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sabato 25 maggio 2019

La prova

IL SENSO DELLE VITE DEI SANTI


Salvata da un toro: ma è possibile? Per capire "il senso profondo" delle vite dei santi non basta la ragione, come per i personaggi storici, ci vuole un supplemento di "facoltà di comprensione", che i cattolici chiamano "Fede" 
di Francesco Lamendola  

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C’è un misterioso episodio, nell’adolescenza della grande mistica Teresa Neumann (Konnersreuth, Baviera, 8 aprile 1898-ivi, 18 settembre 1962), in verità uno fra i tanti; che colpisce, tuttavia, per le circostanze veramente eccezionali in cui avvenne, e che ha per protagonista niente di meno che un toro, nella parte di angelo buono. 



Come in tantissime altre vicende delle quali è addirittura intessuta la vita dei santi (per Teresa Neumann è in corso il processo di beatificazione), il giudizio del pubblico rimane sospeso quanto alla soprannaturalità del fenomeno, perché è possibile anche una lettura in chiave puramente razionale, benché sia difficile sottrarsi alla sensazione che una spiegazione di quel tipo non soddisfa del tutto; d’altra parte, non ci sono elementi tali da affermare senz’altro che vi sia stato un intervento diretto del soprannaturale. È come se ci si trovasse di fronte a un enigma, a un qualcosa che sfida la nostra ragione e che investe la totalità della nostra volontà di comprendere: in un certo senso, è come se qualcosa ci mettesse alla prova. E la prova è sempre la stessa: vedere se l’uso della ragione, che caratterizza l’uomo in quanto creatura, è abbastanza maturo, abbastanza saggio, abbastanza umile da non escludere, una volta che si sia giunti alle soglie di ciò che non è del tutto spiegabile per tale via, di rivolgersi anche a un’altra facoltà, che non è contraria alla ragione, tutt’altro, ma l’affianca, la dirige, la orienta, la guida, la sorregge, la conforta e la conduce fino alla meta, e che i credenti chiamano fede. Per capire il senso profondo delle vite dei santi non basta la ragione, mentre essa è perfettamente sufficiente per capire le vite dei personaggi storici, degli statisti, dei navigatori, degli scienziati, degli artisti. Per capire l’orizzonte intellettuale e morale di Giulio Cesare, o di Magellano, o di Newton, o di Raffaello, la ragione basta e avanza; ma per capire l’universo interiore di san Francesco d’Assisi, di santa Teresa d’Avila, di santa Teresina di Lisieux o di san Pio da Pietrelcina, la ragione è utile, necessaria, ma non è sufficiente: ci vuole dell’altro, un supplemento di facoltà di comprensione, che i cattolici chiamano fede. Giudicata senza un briciolo di fede, la vita dei santi è pazzia: il loro modo di essere, di pregare, agire, parlare, tacere, tutto il loro stile di esistenza pare quello di persone squilibrate, tormentate, nevrotiche, allucinate.

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Salvata da un toro: ma è possibile?

