafo pubblicato in precedenza, mi sono occupato di alcune questioni etiche importanti, che fanno riferimento all’atteggiamento che si dovrebbe tenere quando alcuni abusano della loro posizione per ottenere vantaggi personali o semplicemente essendo profondamente infedeli alla istituzione a cui hanno promesso totale adesione. Facevo riferimento ai sacerdoti infedeli, precisando che sono solo una parte del mondo sacerdotale, fatto anche da persone degnissime e totalmente dedite al bene delle anime. Ma il fatto che ci sia una parte buona non ci deve far abbassare la guardia su quella non buona. E’ come in un corpo umano: se io dicessi al medico che il mio stomaco non funziona e lui mi rispondesse che comunque le gambe vanno bene, cambierei subito medico. I problemi vanno localizzati e combattuti dove sono, non astraendoli in concetti piu’ ampi in modo da diluirli. Poi, come credo di aver detto in precedenza, il clericalismo non è certo un fenomeno che, malgrado il nome, riguarda solo il clero. Esiste in tutti gli strati della società e a tutti i livelli. Certo, scotta di più laddove è in gioco il bene delle anime.

I lettori potranno percepire che sono molto appassionato da questo tema ed e’ vero: sono testimone diretto del male enorme che i cattivi sacerdoti fanno alla Chiesa tutta. Quanti miei amici, conoscenti, colleghi si allontano dalla Chiesa per i cattivi esempi. Io stesso soffro molto per questo, continuamente. Certamente la frase che tutti possono sbagliare può far tacere qualcuno, ma non me. Quando lo sbaglio è in materia giudicata moralmente od eticamente grave, non è uno sbaglio comune, veniale. Quando i sacerdoti si comportano da prevaricatori, quando i sacerdoti guadagnano cifre non consone alla morigeratezza che dovrebbe distinguere la loro vita, quando i sacerdoti contraddicono apertamente la loro promessa di castità (e questo con varie gradazioni che non voglio specificare qui), allora bisogna fare qualcosa anche per il bene della Chiesa che è parte offesa da queste persone, non ne può essere complice.  
Vorrei fare una parentesi che riguarda il famoso libro Sodoma, uscito da non molto e che vuole dare conto dell’omosessualità nella Chiesa. Ora, diciamolo chiaramente: la tesi di fondo del libro è sbagliata; pure se nella Chiesa ci fossero 95 per cento di omosessuali questo non renderebbe lecita una pratica che la Chiesa vede come una pratica sbagliata. La verità non viene eletta come alle elezioni politiche. Eppure non sono stato d’accordo con alcuni, anche nel mio ambiente, che hanno liquidato il testo con troppa fretta. L’autore, ateo e omosessuale, ha ben scandagliato certi meccanismi che muovono il mondo omosessuale nella Chiesa e che si servono proprio di pratiche clericaliste per difendere i propri interessi. In alcuni casi potremmo anzi dire che le provocano. Certo, bisogna che chi legge il libro conosca bene il mondo Vaticano per non farsi iniettare il veleno di cui il libro è cosparso. Eppure è un libro che ha tanto di utile e che non va buttato via sdegnosamente.
Torniamo a noi. In tempi recenti e’ stato rivalutato Romano Amerio, pensatore cattolico molto critico verso alcuni indirizzi della Chiesa, successivi al Concilio Vaticano II. Si può aderire o no ad alcune sue posizioni ma non si può negare la competenza che è evidente nei suoi scritti, a partire dall’oramai classico Iota Unum. Qui troviamo questa osservazione: “Per mantere la verità occorrono due cose. Prima: rimuovere l’errore in sede dottrinale, il che si fa confutando gli argomenti dell’errore e dimostrando che non concludono. Seconda: rimuovere l’errante, cioè deporlo dall’officio, il che si fa per atto autoritativo della Chiesa. Se questo servizio pontificale vien meno, sembrerebbe non potersi dire che tutti i mezzi sono stati adoperati per mantenere la dottrina della Chiesa: si verifica una breviatio manus Domini. Si diffonde allora, senza incontrare sufficiente impedimento, un concetto minorato dell’autorità e dell’obbedienza, cui corrisponde un concetto maggiorato della libertà e dell’opinabilità” (128-129). Come si vede, il problema va a toccare l’efficacia stessa della missione della Chiesa. Ma talvolta si preferisce spostare l’errante da una parte all’altra, con lo stesso principio che giustificherebbe il rimuovere un virus dal vostro stomaco per iniettarlo nei vostri polmoni con l’assunzione che esso non causerà danno. Il problema non è di spostare l’errante ma di fermarlo.
