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mercoledì 19 giugno 2019

Alcune domande “scorrette”

LA "RELIGIONE DELLA COLPA"


La teologia della Shoah genera "la religione della colpa". Alcune domande “scorrette” di Sergio Romano e il libro proibito di Mons. Vitaliano Mattioli: "Gli ebrei e la Chiesa, 1933-1945": l’editore Mursia ha dovuto "ritirarlo"? 
di Francesco Lamendola  

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Fra gli intellettuali che si muovo all’interno del perimetro del politically correct, e che accettano, quindi, i suoi riti e i suoi miti, Sergio Romano (vicentino, classe 1929, ex ambasciatore, saggista, editorialista del Corriere della Sera) è, probabilmente, quello che si è spinto più in là di tutti sul terreno del dibattito intorno all’ebraismo e ha parlato con maggiore franchezza non sull’Olocausto, ma sullo sfruttamento che di esso operano alcuni ambienti ebraici, per ragioni essenzialmente politiche. Nel suo libro Lettera a un amico ebreo(Longanesi, 1997), egli si è spinto fino al margine estremo di ciò che consente l’ideologia del politicamente corretto, cioè fino a metter in guardia certi ebrei dal voler teologizzare il fatto storico dell’Olocausto; ammonendo che, una volta imboccata questa via, non resta altro da fare che alimentare perennemente una nuova visione della storia basata su una colpa inestinguibile dei non ebrei nei confronti degli ebrei, che richiederà dosi sempre maggiori di contrizione e auto-umiliazione, cerimonie sempre più grandiose e formule di scongiuro sempre più solenni, in una spirale senza fine. 

Oltre, non poteva andare; e infatti si guarda bene dall’andare. Tutto il suo ragionamento si regge sulla dichiarata volontà di riportare l’Olocausto alle sue dimensioni di evento storico, per quanto terribile, togliendogli quella pretesa di unicità e quella assolutezza morale che sono la base per la sua teologizzazione, e rivendicando alla storiografia laica il diritto e il dovere di studiarlo come ogni altro evento storico, esaminando perciò, anche i “torti” delle vittime, oltre alle “ragioni” dei carnefici.

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 Mons. Vitaliano Mattioli, Gli ebrei e la Chiesa, 1933-1945: l’editore Mursia ha dovuto ritirarlo dalla circolazione,  fatto che richiama l’Indice dei Libri Proibiti di Controriformistica memoria!

