ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 6 settembre 2019

Riscopriamo il samizdat

ALBERTO STRUMIA: CONTRO LA “LINGUA DI LEGNO” NEL MONDO E NELLA CHIESA



Cari amici Stilumcuriali, è con grandissimo piacere e onore che ospitiamo una riflessione che ci ha inviato il prof. don Alberto Strumia, di grande interesse e attualità, specialmente in questo momento storico e geopolitico, dove l’informazione – soprattuto quella falsa, deviata, parziale e finalizzata a colpire – gioca un ruolo fondamentale nella lotta politica ed economia a ogni livello. È una riflessione di eccezionale lucidità e profondità. E da’ il messaggio che può salvare.  Buona lettura.

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Riscopriamo il samizdat
Da qualche tempo è comparsa a livello mondiale la nuova dizionefake news, per etichettare le “notizie false”, o almeno quelle che si vogliono e “devono” etichettare come tali. Un fenomeno che ha acquistato una rilevanza globale, a differenza del passato, grazie alle attuali tecnologie che consentono il propagarsi istantaneo dell’“informazione”, indipendentemente dalla veridicità del suo contenuto; e non rimane neppure il tempo per controllarla. Una rilevanza tale che ai più alti livelli internazionali ci se n’è preoccupati, con la conseguenza che non è ben chiaro, in un contesto di totale relativismo, chi possa ritenersi autorizzato a valutare la verità o falsità delle notizie, e l’opportunità o meno di metterle in circolazione, senza compiere un’operazione di potere che occulta ciò che non è gradito ed enfatizza, o inventa, ciò che è funzionale a chi tale potere detiene.
Mi sono domandato se non esista un sottofondo comune a tutte le notizie che circolano, con i mezzi cartacei e telematici, che è viziato all’origine. Preoccupante, più delle fake news,è questo “sottofondo viziato”, che per assonanza anglofona chiamerò fake background. Si tratta di quel fenomeno che fa sì che in tutti i mezzi di comunicazione che hanno accesso ad uno spazio pubblico si ripetano e si impieghino, come parole d’ordine, modi di esprimersi e giudizi il cui utilizzo è divenuto, di fatto, obbligatorio per poter accedere a quegli spazi. Un fenomeno sempre crescente al quale ci si deve abituare.Se dici qualcosa, non dico di contrario, ma anche solo di diverso, ti tappano la bocca nei talk show(la pubblicità è sempre disponibile al conduttore per interrompere il partecipante indisciplinato), ti denigrano, puoi essere fatto oggetto di una denuncia e perdere il lavoro.
Un tempo erano di moda alcuni slogan,soprattutto tra i giovani, ma dopo un po’ passavano, surclassati da nuove mode. Da qualche anno a questa parte alcune “mode”, invece, non passano ma si stratificano l’una sull’altra acquistando lo spessore di un vero e proprio basamento, di un background culturale o meglio ideologico, che forma e consolida un modo di pensare omologato, un “pensiero unico”.
Si tratta di “luoghi comuni” divenuti obbligatori per poter parlare in pubblico; ma ormai anche in privato, perché se non ti esprimi in un certo modo anche i tuoi vicini e quelli che ti sono in qualche modo “amici” non ti capiscono, o almeno si meravigliano, quando non danno segni espliciti di riprovazione.
Non è forse stato in questo modo che sono passati nella mentalità comune un nuovo concetto di “famiglia”, di convivenza “civile”, di “diritti umani”, e perfino di “religione” e ormai anche di “chiesa”? Chi se ne accorge finisce per sentirsi isolato e si rassegna ad un “oggi le cose vanno così” e “bisogna adattarsi”.
Sembra un meccanismo automatico che procede da solo senza che nessuno lo guidi, lo controlli, senza un’origine e apparentemente senza uno scopo. Ma è davvero così? Che cosa sta succedendo a ritmi sempre più inesorabili? Ciò che c’è di più tragico per chi è credente, ma anche solo per chi è ancora capace di pensare, di giudicare gli avvenimenti che ci circondano e quelli della storia, è che questo fake background,che impone slogan, è entrato, un po’ alla volta, anche negli ambienti di Chiesa e ne ha penetrato i luoghi di formazione e di governo, deformando il modo di credere e di decidere. E il “popolo” sta a guardare ignaro (come accadde dinanzi alla Passione di Cristo: «il popolo stava a guardare», Lc23,35), disorientato e quasi sempre scontento.
Da parte di alcuni, però, affiora ancora la capacità di farsi sentire esprimendo un giudizio seriamente motivato. Mi è tornata alla mente un’espressione che era in uso presso i cosiddetti dissidenti di Charta 77(siamo negli anni della Primavera di Praga), un fenomeno culturale che resisteva al regime comunista che imponeva un clima culturale segnato anche nel linguaggio da “formule obbligatorie”, “giudizi prefabbricati” che dovevano essere dichiarati veri anche quando erano manifestamente falsi e ridicoli.
Era in uso presso i dissidenti, qualificare questo linguaggio di regime come lingua di legno. Riporto una testimonianza di un pensatore di quegli anni per spiegarmi meglio.