Ci sono alcuni che, come riconosciuto anche da personalità ecclesiastiche, non dovevano mai essere ordinati sacerdoti per gravi difetti morali o di personalità. E se si legge il Diritto Canonico e le disposizioni ecclesiastiche, ci sono indicazioni abbastanza chiare. Ma poi succede che, per un fenomeno che è molto ampio e diffuso e che per comodità di comprensione abbiamo identificato come “clericalismo” (che è un problema complesso) si tende a nascondere la malattia piuttosto che a curarla. Ma questa non è una soluzione al problema: questo è in effetti il problema. Come non scandalizzarsi quando si tengono al loro posto sacerdoti sui cui anche in sede giudiziaria si nutrono pesanti sospetti? Certo la Chiesa deve recuperare il peccatore, ma non a scapito degli altri fedeli. Bisogna metterlo in condizione di non nuocere ancora. Eppure nella Chiesa si mette in atto un sistema di protezioni e connivenze che non la fanno assomigliare a quella società perfetta di cui parlava Paolo VI in un’udienza del 1966: “La Chiesa è appunto una società giuridica, organizzata, visibile, perfetta”. Ma oggi la fiducia del popolo cristiano nella Chiesa vacilla pesantemente e non si crede più che essa sia in grado di garantire la giusta punizione a coloro che abusano del loro potere. Ecco perché si invoca sempre più l’intervento della giustizia ordinaria.
Ma leggiamo ancora nel discorso di Paolo VI: “Così volle il Signore la sua Chiesa: una vera società organizzata, visibile, religiosa, con i poteri propri d’una società perfetta e sovrana, con leggi proprie, con autorità proprie, con mezzi e fine propri. È questa una verità fondamentale della dottrina cattolica, che ha le sue salde e chiare radici nel nuovo Testamento e la sua evidente realtà nella storia della Chiesa. Ma forse, proprio per questa inoppugnabile tradizionale manifestazione, è una delle verità più discusse e combattute nella grande controversia circa la vera natura della Chiesa. Chi la vorrebbe soltanto spirituale e perciò invisibile; questa sola sarebbe d’origine divina, non badando alla logica conseguenza che una Chiesa invisibile non è più affatto una Chiesa (cfr. Boyer, cit. da De Lubac Med.; p. 68). Già fin dal primo secolo del cristianesimo la santa e squillante voce del martire S. Ignazio d’Antiochia, facendo l’apologia dei gradi – vescovo, presbiteri, diaconi – della primitiva gerarchia ecclesiastica, risuona: «senza di questi non si può parlare di Chiesa» (Ad Trall. III, 1). E c’è chi vorrebbe opporre la Chiesa giuridica alla Chiesa della carità, pensando essere possibile e non pensando essere contrario all’economia dell’Incarnazione isolare un aspetto costitutivo della Chiesa dall’altro, come già ci premunisce la famosa Enciclica sul Corpo mistico di Papa Pio XII (n. 62). Certamente la concezione della Chiesa come una «civitas», come una società avente particolari forme, diritti, costumi, avente cioè una configurazione umana, concreta e storicamente identificata, pone molte questioni, primissima quella dei difetti, che una tale realizzazione della Chiesa può presentare; ma dobbiamo pensare che una tale concezione, cioè una tale società composta di uomini, quali noi siamo, deboli, peccatori, bisognosi di perdono e di redenzione, è sorta dalla bontà di Dio, dall’amore di Cristo per l’umanità, il Quale, così adunandola e organizzandola, la fa sua, la istruisce, la guida e la santifica; le comunica cioè, mediante la Chiesa, la sua redenzione, la sua salvezza”. 

Pur vero che da una parte assistiamo ad un antinomismo, un’idea che non debbano esistere regole e che esse non vadano osservate; dall’altra assistiamo ad un proliferare di regole, leggi, documenti, senza che essi sorgono su un terreno che ne favorisca l’applicazione. E questo è dovuto certo ad una enorme crisi di fede, che rende la ragione di tutto sempre più opaca e liquida.