Gli studiosi atei, che osservano i fatti dal loro punto di vista materialista e immanentista, non arrivano a comprendere il senso profondo di quelle vite nascoste, tutte rivolte verso l’interiorità; per questo essi, semmai, prediligono i santi “sociali”: e naturalmente cadono nell’errore banale di pensare che questi hanno pur fatto del bene, anche se si sono illusi quanto al soprannaturale, mentre gli altri, gli spirituali, i contemplativi, non hanno fatto niente di utile nella loro vita, hanno solo consumato i loro anni in un’esistenza sterile, fatta di sogni. E non hanno capito nulla: non hanno capito che i santi sono santi e basta, e che non vi è alcuna distinzione fra un santo che agisce sul terreno sociale e un santo che trascorre la vita entro il chiostro d’un convento o in un eremo nel deserto: entrambi sono in unione mistica con Dio, e quel che fanno, che sia pregare o agire, è tutto una preghiera; e i risultati che ottengono, anche sul piano materiale, visibile e osservabile, sono sempre dovuti alla grazia divina, che è la vera artefice di ogni loro azione; e che un santo che non prega, che non resta intimamente unito a Dio, semplicemente non è un santo, e che per quanto possa fare del bene sul piano sociale, lo fa da uomo comune e non da santo, perché il santo è colui che annulla se stesso per permettere a Dio di agire pienamente, totalmente, incondizionatamente, per mezzo del suo corpo, della sua intelligenza, della sua tenacia, della sua pazienza, del suo amore. E la differenza fra il bene che può fare l’uomo comune e il bene che fa il santo è di natura qualitativa, non quantitativa. L’uomo comune è, e resta, un uomo carnale, che pensa e agisce da uomo carnale: può far costruire un ospedale per i poveri, e sarà certo una cosa lodevole, una cosa utile, ma pur sempre una cosa di questo mondo, che passa e non cambia sostanzialmente il rapporto che esiste fra gli uomini e il dolore. L’uomo spirituale, il santo, anche se non ha altro da offrire al prossimo che una scodella di minestra, anche se non ha altro da offrire che una preghiera e una benedizione, esercita un’azione potentissima, che opera alla radice del rapporto esistente nel mondo fra gli uomini e il dolore: mostra loro la via per trasformare il dolore in amore, la tristezza in gioia, il male in bene. Perché ci sarà sempre bisogno di ospedali, ci sarà sempre la malattia, ci sarà sempre il dolore: tutto questo fa parte della condizione umana. Non arriverà mai il momento in cui, dopo aver costruito l’ultimo ospedale, la malattia sarà stata debellata, e con essa la sofferenza, e con ciò verrà instaurato il paradiso in terra. E la stessa cosa vale per le altre sorgenti della sofferenza: la giustizia che non è giusta, la politica che non ha realmente a cuore il bene comune, l’economia che non è etica, il lavoro che non c’è, la famiglia lacerata dalle tensioni, gli istinti e le passioni disordinate, l’incoscienza, l’egoismo, la prevaricazione, l’avidità, la superbia, l’invidia, la lussuria. Nessuna di queste cose sparirà mai dalla faccia della terra, finché esisterà il mondo: perché gli uomini sono quello che sono, creature deboli e limitate, e la debolezza e l’imperfezione sono parte del loro statuto ontologico. Ma il santo è colui che spalanca una finestra e fa entrare l’aria fresca e la luce e il calore nella gelida cantina, nel sotterraneo pieno di muffa e di umidità: fa entrare lo Spirito di Dio, o per parlare più esattamente, è lo Spirito di Dio che entra nel mondo, e specialmente negli angoli oscuri, per mezzo del santo, l’uomo o la donna che si sono messi totalmente a sua disposizione.

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Teresa Neumann ha mostrato agli uomini cosa sia abbandonarsi incondizionatamente alla vera fede: per trentasei anni ella visse senza assumere cibo né bevande, ma solo comunicandosi con il Corpo del Signore!

E adesso, torniamo alla serva di Dio Teresa Neumann, nella cui vita si ritrovano tutte le manifestazioni soprannaturali della santità, dalle stimmate alle bilocazioni, dalla profezia alla xenoglossia (l’uso di lingue, anche e soprattutto antiche, che il soggetto non conosce, come in questo caso il greco, il latino e l’aramaico): ed era un’umilissima donna del popolo, figlia d’un sarto e di una contadina, entrambi profondamente religiosi, la quale fin da giovanissima, come usava allora, era andata a lavorare come un’adulta per contribuire al faticoso bilancio familiare: dopo di lei, infatti, i suoi genitori avevano avuto ben altri dieci figli.
Ecco come riporta questo strano episodio la saggista Paolo Giovetti nella biografia Teresa Neumann di Konnersreuth (Edizioni Paoline, 1989, pp. 53-54):
Il fatto che segue avvenne quando Teresa aveva dodici anni e fu narrato da Teresa stessa molti anni dopo, sotto giuramento, a una commissione incaricata dal vescovo di Eichstätt di indagare sulle prime esperienze straordinarie della veggente. Era il 1953 e la commissione era costituita da docenti universitari che erano anche sacerdoti.
Ecco dunque il fatto, come le parole stesse di Teresa: “Un altro fatto sorprendente mi capitò durante il mio settimo anno di scuola, quando custodivo il bestiame nel podere Fokelfeld. Un pomeriggio durante il mio lavoro recitavo il rosario  quando un operaio mi aggredì, mi tappò la bocca col suo fazzoletto sporco e puzzolente, mi legò le mani col suo grembiule, mi gettò a terra e mi alzò la gonna. In quel momento arrivò al galoppo il toro che faceva parte del bestiame e cacciò l’operaio con le corna. Poi venne anche verso di me, ma non mi fece alcun male, come io invece temevo: aspettò con pazienza che mi liberassi le mani e la bocca, poi chinò la testa verso di me, che me ne stavo tremante e priva di forze. Io mi aggrappai alle sue corna e lui mi sollevò lentamente. Attese poi che mi riprendessi dallo spavento, appoggiata a lui”.
Un episodio, questo, che ricorda molto da vicino altri fatti straordinari con animali vissuti dai santi: in particolare san Francesco e sant’Antonio.

