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sabato 13 luglio 2019

Il dovere di riparazione

L’INTERVISTA A DON BUX
«Le preghiere di riparazione? Testimoniano la fede»

«Appartiene alla natura dell’uomo il senso del bene e del male, per cui quando c’è qualcuno che compie il male c’è sempre qualcun altro che sente l’esigenza di ripararlo», spiega il teologo don Nicola Bux alla Nuova BQ, prendendo spunto dal sorgere spontaneo di comitati di riparazione rispetto alle offese arrecate a Dio dai gay pride. Il senso della riparazione «appartiene alla verità più profonda della croce di Cristo», alla cui opera i fedeli sono chiamati a collaborare.




In questi ultimi anni stiamo assistendo al moltiplicarsi di iniziative promosse da laici in cui c’è una vera e propria rivendicazione della possibilità di esprimere pubblicamente alcune verità sempre più censurate nella nostra società. Un fenomeno inquadrabile anche come una sorta di reazione al “cattoprogressismo” dilagante, che pur proclamando il “dogma” della “Chiesa in uscita” limita de facto la professione della propria fede (laddove oggi è possibile!) alla ristretta realtà parrocchiale, mentre ordina, nell’agone pubblico un atteggiamento ‘laico’, ai limiti dell’ininfluenza.



Non solo un risveglio della ragione è quello a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni ma anche il recupero di una rinnovata capacità di giudizio sul reale che ha dato vita a un vero e proprio “risveglio religioso”. Ci riferiamo ai diversi comitati spontanei che in questi ultimi anni stanno sorgendo per promuovere preghiere di pubblica riparazione ai vari gay pride che ormai ogni estate attraversano la Penisola. Da nord a sud sono sorti il comitato “Beata Scopelli” (Reggio Emilia), il comitato “Virgo Fidelis” (Bari), “San Gimignano vescovo” (Modena), eccetera.

Iniziative di preghiera per di più nate senza il bisogno di spinte ecclesiali marcate (anzi, spesso osteggiate dagli stessi vescovi che avrebbero dovuto promuoverle e sostenerle), e che continuano a suscitare le reazioni più contrastanti anche tra i cattolici. E c’è persino qualche ecclesiastico che le ha giudicate come una manifestazione di “superbia” da parte degli stessi aderenti.

Ma don Nicola Bux, teologo, liturgista e consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede durante il pontificato di Benedetto XVI, non ha dubbi nel chiarirci l’importanza di questa pia pratica. La Nuova Bussola lo ha intervistato.

Don Bux, innanzitutto che significato ha la preghiera di riparazione?
Lo Spirito Santo ha guidato la Chiesa, sin dalle origini, a comprendere che il concetto di riparazione o di espiazione appartiene alla verità più profonda della croce di Cristo: mediante essa il mondo ha ottenuto l’espiazione, quella che i sacrifici animali tentavano di ottenere dalla divinità. Così si è realizzata la riconciliazione tra Cielo e terra. Ma anche Joseph Ratzinger, nel suo Gesù di Nazaret, ha sottolineato come nella Passione di Gesù tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l’immensamente Puro, con l’anima di Gesù Cristo e così con lo stesso Figlio di Dio. Se di solito, però, la cosa impura mediante il contatto contagia e inquina la cosa pura, qui abbiamo il contrario: dove il mondo viene a contatto con l’immensamente Puro, lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell’Amore infinito. Inoltre tutta la Tradizione, il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che Cristo, “nuovo Adamo”, si è addossato le nostre iniquità, ha riparato per i nostri errori e dato soddisfazione al Padre per i nostri peccati. La riparazione-espiazione-soddisfazione, dunque, appartiene alla verità dommatica della giustificazione. Ne consegue che, ogni peccato commesso contro la giustizia di Dio - come quelli contro la natura da Lui creata, in primis dell’uomo - impone il dovere di riparazione, anche se il colpevole è stato perdonato.

Che spiegazione si è dato sul sorgere spontaneo di questi comitati di riparazione?
In realtà appartiene alla natura dell’uomo il senso del bene e del male, per cui quando c’è qualcuno che compie il male c’è sempre qualcun altro che sente l’esigenza di ripararlo. Nei fatti di cronaca recenti ne abbiamo avuto un esempio: persino nell’ultima vicenda della Sea Watch, seppure in maniera del tutto dissennata, coloro che hanno ritenuto che Carola Rackete avesse subito un atto di ingiustizia hanno sentito l’esigenza di porvi rimedio raccogliendo i fondi per le spese legali della donna. La stessa cosa avviene oggi riguardo alle presunte “offese” verso la natura: per quanto deviante possa essere l’ideologia ecologista, parte sempre dallo stesso desiderio di giustizia insito nell’uomo, che va tuttavia educato e ben indirizzato. Questi due esempi appena citati afferiscono, tuttavia, a un livello più basso, quello dell’“uomo carnale” che ovviamente non pensa secondo lo Spirito e si preoccupa di riparare perciò solo le offese fatte all’uomo. Su un livello più alto si pone invece il credente che sente l’esigenza di riparare le offese fatte a Dio e alla natura dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Esattamente su questa linea si colloca l’esigenza della preghiera di riparazione.

