ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 24 luglio 2017

Perché, da soli, voi non potete fare nulla...

UNA SINISTRA COMMEDIA

«Una sinistra commedia di tremila buoni a niente». Di cui la maggior parte, sebbene porti la croce d’oro sul petto non crede né alla Trinità né alla Vergine: il “pesante” e profetico j’accuse del 1964 di monsignor Romeo 
di Francesco Lamendola  





Monsignor Antonino Romeo (Reggio Calabria, 8 giugno 1902-ivi, 22 settembre 1979), insigne biblista e professore di Sacra Scrittura, autore d’una quantità di opere scientifiche e lucido, intrepido campione della sana esegesi cattolica contro le deviazioni e le aberrazioni moderniste, provenienti soprattutto dalle facoltà cattoliche tedesche degli anni ’60, è una figura oggi pressoché dimenticata. Anzi, peggio che dimenticata: è una figura che viene ricordata quasi solo per una intervista, a proposito del Concilio Vaticano II, allora in corso: un giudizio che aveva immediatamente suscitato uno scandalo enorme, che aveva fatto indignare e infuriare tutti i progressisti e che non gli è mai stato perdonato (oh, sanno essere estremamente rancorosi e vendicativi, questi progressisti che hanno sempre in bocca la misericordia di Dio e invocano sempre la comprensione, il dialogo, la pace, la solidarietà e l’inclusione nei confronti dell’universo mondo). Eppure quest’uomo era un gigante, e la neochiesa modernista ha fatto in modo di appenderlo alla croce di quel giudizio, che, nella prospettiva dei progressisti, concentra in sé tutta l’ottusità, l’acredine, l’incomprensione dei “tempi nuovi” che essi, invece, annunciavano, e che vollero imporre al Concilio stesso e alla Chiesa tutta, negli anni seguenti. Poiché, sostanzialmente, sono riusciti nell’intento, e si sono impossessati di quasi tutti i centri nevralgici della Chiesa, e di quasi tutta la stampa e l’editoria cattoliche, sono liberi di raccontarci le cose in regime di monopolio, praticamente senza contraddittorio; e la figura di monsignor Romeo è stata seppellita per sempre sotto un cumulo di disapprovazione così grande, da non poterne essere mai più liberata. E invece, è proprio quel che noi vorremmo poter fare.
Innanzitutto, vediamo di che cosa si tratta, quale fosse il giudizio incriminato. Il 14 ottobre 1964, il giornale Le Monde di Parigi riproduceva, dopo Il Giornale d’Italia, la seguente dichiarazione di monsignor Romeo, che veniva definito il capofila, nella Curia romana, dell’opposizione al Concilio (cit. in: Neophytos Edelby, Il Vaticano II nel diario di un vescovo arabo, a cura di Riccardo Cannelli, Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni San Paolo, 1996, p. 255; ma la frase è riportata anche più recentemente, nel libro di Roberto De Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Torino, Lindau, 2010): Il Concilio è una sinistra commedia di tremila buoni a niente, di cui la maggior parte, sebbene porti la croce d’oro sul petto, non crede né alla Trinità, né alla Vergine.