Peccato solo che egli parta da una premessa che smentisce radicalmente il ragionamento stesso: e cioè che sia ininfluente e “meschino” il conteggio delle vittime, e che se qualcuno pretende di farlo, sbaglia e cade in un atteggiamento reprensibile. Per gli eventi storici, però, non si dovrebbe procedere in tal modo. Per la storia laica, come la chiama lui, non è affatto meschino o ininfluente cercar di capire quanti furono gli Eburoni che Cesare ordinò di sterminare durante la guerra gallica, quanti gli armeni che perirono nel genocidio pianificato dai Giovani Turchi, o quante, per esempio, le vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, o dei criminali bombardamenti alleati su Dresda, alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel caso specifico Sergio Romano se la prende col libro di un eminente studioso cattolico, monsignor Vitaliano Mattioli, Gli ebrei e la Chiesa, 1933-1945, affermando che il suo tentativo di ridurre di qualche centinaio di migliaia il numero delle vittime non ha altro risultato che quello di rendere, sono parole sue, la “questione ebraica” ancor più ingarbugliata e intrattabile. Veramente non è stato carino, da parte sua, prendersela con un libro che era già stato attaccato così duramente da tutto il carrozzone del politicamente corretto, al punto da costringere l’editore Mursia a ritirarlo dalla circolazione, fatto che richiama l’Indice dei Libri Proibiti di controriformistica memoria; e da obbligare la casa editrice paolina, rea di aver ospitato una recensione favorevole sul mensile Jesus, a mettersi sulla difensiva, giustificarsi e chiarire la propria posizione. Premesso che monsignor Mattioli, romano, classe 1938, non era un qualsiasi sconosciuto, ma un docente di Storia contemporanea alla Pontificia Università Urbaniana, autore di numerose pubblicazioni, oltre che stimato sacerdote dalla vita esemplare, e che proprio a causa di quella vicenda si deve probabilmente il suo trasferimento in Brasile come sacerdote fidei donum, ove si spense dopo un delicato intervento chirurgico nel 2014, lasciando un indimenticabile ricordo nei seminaristi per le sue lezioni di teologia morale, resta il fatto che la sua vicenda testimonia come sia impossibile parlare serenamente del rapporto fra cristiani ed ebrei senza scatenare l’ira funesta dei secondi. Quando uscì il libro in questione, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, di cui era presidente Tullia Zevi, si era scatenata in una furiosa contestazione, giungendo sino a far pervenire in Vaticano, presso Giovanni Paolo II, la sua “indignazione”. E siccome don Franco Pierini, docente alla Facoltà teologica Seraphicum di Roma, aveva avuto il torto di pubblicare su Jesus una recensione sostanzialmente positiva di quel libro, ecco che un certo Carmine di Sante, uno dei dirigenti del Servizio Internazionale di Documentazione Giudeo-Cristiana, aveva chiesto, a sua volta, alla Società San Paolo di prendere le distanze da quella recensione, accusandola di fomentare l‘antisemitismo e di riprodurre “gli stereotipi antiebraici più abusati e disgustosi”. Don Pierini si era difeso affermando che ad argomenti storici bisognerebbe rispondere esclusivamente con argomenti storici, ma di fatto era  stato scaricato; monsignor Mattioli, chi sa come, qualche tempo dopo prendeva la strada della diocesi di Crato, suffraganea della diocesi di Fortaleza, in Brasile, lui che, ordinato sacerdote nel 1963, aveva sempre lavorato e insegnato a Roma. Difficile non pensare a un vero e proprio esilio deciso dal Vaticano per liberarsi da una patata bollente; difficile anche non trarre qualche amara riflessione dalla sua vicenda, sia per quel che riguarda la libertà di ricerca storica, sia  più in generale, per quel che riguarda il tema del rapporto fra cristianesimo e giudaismo, che, dopo la Nostra aetate del 1965, sembra aver imboccato la via della sottomissione totale e incondizionata del primo nei confronti del secondo. Ricordiamo che, per la stessa ragione, cioè per una inverosimile accusa di antisemitismo, o quanto meno di antigiudaismo,  la proclamazione della santità del padre Léon Dehon, già fissata, al termine del processo canonico, per il 24 aprile 2005, venne sospesa e congelata a tempo indeterminato, con grande amarezza dei padri dehoniani e con somma umiliazione di tutti i cristiani.

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  Sergio Romano, vicentino classe 1929, ex ambasciatore, saggista, editorialista del Corriere della Sera