Cosa risponde a chi, anche in veste di pastore, considera questi “atti penitenziali” delle manifestazioni di superbia?
Sono “manifestazioni di superbia” le processioni, dove si testimonia la nostra fede? E le marce e le fiaccolate oggi in voga, ancorché sterili? Il punto è che - a causa della formazione non cattolica nei seminari e analogamente del catechismo nel post Concilio - si confonde l’atto di riparazione per i peccati con un atto di condanna dei peccatori. Dovremmo allora accusare di superbia Nostro Signore, che dalla croce ha detto dei suoi carnefici: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno? In genere, chi pensa in tal modo, cancellerebbe una delle opere di misericordia spirituale: ammonire i peccatori. Soprattutto si dimentica che l’Eucaristia, in quanto sacrificio, viene anche offerta in riparazione dei peccati dei vivi e dei defunti, e al fine di ottenere da Dio benefici spirituali o temporali.

E a quei presbiteri che contestano questo genere di preghiera sostenendo che alla Passione di Cristo non manca nulla e di conseguenza la riparazione non sarebbe necessaria?
Certo, da un punto di vista oggettivo non manca senz’altro niente. La Passione di Cristo è stata più che sufficiente per la redenzione dell’uomo. Tuttavia è necessario che essa, dopo essersi compiuta nel Corpo fisico di Gesù, si prolunghi anche nelle Sue membra.

Perché questa partecipazione alla Passione di Cristo è meritoria non solo per il soggetto che soffre o fa penitenza, ma anche per le altre membra del Corpo mistico. Infatti Dio salva gli uomini non come un “deus ex machina”, ma attraverso la loro cooperazione personale e vicendevole. Come nessuno viene al mondo senza la mediazione dei genitori, così analogamente nessuno entra in Paradiso senza la mediazione della Chiesa.

Il Signore ci chiama a essere suoi collaboratori. Dice Pio XII nella Mystici Corporis: “Mistero certamente tremendo né mai sufficientemente meditato, come cioè la salvezza di molti dipenda dalle preghiere e dalle volontarie mortificazioni a questo scopo intraprese dalle membra del mistico Corpo di Gesù Cristo”.

Manuela Antonacci
http://www.lanuovabq.it/it/le-preghiere-di-riparazione-testimoniano-la-fede

L’opzione del riccio


In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. (…) Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato».(Mt 10, 16-21)
L’avevo visto qualche mese fa, rientrando la notte. Una sagoma, un paio di occhi luminosi alla luce dei fari. Allora non avevo capito cosa fosse, quella forma in fondo al giardino.
L’ho rivisto la settimana scorsa, questa volta meglio. Un grosso riccio, che banchettava con i frutti del corniolo davanti alla finestra della cucina.
Un riccio sicuramente deve vedere il mio giardino come una sorta di Eden. Pieno di alberi da frutta, cespugli di bacche, insetti. Recintato, senza cani, solo gatti a cui credo il coinquilino non interessi granché.
E poi, ieri sera, bagnando le piante, l’incontro ravvicinato. L’ho sorpreso allo scoperto, a meno di tre metri di distanza, mentre innaffiavo le piante. Ho chiamato mia moglie; mi aspettavo scappasse a gambe levate.
Invece no.
I ricci hanno, a quanto pare, una loro strategia quando si trovano faccia a faccia con una minaccia. Si fingono morti.
“Che carino”, ha detto mia moglie, “lo chiameremo Ciccio”. Anche avvicinandosi a pochi centimetri Ciccio il riccio rimane immobile, come stroncato da istantaneo decesso. Così è questo il tipo che mi ha fatto sparire tutte le fragole… Qualche foto, reprimo la tentazione di toccarlo e ci allontaniamo. Che torni a saziarsi di prugne cadute e ribes.
Ieri era San Benedetto. Come forse sapete, esiste una teoria, chiama “Opzione Benedetto“, la quale suggerisce che una strategia per i cristiani per superare l’attuale momento di persecuzione e crisi potrebbe essere quella di rifugiarsi in comunità isolate, tipo quelle benedettine durante le invasioni barbariche. In attesa che il mondo capisca l’errore.
Può essere una via, certo. L’idea presenta fascino e vantaggi. Ma a me ricorda, in qualche modo, la scelta del riccio.
Intendiamoci, i ricci sono sopravvissuti fino ai giorni nostri e prosperano. Quindi qualche merito il simulare di essere cadaveri, zitti e immobili, ce lo deve avere.
Ma se io fossi stato ghiotto di ricci, se odiassi la razza, se non desiderassi altro che sterminare i parassiti che mi ripuliscono di fragole l’orto, allora sarebbe stata l’opzione peggiore. Ugualmente nel caso di un’automobile che tira dritto nella notte: immobilizzarsi davanti ai fari non è la strategia più adatta. Di fronte ad una minaccia maligna o indifferente il riccio che si finge morto muore davvero.
Il guaio è che questo, come testimonia il Vangelo di ieri riportato all’inizio del post, è proprio il nostro caso. C’è un sacco di gente che vuole liberarsi di quei cristiani indiscreti che osano abitare nel loro stesso orticello.
Così, piuttosto che il riccio, forse è meglio adottare la strategia suggerita da Cristo stesso: “prudenti come i serpenti”. I serpenti sono attenti alle vibrazioni della terra, e filano via e si nascondono nei pericoli. Ma, se proprio vengono afferrati e sono messi alle strette, mordono.
Pubblicato da Berlicche

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