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I vescovi luterani norvegesi, l’aborto e la “lungimiranza” di certo cattolicesimo

Anni fa, a Oslo, durante una cena conobbi un pastore luterano norvegese. Incominciammo a chiacchierare e scoprii che era sposato. Non solo. Era sposato, divorziato e risposato. Con una pastora. A sua volta divorziata e risposata, se non ricordo male.
Temo che l’espressione del mio volto tradì una certa sorpresa, perché il pastore disse: “Lo, so, per voi cattolici romani è difficile capire”. Lo disse con quel tono di condiscendenza che a volte i nordici assumono nei confronti di noi meridionali, e la mia impressione fu che stesse pensando: “Ma prima o poi ci arriverete anche voi”.
All’epoca il papa era Giovanni Paolo II e il sottoscritto pensò: “Questi luterani si credono tanto progrediti ma non hanno capito che, semplicemente, hanno ceduto alle logiche del mondo e tradito i comandamenti divini”. Da povero ingenuo quale sono, ringraziai in cuor mio il buon Dio per avermi fatto nascere cattolico e mi sentii al riparo da certe derive. Ma oggi, tanti anni dopo, e dopo tanto ecumenismo à la page, non sarei più così sicuro.
L’episodio mi è tornato alla mente quando ho letto che i vescovi luterani norvegesi hanno  sottoscritto una dichiarazione sull’aborto nella quale dicono che “la Chiesa, come istituzione, nel corso della storia ha mostrato una mancanza di coinvolgimento per la liberazione e i diritti delle donne”.
Mancanza di coinvolgimento per la liberazione e i diritti delle donne?
Vado avanti e leggo: “Una società con accesso legale all’aborto è una società migliore di una società senza tale accesso. Previene l’aborto illegale e promuove la salute e la sicurezza delle donne”.
Sembra la dichiarazione di un partito politico filoabortista. Tanto più che i “pastori”, a scanso di equivoci, si premurano di sottolineare: “Non vogliamo mettere in discussione la legge sull’aborto”.
E potevano mancare le scuse? Certo che no. “Siamo spiacenti. Come Chiesa dobbiamo cambiare il nostro modo di parlare dell’aborto e di prenderci cura delle persone colpite”.
E poteva mancare l’ambiguità? Certo che no. L’obiettivo della Chiesa, scrivono infatti i vescovi, non è tanto mettere in discussione la legislazione (in Norvegia l’aborto è legale fino alla dodicesima settimana di gestazione), e nemmeno mettere in discussione il fatto che il feto sia una vita “che ha valore e chiede protezione”, quanto “promuovere una comunione inclusiva”.
Comunione inclusiva? E che vuol dire?
E poteva mancare l’ambivalenza? Certo che no. E infatti i vescovi, pur lasciando intendere che il feto, tutto sommato, è una persona, alla fin fine difendono la legge che fa dell’aborto un diritto, alla faccia del diritto di quella persona che non ha voce per rivendicare il suo diritto alla vita.
E poteva mancare l’appello al dialogo? Certo che no. Infatti i vescovi luterani dicono, e di nuovo si scusano, che essersi opposti alla liberalizzazione dell’aborto ha peggiorato il dialogo con la società e con le donne.
Mea culpa, ambiguità, ambivalenza, trasformazione del dialogo in nuovo dogma: dove ho già sentito questo repertorio?
E il bello (naturalmente si fa per dire) è che queste prese di posizione dei vescovi luterani arrivano proprio mentre la politica ripensa certe questioni sotto una nuova luce, come dimostra il fatto, per restare alla Norvegia, che il premier Erna Solberg, del partito conservatore, ha parlato di possibile modifica in senso restrittivo della legge sull’aborto per quanto riguarda gli aborti selettivi, e la suprema corte ha riconosciuto il diritto dei medici di non procedere con trattamenti sanitari quando questi siano avvertiti come contrari alla loro coscienza.
Quindi mentre politica e società, perfino in un paese ultra-secolarizzato come la Norvegia, per la prima volta vanno in una direzione meno relativista, ecco che un bell’assist alla mentalità relativista arriva dalla Chiesa luterana. Che certi cattolici corteggiano  perché Lutero “ha fatto una medicina per la Chiesa” e noi saremmo indietro di qualche secolo.
Complimenti vivissimi per la lungimiranza.
Aldo Maria Valli