«Che cos’è questo linguaggio di legno? Com’è nato? Quali sono le sue caratteristiche. Il nostro più grande drammaturgo, Havel [divenuto presidente della repubblica dopo la caduta del regime, n.d.r.] lo chiama “ptedepe”: una lingua ufficiale.Ora questa lingua di legno riconosce solo tre stili.
– Il primo è lo slogan. […] Ora lo slogansi rivolge a chi si identifica con un apparato. Affinché lo slogan non sia ridicolo occorre che voi vi identifichiate con questo apparato, lo slogan non vuole convincere. Si stabilisce perciò il primo ponte di comunicazione: coloro che si identificano con l’organizzazione usano lo slogan.Lo slogan domina direi il 40% della comunicazione. […]
– Il secondo grande stile di questo sistema è il manuale […] un insieme di argomentazioni che debbono spiegare la differenza tra la realtà e la dottrina. […]
– Il terzo grande stile, a noi più familiare perché lo percepiamo dall’esterno, è l’apologia. L’apologia è molto mortificante perché spesso viene usata come arma di ricatto. […] Quando qualcuno criticava si diceva: “Lo fa a favore del nemico”» (V. Belohradski, “Diritti dell’uomo e stato socialista”, in Atti della manifestazione Libertà e valorizzazione dell’uomo nei riferimenti culturali dell’est europeo,Bollettino a.c.e.r., n.23 [1980], 24-26).
Questa descrizione, messa a confronto con la nostra odierna situazione, fa capire “sorprendentemente” (almeno per i più, ma non per chi è stato capace di un giudizio sulla storia), che questo clima di regime, dopo circa quarant’anni è arrivato anche da noi, come frutto di quella fusione tra le due ideologie che hanno dominato, separate dalla cortina di ferro fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Da una parte l’Occidente e dall’altra l’Oriente europeo e le loro estensioni extra-europee. E ora non sono più separate, ma si sono unificate.
Ciò che G. Orwell aveva previsto nel suo 1984si è puntualmente verificato, come lo aveva previsto ancor prima e descritto con un’efficacia e un dettaglio sorprendenti R.H. Benson ne Il padrone del mondo, nel quale anche la Chiesa appare ridotta ai minimi termini dal Nuovo ordine mondiale e segnata dal tradimento di un ecclesiastico, un nuovo Giuda.
Solovëv ancor prima di loro, da uomo di cultura e di fede cristiana aveva letto la storia in “chiave teologica”, oltre che culturale e politica, individuando la radice profonda di tutto ciò che si stava preparando e che oggi noi ci troviamo a vivere, nell’emergere nella storia della figura dell’Anticristo (Il racconto dell’Anticristo), preannunciata fin dal Nuovo Testamento. Egli lo descrive come benefattore, pacifista, umanitario, inclusivo misericordioso più di Cristo stesso (un cristo 2.0 insomma). Queste stesse parole sono diventate anche gli slogan obbligatori dei nostri giorni…
Come non soccombere a questo clima pervasivo che oggi è divenuto così sofisticato da attuarsi trasversalmente sia negli stati che hanno esplicitamente rinnegato ogni forma di democrazia, sia in quelli che ne hanno mantenuto ancora una maschera di facciata che ne copre il vero volto?
A questo punto mi è tornata alla mente una “via d’uscita” che, coloro che pensavano da uomini liberi, furono capaci di realizzare in una situazione in cui gli spazi per una sincera comunicazione erano veramente nulli, nella Russia sovietica: il Samizdat. Una forma di autoeditoria che comunicava giudizi veri su fogli copiati a carta carbone e passati clandestinamente da una mano all’altra. Noi oggi abbiamo bisogno di qualcosa del genere per poter condividere un giudizio sulla storia che non sia costretto dentro le maglie degli slogan, dentro gli assiomi del manuale dell’ideologia del fake background che costringe a marciare sotto il comando del Nuovo ordine mondiale, dentro la forzosa apologia  che inscena delle fasulle “spiegazioni” che riconducono tutto agli “ordini di scuderia”.
Bisogna reinventare un Samizdat anche qui da noi. Naturalmente oggi abbiamo a disposizione dei mezzi tecnologici molto più potenti e di questi possiamo avvantaggiarci: penso ai blog e siti come questo e altri simili. In più possiamo ancora radunare le persone (almeno per ora) in gruppi privati di discussione amichevole e di istruzione catechetica, in convegni e in corsi di formazione. Pensando, in particolare alla formazione degli insegnanti, dei docenti universitari, alle scuole di Dottrina sociale della Chiesa,ai vari corsi di aggiornamento. Occorre inventare occasioni per confrontarsi su ciò che sappiamo essere vero ed è interdetto pubblicamente, così da preservarci sani culturalmente e psichicamente, perché sani spiritualmente. Quello che non può essere detto per non subire oltre certi limiti l’esclusione sociale e civile, che si sia aiutati almeno a “pensarlo”, per non perdere la propria anima! E sappiamo bene anche che questo è ciò che deve fare la Chiesa, e dobbiamo aiutarla a non autodistruggersi, ma ad essere se stessa, senza lasciarsi risucchiare dentro il fake background dominante. Di certo faremo tutto quello che ci compete, con l’aiuto di Dio!
don Alberto Strumia
Marco Tosatti
6 Settembre 2019 Pubblicato da  4 Commenti --