Furore e digrignar di denti dei progressisti, richiesta di smentite; poi l’incidente è stato archiviato, e i progressisti, mano a mano che s’impadronivano dei lavori conciliari e imprimevano ad essi l’andamento desiderato, anche con l’astuzia (come nel caso della riforma liturgica, dove il vescovo massone Annibale Bugnini, segretario dell’apposita commissione, ingannò Paolo VI facendogli credere che i padri conciliari avessero approvato ogni cosa, sottoponendogli per la firma dei documenti che erano, invece, tutti da discutere), e raccoglievano consensi sempre più calorosi e sempre più unanimi sulla stampa e sulle televisioni internazionali, preferirono fare finta di nulla e metterci, apparentemente, una pietra sopra.
La frase-shock di monsignor Romeo è di quelle che arrivano come un pugno dello stomaco, subito dopo aver consumato un lauto pranzo. Il lauto pranzo è, naturalmente, il Concilio Vaticano II, presentato dai media, interni ed esterni alla Chiesa (una coincidenza singolare e mai accaduta prima, che pur avrebbe dovuto, di per sé, insospettire almeno qualcuno) non solo con toni trionfalistici, demonizzando o ridicolizzando il bieco e ottuso partito dei “conservatori”, ma, quel che più conta, come un evento fondamentale e improrogabile nella vita della Chiesa. Il paragone, implicito o esplicito, era fra la Chiesa di Pio XII e l’Unione Sovietica di Stalin: anche per il Concilio, infatti, si parlò di “disgelo”, se non addirittura di “destalinizzazione”: ed è soprattutto per questo che la triade formata dal liberal Kennedy, dal progressista papa Giovanni e dal campione della destalinizzazione, Krusciov, divenne subito così popolare nell’immaginario collettivo di milioni, o miliardi, di persone. E il pugno nello stomaco di quella frase consiste in un radicale, totale rovesciamento della prospettiva: la cosa più politicamente scorretta che si possa immaginare. Per settant’anni ci è stato detto e ripetuto, da cattolici e non cattolici, che il Concilio è stato il momento più bello, più festoso, più autenticamente evangelico nella storia della Chiesa, o, quanto meno, nella storia della Chiesa degli ultimi secoli; e questo signor Romeo ci viene a dire che si è trattato di tutt’altra cosa: niente marce trionfali, niente squilli di tromba, né rulli di tamburo e interminabili ovazioni; niente coriandoli, niente feste, niente applausi: ma un evento nefasto, ipocrita, dannosissimo per la Chiesa e per la religione cattolica. E a dare un giudizio così spietato, così tranchant, non è stato il solito cardinale, o arcivescovo, conservatore, attaccato a chissà quali privilegi o a chissà quale visione sorpassata della Chiesa e della storia; no, è stato un biblista insigne, un personaggio di grande spessore culturale, una bellissima intelligenza; e, oltretutto, uno che non aveva ambizioni di carriera, che non aveva berretti cardinalizi o cattedre episcopali da difendere, né incarichi di potere da contendere a qualcun altro. Insomma, uno che parla per puro e semplice amore della verità.
Certo, avrebbe anche potuto sbagliarsi. Il suo atteggiamento appare estremamente arrogante: come può un uomo solo, dopotutto, esprimersi con tanta sufficienza, con tanto disprezzo, sull’operato di un così grande numero di cardinali, vescovi e superiori generali delle famiglie religiose, ordini e congregazioni, nonché rappresentanti delle università cattoliche e delle facoltà teologiche (anche se non erano proprio tremila, ma 2.450)? D’altra parte, cosa sono due o tremila persone, rispetto alle centinaia di milioni di cattolici sparsi su tutti e cinque i continenti? Chi è il vero arrogante: colui che denuncia degli eccessi, o colui che pretende di cambiare tutto? E da quando il criterio quantitativo, nella Chiesa cattolica, è superiore a quello qualitativo? Proviamo a supporre, per amore d’ipotesi, che, nel giudizio di monsignor Romeo, vi sia un nucleo di verità. Questo ci costringerebbe ad adottare un brusco cambiamento di paradigma: cosa sempre difficile, quasi impossibile. Cambiare paradigma culturale è, in ogni caso, faticoso, anche per chi possieda una mente allenata, un forte scrupolo di verità, una larghezza di vedute fuori del comune e una altrettanto pronunciata elasticità mentale. Ma cambiare paradigma, così, di colpo, per effetto di un pugno nello stomaco rifilatoci quasi a tradimento, è una cosa ancor più ardua. Ora, il paradigma culturale nel quale siamo cresciuti vuole che il Concilio abbia segnato una svolta positiva, un progresso, e quindi che sia stato il Bene, mentre chi ha preteso di opporvisi, ha agito, magari inconsapevolmente, al servizio delle forze oscurantiste, cioè del Male. E adesso, qualcuno ci chiede di rovesciare la nostra prospettiva, di azzerare ciò che credevamo di conoscere, e di considerare ogni cosa da un punto di vista totalmente nuovo e diverso, per non dire opposto. Insomma, di ripensare tutte le nostre convinzioni (ma erano poi tali? oppure ci eravamo limitati a prendere per buone, senza alcun vaglio critico, le cose che tutti dicevano e ripetevano, tutti, dentro e fuori la Chiesa, da destra e da sinistra?), e di guardare all’evento del Concilio in maniera assolutamente anticonformista.
Ebbene, proviamo a raccogliere la sfida e, senza lasciarci allontanare o scoraggiare dal tono brusco, tagliente, dalla durezza e dalla categoricità di quelle parole, facciamo un tentativo per vedere se siano davvero il frutto di un atteggiamento presuntuoso, sbagliato, chiuso e sordo alle novità, oppure se esse, per caso, non contengano almeno un nocciolo di verità – il che sarebbe abbastanza per obbligarci a ripensare gran parte di quel che sappiamo, o credevamo di sapere, sulla Chiesa e sul suo rapporto con la Verità di Cristo.
IL CONCILIO È UNA SINISTRA COMMEDIA. Ma perché una commedia, e perché “sinistra”? Una commedia è una forma di reiterazione della realtà, modificata secondo un piano prestabilito. Non è la rappresentazione della realtà, ma la rappresentazione di ciò che noi vogliamo far credere la realtà. In altre parole, una commedia non ha, in se stessa, nulla che la distingua da mille e mille altre forme possibili di rielaborazione della realtà in chiave di manipolazione. Chi scrive una commedia non è chiamato a rendere conto di non aver rappresentato fedelmente la realtà, ma solo di aver saputo, o no, creare un mondo fittizio i cui meccanismi abbiano un certo grado di coerenza interna, e, pertanto, di credibilità e verosimiglianza. Allora, il Concilio potrebbe essere stato una commedia? I padri conciliari potrebbero aver indossato, magari inconsapevolmente, le maschere di una recita a soggetto, non già preoccupandosi di riflettere i veri bisogni della Chiesa, ma per specchiare se stessi e per giustificare determinate smanie di cambiamento, magari dettate anche da interessi personali, da  un certo qual bisogno di protagonismo, dall’antica e mai spenta tentazione della visibilità, della popolarità, del narcisismo, della vanagloria? Ed ecco allora spiegato quel sinistra
«Una sinistra commedia di tremila buoni a niente»

di Francesco Lamendola

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