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giovedì 20 giugno 2019

La paglia brucia ma non illumina

L'INTERVENTO
Paglia scherza con il fuoco dell'eugenetica

Nel corso di un intervento pubblico il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Vincenzo Paglia dice che «le tecniche di rianimazione consentono interventi risolutivi salvavita, ma producono effetti decisamente sconcertanti». Una frase che sembra cedere all’etica della qualità della vita e non all’etica fondata sulla dignità della persona umana. Quell’aggettivo “sconcertanti” riferito agli “stati vegetativi” è poi illuminante...


Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), è intervenuto ad una tavola rotonda all’Ambasciata italiana presso la Santa Sede centrata sul tema della cura del paziente.


Il presidente della PAV ha articolato molte argomentazioni condivisibili: la cura è anche relazione e “chiama in causa intelligenza e sapienza, competenza e sensibilità, esperienza morale e qualità spirituale”, occorre avere uno sguardo globale sul paziente che non può essere ridotto solo alla sua patologia, la malattia ci ricorda la nostra fragilità connaturata alla condizione di creature mortali, è fondamentale condividere con il malato il suo percorso di cura, etc.

Però c’è un passaggio della relazione di Mons. Paglia, così come riportato dalla stampa e dalle agenzie di stampa, che appare ambiguo. Non errato se andiamo ad analizzare le esatte parole del presule, ma dubbio. Paglia afferma che "la capacità della biomedicina di trattare le malattie acute comporta spesso la produzione di situazioni patologiche croniche. Pensiamo ad esempio allo sviluppo delle tecniche di rianimazione: da un lato consentono interventi risolutivi salvavita, dall'altro producono effetti decisamente sconcertanti. Per esempio portano dei malati a restare in quelli che vengono definiti ‘stati vegetativi’ (che in realtà – spiega sempre Paglia - non sono nè ‘stati’, perché sono molto dinamici e oscillanti, nè ‘vegetativi’, perchè gli umani non sono mai equiparabili alla condizione vegetale). Sempre più quindi allungare la vita può significare allungare il tempo di convivenza con le malattie. Bisogna rendere più seria e importante la ricerca dei presidi che devono integrare l'esperienza esistenziale e sociale di pratiche della cura all'altezza della dignità e degli affetti della persona umana”.

Il presidente della PAV non sta sostenendo a chiare lettere che non bisogna curare i pazienti cronici o che occorre evitare di prestare assistenza a chi probabilmente finirà in quello che lui ha definito essere una condizione di stato vegetativo, però pare – ed è questo l’aspetto ambiguo – che tenere in vita un paziente con grave malattia cronica o fortemente disabile possa configurare accanimento terapeutico. A fondare questo sospetto – ma è solo un sospetto - Paglia opera una distinzione che è rivelatrice: “Pensiamo ad esempio allo sviluppo delle tecniche di rianimazione: da un lato consentono interventi risolutivi salvavita, dall'altro producono effetti decisamente sconcertanti. Per esempio portano dei malati a restare in quelli che vengono definiti ‘stati vegetativi’”.

La nostra obiezione è la seguente: la rianimazione che prende per i capelli una persona, riesce a salvarla e a stabilizzarla seppur in uno “stato vegetativo” è pur sempre un intervento risolutivo salvavita, per usare espressioni usate da Paglia. Pare quindi - ma lo ripetiamo è solo una impressione - che esistano interventi moralmente leciti e sono quelli che salvano il malato e lo restituiscono ad una vita completamente normale, attiva, sana, efficiente, ed altri moralmente riprovevoli che sì ti salvano la vita, ma ti restituiscono ad una esistenza non più efficiente e sana come prima, bensì intaccata da gravi disabilità o patologie croniche.

Sembra dunque un passaggio, quello di Paglia, che cede, in un certo qual modo, all’etica della qualità della vita e non all’etica fondata sulla dignità della persona umana, al quale conserva il diritto a vivere e  dunque ad essere curato anche qualora la qualità della sua esistenza fosse infima. Possiamo trovare una certa conferma a questa impostazione efficientista, nell’appoggio che Mons. Paglia, almeno inizialmente, espresse nei confronti della decisione dei giudici inglesi allorquando decisero di togliere i presidi vitali al piccolo Alfie Evans, perché mantenere in vita un paziente fortemente disabile e senza speranza di miglioramento era stato considerato da costoro una forma di accanimento terapeutico.

Quell’aggettivo “sconcertanti” riferito agli “stati vegetativi” è poi illuminante. La lettura moralmente corretta dello scenario descritto da Paglia sarebbe dovuta essere differente: grandi progressi ha compiuto la medicina, tanto che oggi riesce a salvare pazienti che un tempo sarebbero sicuramente morti, mantenendoli in vita seppur in condizioni critiche. Salvare una persona, anche se questa poi non sarà più in grado di camminare, parlare o relazionarsi, è un bene, non un male.

Tommaso Scandroglio

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