Questa era dunque la situazione quando Sergio Romano non si è peritato di far sentire la sua autorevole voce di studioso, non per biasimare la campagna di demonizzazione scatenata ai danni di monsignor Mattioli, ma per biasimare il libro dello stesso monsignore, contribuendo così a delegittimare le pochissime voci a lui favorevoli (di voci che abbiano tentato di difenderlo, dopo la campagna isterica scatenata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, non è neanche il caso di parlare, dato che praticamente non ve ne furono, con la sola eccezione di Vittorio Messori). Questi sono i limiti del politically correct e per questo abbiamo detto che Sergio Romano si è sempre mosso all’interno di essi; abbiamo però aggiunto che, rispetto ad altri, egli è quello che si è spinto fino al margine estremo, e a sostegno di questa affermazione vogliamo riportare una pagina del suo libro, sopra citato, Lettera a un amico ebreo(pp.135-137):
Per una parte dell’ebraismo l’”Olocausto” non è soltanto l’avvenimento centrale del secolo. È la manifestazione del male nella storia, una specie di “antidio” che occorrerebbe esorcizzare continuamente con rievocazioni, monumento, musei, atti di contrizione e richieste di perdono. Non  un fatto storico: è la manifestazione più vistosa di una colpa – l’antisemitismo – mai sufficientemente espiata.
Ma questa è storia religiosa. Per la storia laica gli avvenimenti hanno cause proprie, effetti specifici e caratteri peculiari che li rendono, a dispetto delle apparenze e delle similitudini, irripetibili. Mi spiego meglio. Quando studia una guerra o un massacro, lo storico laico non può permettersi di ignorare la “responsabilità” delle vittime o, per meglio dire, le occasioni e i pretesti che esse offrono ai loro persecutori. Se ricostruisce il genocidio il genocidio degli armeni all’inizio della seconda [sic; la prima] guerra mondiale, lo storico dovrà ricordare che essi avevano stretti e sospettabili legami con le popolazioni armene nell’impero zarista. Se si occupa dell’attacco giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941, dovrà ricordare che gli Stati Uniti, nei mesi precedenti, avevano decretato un embargo sull’esportazione di prodotti petroliferi americani verso il Giappone. Per giustificare o assolvere? No, il suo compito è di comprendere, non di distribuire verdetti morali. Se si occupa di antisemitismo nazista, quindi, dovrà chiedersi quali cause possano avere contribuito a creare nell’opinione pubblica tedesca il clima che permise alla Germania di perseguitare gli ebrei o di voltare le spalle di fronte al loro massacro. Dovrà cercare di capire perché a una larga parte dell’opinione pubblica la sconfitta, alla fine della prima guerra mondiale, apparisse immeritata e perché in tale clima di frustrazione gli ebrei potessero diventare , nella leggenda popolare, i registi occulti delle sventure tedesche (“Die Juden sind unser Unglück”, “gli ebrei sono la nostra disgrazia, gridavano gli striscioni dei convegni nazisti). Se si occupa di antisemitismo italiano, dovrà chiedersi per quali ragioni le leggi razziali furono accettate, sia pure con molte riserve, dalla maggior parte della popolazione. Dovrà chiedersi, ad esempio, perché tanti studiosi italiani, più tardi rispettati esponenti dell’Italia antifascista, abbiano accettato di occupare le cattedre da cui gli ebrei erano stati brutalmente espulsi, compiendo così un atto simile a quello di colui che accetta di comprare sottoprezzo la casa del vicino quando questi viene ingiustamente privato della possibilità di lavorare e costretto all’esilio.
Non appena si mette al tavolo su questi temi, lo storico si accorge che nulla di tutto questo sarebbe stato possibile se le misure antisemite non fossero cadute su un terreno seminato da pregiudizi in parte antichi, ma soprattutto recenti, collegati con l’espansione dell’ebraismo europeo nelle particolari condizioni economiche e sociali dell’Europa dell’Ottocento. Si accorge, in altre parole, che occorre rispondere a una serie di domande talvolta apparentemente sgradevoli e imbarazzanti: perché gli ebrei sono stati in certi momenti “antipatici” a larghi settori della pubblica opinione? perché sono così fortemente presenti nel movimento socialista e comunista? Perché sono altrettanto presenti nelle banche nel giornalismo, nel mondo accademico? Perché i germi di solidarietà appaiono più forti tra loro di quanto non accada, tanto per fare un esempio, tra italiani all’estero di seconda o terza generazione? È giusto che tale solidarietà venga definita, come è accaduto frequentemente, una “internazionale ebraica”? Con ciò, ripeto, non si vuole giustificare, ma comprendere. Il rischio, ove si adotti un diverso atteggiamento, è quello di esprimere perentori giudizi morali, di scrivere la storia con la penna intinta nell’inchiostri dell’indignazione. È quello che vorrebbero gli storici “teologici”, i quali leggono immediatamente in queste domande una diminuzione del genocidio e del suo significato.

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Vittorio Messori uno dei pochi che ha preso le difese di Mons. Vitaliano Mattioli

Più oltre, restando nei confini del politicamente corretto, non era possibile dire. Però Sergio Romano ha detto, e soprattutto chiesto, abbastanza? Ha posto una serie di domande “scorrette”: e chi se le ponga con spirito imparziale, potrebbe arrivare a delle conclusioni che lo porrebbero del tutto fuori dal politicamente corretto, lo respingerebbero nel lebbrosario del revisionismo fascista e magari anche razzista. Meglio fermarsi lì, come prudentemente lui fa, e lasciare che a scottarsi le dita con la patata bollente delle risposte sia qualcun altro. Lui, intanto, si è cautelato parlando male del libro di monsignor Mattioli, il che conferma l’assunto non detto ma sotteso al suo ragionamento: per poter fare una qualche osservazione critica nei confronti dell’ebraismo bisogna prima sacrificare una vittima sull’altare della Religione dei Sei Milioni, ovviamente una vittima non ebrea.

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Don Giorgio prete della chiesa misericordiosa di Bergoglio? In Italia, si può parlare male di Salvini? Certo che si può; e c’è perfino un certo don Giorgio De Capitani, che esorta i fedeli ad ucciderlo, dal momento che è “un ladro”, perciò lui elogia fin d’ora chi si prenderà la briga di ammazzarlo!