Vive la Résistance!

In questi nostri tempi perigliosi, nei quali la santa madre Chiesa cattolica tanto spesso ci appare una matrigna, incapace di custodire e trasmettere la  vera fede mediante la retta dottrina, mi succede di frequente di incontrare persone che mi chiedono: perché alzi la voce, perché protesti? Non sai che la Chiesa ne ha viste tante e supererà anche questa fase? Perché non te ne resti tranquillo e aspetti? Perché non prendi esempio da tanti pastori, anche vescovi e cardinali, i quali, pur consapevoli dei problemi, se ne stanno in silenzio, pregano e hanno fiducia nel buon Dio?
In genere rispondo che un battezzato, in quanto sacerdote, profeta e re, non può starsene zitto e limitarsi a osservare. Sarebbe un tradimento delle tre funzioni di Cristo alle quali noi partecipiamo in virtù del battesimo. Mi rendo conto però che per molti cattolici, al punto in cui siamo, appellarsi al battesimo vuol dire quasi nulla.
Ero in cerca di un nuovo tipo di risposta quando un caro amico mi ha inviato una fotografia. Vi si vede un prete ortodosso (il fatto che sia ortodosso è solo incidentale) che cerca di battezzare un bambino ma non ce la fa, perché il piccolo, dimostrando notevole forza e un caratterino fuori dal comune, si aggrappa ai bordi della vasca e non si lascia immergere. La foto, accompagnata dalla scritta Vive la Résistance!, vuole essere ironica, ma mi ha fatto riflettere. Mi sono chiesto: quante volte noi non opponiamo resistenza trincerandoci dietro l’obbedienza e la lealtà ma, in fondo, siamo solo deboli e arrendevoli?
Proprio mentre guardavo e riguardavo la fotografia, mi sono imbattuto in un testo di Phil Lawler che mi ha fatto ulteriormente riflettere. Occupandosi di come le persone reagiscono in modi diversi alla crisi nella Chiesa, Lawler si rifà a un libro (Exit, Voice and Loyalty, nella versione italiana Lealtà, defezione, protesta) nel quale l’autore (Albert O. Hirschman, 1915–2012) prende in esame diverse possibilità e si interroga sul modo in cui il livello di appartenenza a un certo organismo influenza il tipo di comportamento.
Pubblicato nel 1970, il saggio a prima vista non ha nulla a che fare con la Chiesa e con il cattolicesimo. Hirschman infatti era un economista e nel suo libro si propose di esaminare  il modo in cui gli individui esprimono la loro insoddisfazione nei confronti di aziende, organizzazioni o istituzioni. Tuttavia mi sembra che lo schema proposto possa dire qualcosa di interessante anche a un fedele della Chiesa cattolica che in questo momento avverta perplessità e disagio.
Sostanzialmente, scrive Hirschman, ci sono tre modi  in cui tu puoi manifestare l’insoddisfazione. La prima consiste nell’uscire, cioè dall’allontanarsi dall’istituzione. La seconda consiste nel mostrare lealtà accettando la situazione senza lamentele. La terza consiste nell’alzare la voce e nell’impegnarsi per un cambiamento che elimini le cause dell’insoddisfazione.
Normalmente l’opzione numero uno (uscire) è scelta da chi non ha particolari legami con l’istituzione. Esempio: ti iscrivi a un social club perché ti piace giocare a bridge, nel corso del tempo scopri che il club non fa per te (soci antipatici, gestione scadente) e quindi decidi di andartene.
L’opzione numero due, quella che Hirschman definisce della lealtà, è scelta invece da chi ha legami particolarmente forti con l’istituzione.  Esempio: ti arruoli nel corpo dei Marines, il corpo prende certe iniziative che non ti piacciono e nessuno ha chiesto la tua opinione, ci resti male ma per fedeltà e obbedienza tieni la bocca chiusa.