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Konnersreuth, in Baviera, paese natale della mistica Teresa Neumann

Paola Giovetti avrebbe potuto aggiungere il nome di san Giovanni Bosco, in particolare per quel che riguarda le provvidenziali apparizioni del misterioso cane detto il Grigio, che in più occasioni lo salvarono da situazioni assai pericolose, e che poi spariva altrettanto misteriosamente (cfr. il nostro articolo Il “cane grigio” di S. Giovanni Bosco: una materializzazione del pensiero?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 28/12/07 e ripubblicato sul sito del’Accademia Nuova Italia il 06/11/17). Ma il cane, dopotutto, è un animale domestico, è il più antico e il più fedele amico dell’uomo; e un cane da difesa, si sa, affronterebbe qualunque pericolo, si batterebbe contro qualsiasi nemico, anche un orso infuriato, per difendere il suo padrone. Ma un toro, e sia pure un toro da allevamento? Un toro è sempre un animale selvaggio, un animale possente, dalla forza terribile e dal temperamento fierissimo, molto aggressivo; perfino gli uomini abituati a lavorare in un allevamento di tori, o ad avere a che fare con i tori da monta per un allevamento di mucche, sanno che bisogna avvicinarsi a lui con estrema prudenza, e che un errore anche lieve nel trattarlo, una distrazione anche momentanea  nei suoi confronti, si possono pagare molto cari, con delle gravi ferite e perfino con la vita. È probabile che molte persone non si rendano conto, leggendo l’episodio che abbiamo riportato, di che cosa può voler dire trovarsi a faccia a faccia con un toro inferocito: le persone che vivono in città non hanno mai avuto occasione di vedere un toro, al massimo hanno visto un bue, cioè un toro castrato, che è tutta un’altra cosa. Un toro infuriato che carica, con i suoi 1.500 chili di peso, fatti in gran parte di muscoli, con le grandi corna protese e gli zoccoli scalpitanti, pronti a calpestare chiunque osi mettersi davanti a lui, incuterebbe una sacrosanta paura anche all’uomo più coraggioso. Ora, nell’episodio accaduto a Teresa Neumann, quel che colpisce non è la prima parte, la carica dell’animale e la fuga precipitosa dell’uomo, per quanto si tratti di una carica anomala, contro qualcuno che non gli ha fatto nulla e che è in tutt’altre faccende affaccendato, ma la seconda: il fatto che quello stesso animale, un attimo dopo aver fatto allontanare l’aggressore della ragazza, si ferma, si calma, si ammansisce, sembra volerla soccorrere, consolare e proteggere: le sta ritto accanto, attende che ella si riprenda dallo shock e recuperi le forze, la tira letteralmente in piedi, dopo averla incoraggiata ad afferrarsi alle sue corna. Tutto questo ha dell’incredibile: nessun toro, in condizioni normali, si presterebbe a simili operazioni, anche se accade, talvolta, che degli animali adulti, e perfino degli animali selvatici, mostrino una sorta di istinto di protezione nei confronti di bambini smarriti o in difficoltà. Ma qui sembra esserci qualcosa di diverso; sembra esserci una precisa intelligenza che guida dall’alto il comportamento del toro, facendogli assumere degli atteggiamenti che solitamente nessuno ha mai potuto osservare in lui. Il toro non si comporta come un toro, ma come un cane San Bernardo: mostra una dolcezza, una pazienza, una sorta di compassione, quali non si trovano assolutamente nell’istinto della sua specie, e che fanno veramente pensare a un agente esterno. È come se l’animale, in quel momento, non fosse altro che un messo, un agente di soccorso e di protezione, una sorta di angelo custode a quattro zampe, capitato al momento giusto e senza il quale la verginità della fanciulla sarebbe stata profanata da una violenza ormai quasi inevitabile.

Salvata da un toro: ma è possibile?

di Francesco Lamendola

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