La teologia della Shoah genera la religione della colpa

di Francesco Lamendola
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FANTASMI DI GIOVANNI PREZIOSI

                                          
 Massoneria e B’nai B’rith: i “fantasmi” di Preziosi erano veramente tali? Da 70 anni la cultura dominante fa tutto da sola se la canta e se la suona si fa il processo e si auto-assolve e condanna all’inferno tutti i suoi nemici 
di Francesco Lamendola  

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È noto che Giovanni Preziosi, a detta non solo dei suoi nemici, ma anche dei (pochissimi) amici, era letteralmente ossessionato dall’esistenza di due pericoli occulti: massoneria ed ebraismo internazionale, contro i quali, a partire dal 1920-22 e fino all’ultimo giorno della sua vita, condusse una battaglia diuturna, frenetica, rispetto alla quale i suoi svariati e molteplici interessi, sociali, politici, culturali, e le sue numerose altre polemiche e contese, non di rado finite nelle aule di giustizia con esito alterno, devono considerarsi del tutto secondarie. Della sua convinzione che il giudaismo, non in senso religioso ma in senso politico, rappresentasse un gravissimo pericolo per la civiltà europea e per l’Italia fascista, specialmente dopo la scoppio della Seconda guerra mondiale, che egli addossò proprio al complotto giudaico mondiale, qualcosa abbiamo già detto in un precedente articolo  (cfr. Una pagina al giorno: La Palestina sarà una terra di sangue, di Giovanni Preziosi, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/08/2009 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/01/18). In questa sede vogliamo invece spendere qualche parola sull’altro corno della sua “ossessione”, la massoneria, anche se i due complotti, per lui, si riducevano in sostanza a uno solo, essendo le due facce d’una stessa centrale operativa, che si serviva tanto della plutocrazia anglosassone, quanto del bolscevismo russo per stringere l’umanità nelle sue spire e perseguire la distruzione della sola forza organizzata capace di opporsi al suo disegno, il fascismo. E ci ha colpito il fatto che di Preziosi – caso non certamente unico, peraltro, nel clima ultra-conformista, per non dir peggio, della cultura uscita dalla “gloriosa” Liberazione, democratica e antifascista – si sono occupati, a suggello della sua totale damnatio memoriae, solo i nemici politici delle idee che egli rappresentò e per le quali, sebbene fossero e siano discutibili, sacrificò l’intera sua vita, fino ala tragica morte nell’aprile del 1945; sicché l’ultima parola sul controverso e sfortunato giornalista e scrittore, non privo di doti intellettuali e d’intraprendenza in svariati ambiti sociali (si prodigò da giovane, quand’era ancora prete, per l’assistenza ai nostri emigranti negli Stai Uniti e in Germania), ma quanto mai irrequieto, spigoloso, sgradevole, è stata scritta da chi non aveva, e non ha, il minimo interesse a compiere uno sforzo d’imparzialità e obiettività nei suoi confronti.

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Giovanni Preziosi: il grande maledetto