Infine c’è l’opzione numero tre (far sentire la propria voce, protestare), che in genere viene scelta da chi non solo ha legami forti con l’istituzione, ma sente di esserne parte. Esempio: ami la tua famiglia, vedi che qualcuno sta facendo qualcosa che danneggia tutti gli altri e decidi di alzare la voce per denunciare ciò che non va e indicare come cambiare le cose.
Ora, in che modo questi tre approcci si applicano ai cattolici nell’attuale crisi della Chiesa?
Per i cattolici credenti l’uscita, l’andarsene, non è un’opzione. Dove altro possono trovare l’Eucaristia? Dove possono  trovare, se non nella santa madre Chiesa, una comprensione sicura della Parola di Dio? «Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna;  noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Quanto alla seconda opzione, sappiamo che generazioni di buoni e fedeli laici cattolici hanno risposto ai problemi con lodevoli dimostrazioni di lealtà, accettando umilmente la direzione presa dal clero e dai vescovi, deglutendo amaramente e reprimendo ogni tentazione di esprimere i propri dubbi. Ma questo approccio non può essere assoluto. La lealtà diventa collaborazione al male quando implica l’accettazione di insegnamenti oggettivamente sbagliati e di comportamenti immorali. Certo, dobbiamo sempre mostrare rispetto per nostro padre,  ma se il comportamento del padre sta danneggiando l’intera famiglia abbiamo la responsabilità di proteggere nostra madre e i tutti i fratelli.
La totale lealtà, osserva Phil Lawler, può essere richiesta ai religiosi consacrati, che hanno fatto voti di obbedienza, «ma per i laici cattolici la lealtà cieca, che diventa acquiescenza, non è un’opzione». Resta dunque la protesta.
La riflessione di Lawler mi ha colpito perché mi sono accorto che i cattolici che si pongono il problema della lealtà, e si interrogano su come comportarsi, sono sempre più numerosi.
Tutto ruota attorno al concetto di lealtà. Si è più leali tacendo o parlando? E qual è la differenza tra il consacrato e il laico? Per il consacrato, che ha fatto voto di obbedienza, la scelta di tacere può essere vincolante, ma il laico, anche in base al Codice di diritto canonico, ha il diritto e il dovere di farsi sentire e  interpellare i pastori.
E quale lealtà è più importante? Quella verso colui che rappresenta l’istituzione o quella verso l’istituzione stessa? Fuor di metafora: verso il papa o verso la Chiesa, corpo mistico di Cristo e comunione dei santi?
L’opzione della protesta è definita così da Hirschman: «Ogni tentativo di cambiare, invece di eludere, uno stato di cose riprovevole, sia sollecitando individualmente o collettivamente il management direttamente responsabile, sia appellandosi a un’autorità superiore con l’intenzione di imporre un cambiamento nel management, sia mediante vari tipi di azioni e proteste, comprese quelle intese a mobilitare l’opinione pubblica».
A me sembra che Hirschman con queste parole, sia pure senza saperlo, abbia fotografato l’atteggiamento di tanti cattolici che, a fronte di una Chiesa nella quale non si riconoscono più, hanno deciso di alzare la voce.
Certo, un buon cattolico deve fare uno sforzo non da poco per uscire allo scoperto, protestare e spiegare le ragioni per le quali chiede un «cambiamento nel management». Non è nella sua natura. Ma ci sono momenti in cui non si può tacere. «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa». «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci».
Secondo Hirschman più alto è il livello di fedeltà e maggiore è la probabilità che ci sia la protesta. Mi sembra sia il caso di rifletterci. Vive la Résistance!
Aldo Maria Valli

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