Prendiamo il caso di ciò che dice di lui il saggista Aldo Alessandro Mola nel suo grosso volume Storia della Massoneria italiana dall’Unità alla Repubblica (Milano, Bompiani, 1976, pp. 579-81):
Nel 1944, dunque, egli pubblicava il suo “Syllabus”: “Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria, una miscellanea di scritti sparsi in vent’anni di battaglia pubblicistica, che costituiva la ‘summa’ delle “prove dell’infamia massonica”. Pochi mesi prima Preziosi aveva aggiunto un altro grano alla sua corona: la definitiva condanna del Risorgimento nazionale in quanto operazione monarchico-massonico-giudaica: con buona pace di Gentile, Volpe e quant’altri avevano cercato nella tradizione risorgimentale l’annuncio del’Italia moderna fascista. Una tesi, questa, che già l’aveva sospinto a contrapporsi, sin dal 1922, al nazionalista Federzoni, piuttosto lontana e per certi aspetti persino opposta al pensiero del carloalbertino Alessandro Luzio, ma che tuttavia metteva bene in evidenza quale fosse il punto d’arrivo della sostituzione del fanatismo al criticismo storico. In “La Massoneria” di F. Gaeta, “scoperto” e prefato da Preziosi, come negli scritti centrali della citata miscellanea, il discorso ritornava sulla “rivelazione” che tutte le Logge del mondo fanno capo alla “massoneria superiore ebraica”, i cui corpi (Scudo di Abramo, Scudo di David, Fratelli del Patto, Fratelli della Fede…) erano altrettanti gradini che conducevamo al vertice della “Bnai Berith”: Figli del Patto, la superloggia che – annidata tra i bolscevichi (come sosteneva il Louis Ternac di “La libre parole”) e ramificata nel mondo capitalistico – abbracciava nei suoi tentacoli l’intera società mondiale dominando come un solo cervello economia, istituzioni politiche e ogni altra cosa. Il dualismo monoteleutico, applicato alla lotta contro la Massoneria, suscitava in Preziosi quella sfrenata megalomania che acutamente Norman Cohn ha individuato nell’antisemitismo demonologico: SOLO sulla rupe della storia, EGLI affrontava il MOSTRO e a una a una ne avrebbe reciso le teste restituendo agli uomini l’originaria serenità, la purezza, la “ingenua” felicità.
Come sorgevano difficoltà alla pubblicazione della nuova serie repubblichina di “La Vita Italiana” – ora per via delle ristrettezze imposte dalla guerra, ora per ragioni tipografico-editoriali, ora perché il ministro della Cultura popolare, Mezzasoma, ne faceva sequestrare i fascicoli, giudicandoli controproducenti per la più ampia strategia del regime – EGLI si rivolgeva direttamente a Mussolini per spiegare per filo e per segno come tutti gli intoppi a suo danno rimontavano a una Causa che infine  non poteva avere che un nome: MASSONERIA. Senonché, beffardamente, avvoltolato tra i funzionari della Casa Editrice che avrebbe dovuto fare alle stampe le decisive opere di Preziosi, il Serpente Verde si rigirava a piacere tra le squamose mani il Minculpop (che andava infatti nominando ebrei e massoni in posizioni chiave, gridava Preziosi) e nuovamente avvinghiava gli ambienti più vicini allo stesso “duce”: al quale, il 6 febbraio 1945, inviandogli il primo esemplare della seconda edizione del “pamphlet” di Gaeta (“nessun libro sul pericolo massonico è più preciso e convincente di questo in ogni sua pagina”) ricordava, a mo’ di rimprovero, che le copie della prima edizione erano state tolte dalla circolazione.

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Da settant’anni la cultura dominante italiana procede in questo modo: fa tutto da sola, se la canta e se la suona, si fa il processo (qualora ne abbia voglia) e si auto-assolve, e condanna all’inferno tutti i suoi nemici!

Chiamato a render conto, F. Mezzasoma, ministro della Cultura popolare, scriveva senza indugi a Mussolini che “il direttore de ’La Vita Italiana’ deve essere evidentemente vittima di una allucinazione quando non sa vedere che boicottaggio e sabotaggio proprio in quegli organi che gli hanno dato la possibilità di fare quel pochissimo che ha fatto e di cui tanto ha parlato e Vi ha parlato” (30 gennaio 1945). Tre giorni prima, a Giorgio Almirante, da tempo ben noto ai lettori del mensile “La difesa della razza” e fidatissimo braccio destro di Preziosi, il dott. Corrado Marchi, dell’Editrice implicata nell’attività pubblicistica dell’Ispettore per la Razza [cioè lo stesso Preziosi], affermava “in maniera categorica che la sua coscienza di fascista, non ebreo né massone [qualità di cui era stato tacciato, n.d.t.], e di editore, era perfettamente tranquilla: più di quanto si è fatto e si fa, non è possibile fare”.
Non più di libri, ormai, aveva bisogno la pluridecennale invettiva antimassonica, né di nuove dotte disquisizioni, né d’altre chiose: tutto ciarpame necessario alle ostiche dottrine, alle tesi perdenti, non già alla smania d’azione e di distruzione in cui sprofondava la RSI. Avevano ragione “Camicia Nera”, “Avanguardista”, i fogli, insomma, che non badavano a mezze misure nel caricar la dose di documenti usciti dalle cucine economiche delle redazioni federali  repubblichine: i quali, come sarcasticamente faceva rilevare “Leonessa”, giornale della Brigata Nera di Brescia, proprio per la violenta sbrigatività di cui facevan uso, avevan certo più efficacia dei 367 fascicoli sino ad allora usciti di “La Vita Italiana”.

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Il salotto televisivo di Corrado Augias? Un cerimoniale ossequioso, in stile quasi rococò!

I “fantasmi” di Preziosi erano veramente tali?

 di Francesco Lamendola

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