ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 24 dicembre 2011

Una risposta a Mons. Ocáriz

“Continuità” e “accettazione” del Concilio: una risposta a Mons. Ocáriz

Desidero dar voce al testo di un lettore e condividerlo con tutti, perché è una interessante ulteriore analisi e valutazione della querelle che è sotto la nostra attenzione e vigilanza in questo tempo di fiduciosa attesa della composizione della vicenda che riguarda la regolarizzazione canonica della FSSPX ed anche di custodia e diffusione dell'autentica Tradizione bimillenaria - e non soltanto "conciliare" o forse anche "conciliaristica" - che con Mons. Gherardini riconosciamo come evolutiva in senso veritativo, non vivente in senso storicistico.


Il sito de L’Osservatore Romano pubblica, nelle lingue principali, un articolo di Mons. Fernando Ocáriz,Sull’adesione al concilio Vaticano II , datato 2 Dicembre. L’autore – teologo, Vicario Generale dell’Opus Dei, Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede – si può considerare uno dei maggiori esperti “romani” del mondo tradizionalista e, quel che più importa, delle sue posizioni propriamente teologiche: ha partecipato, infatti, già ai colloqui con Mons. Léfebvre, nel 1988; è stato “Esperto Permanente” della Pontificia Commissione “ Ecclesia Dei ”; da ultimo e soprattutto, ha fatto parte della commissione bilaterale che ha condotto le discussioni dottrinali tra la Santa Sede e la Fraternità S. Pio X. Questo suo articolo, benché porti un titolo assai generico, sembra indirizzato soprattutto ai tradizionalisti, nell’intento di chiarire l’esito di tali discussioni: il Preambolo Dottrinale presentato alla S. Pio X e, in particolare, l’ambito di “ libera discussione ” che verrebbe ammesso sui documenti conciliari. Naturalmente, Mons. Ocáriz scrive a titolo personale (le prese di posizione ufficiali della Santa Sede, su L’Osservatore , compaiono sempre in forma anonima, sottoscritte con tre asterischi); tuttavia, sia per le sue qualifiche personali sia per il rilievo che viene ora accordato all’articolo in parola, è ragionevole presumere che Mons. Fellay, che sembra intenzionato a chiedere chiarimenti, tra l’altro, proprio su questa “libera discussione”, si veda rispondere in termini molto simili a quelli dell’illustre teologo. 

Ma, a mio sommesso eppur allarmato avviso, la Santa Sede non può far propria la posizione di Mons. Ocáriz senza smentire sé stessa. Mi spiego meglio. 

Molto opportunamente, l’articolo rammenta, in esordio, che il Concilio è stato, sì, “pastorale” e che perciò non ha formulato definizioni dogmatiche, ma, nondimeno, ha approvato documenti di carattere magisteriale, dunque vincolanti. Distingue, poi, i gradi di autorevolezza di questo Magistero, in termini che, a mio avviso, presentano più di una somiglianza con i “quattro livelli” individuati da Mons. Gherardini nel suo Il discorso mancato ; se ne discosta, però, proprio sul punto decisivo, ossia laddove riconosce alle “innovazioni” conciliari il carattere di Magistero autentico, che esige, perciò, « ossequio religioso della volontà e dell’intelletto »; la “libera discussione” riguarda, perciò, non il se , ma il come si concilino con il Magistero anteriore e la Tradizione. Mettere in dubbio il se a proposito di un Concilio – si desume dal tenore dell’articolo – significherebbe dubitare dell’unità della Fede, dell’identità della Chiesa e della Sua indefettibilità (eloquente, in tal senso, il richiamo alla Dichiarazione Mysterium Ecclesiae). 

Ora, senza nulla togliere all’importanza e alla gravità del problema – la possibilità di ammettere errori, a qualsiasi titolo, nell’insegnamento di un Concilio Ecumenico – mi sembra che la conclusione di Mons. Ocáriz finisca contraddire proprio quella distinzione da cui, saggiamente, era partito: il Magistero autentico, infatti, non richiede l’assenso di Fede proprio perché non è assistito dalla garanzia divina dell’infallibilità. Egli si rifà all’Istruzione Donum Veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, un vero gioiello, uno dei migliori documenti firmati dal Card. Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; sembra, però, dimenticarne i nn. 28-29, dove – con un atto che, secondo l’Istruzione stessa (n. 18), rientra nel Magistero ordinario del Successore di Pietro – la Santa Sede ammette che un teologo possa trovare inaccettabile un insegnamento del Magistero autentico, anzi, considera il suo dissenso un potenziale fattore di progresso del Magistero stesso, e perciò lo esorta a sottoporre le proprie ragioni alla Congregazione per la Dottrina della Fede (evitando le polemiche pubbliche). 

Non sono previste eccezioni o restrizioni per il dissenso dal Magistero autentico del Concilio. 

Certo, la Donum Veritatis è stata scritta per rispondere ai “teologi del dissenso” (e non esita a dichiarare, tra l’altro, che il loro metodo li porta a smettere di fare teologia); ma questo non mi sembra affatto un problema. E’ vero, infatti, che formalmente essi non contestano il Concilio, anzi vi si appellano sempre; nei fatti, però, dissentono dal concetto stesso di Magistero - quindi, implicitamente, dalla mens di tutto il Concilio e da LG 25 - nonché da parecchi asserti conciliari, come la riaffermazione dell’indissolubilità del Matrimonio o la condanna di aborto e infanticidio. 

Dirò di più: anche nei Concili dogmatici, infallibilità e assenso di Fede riguardano i canoni e il tenore della definizione dogmatica, non le argomentazioni con cui questa è giustificata [Cfr.Enciclopedia Cattolica , s.v. Tradizione ]. Ora, nel Vaticano II abbiamo solo argomenti: vorremmo dunque attribuire ad essi un’autorità che non possederebbero neppure se il Concilio avesse definito dogmi ad ogni passo? E che sarebbe del principio per cui l’autorità dei documenti del Magistero è quella che i Pastori possiedono e che intendono esercitare ? E non è tutto. 

Nel 1988, quando Mons. Léfebvre firmò il famoso Protocollo, sottoscrisse anche il punto 3) della prima parte: 
"A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della liturgia e del diritto, che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, ci impegniamo ad assumere un atteggiamento positivo e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica."
La Santa Sede, quindi, non gli impose affatto di dirsi fiducioso – nè tampoco certo – che, discuti discuti, una tal conciliazione sarebbe, infine, riuscita, ma soltanto di impegnarsi a sollevare le proprie obiezioni in spirito di carità, rimettendosi al giudizio finale del Magistero [il che è implicito nell'adesione a LG 25, espressa al precedente punto 2)]. Questo Protocollo è stato poi recepito nel m.p. “ Ecclesia Dei ” [n. 6, lett. a)] ed è la base su cui sono stati organizzati gli Istituti che dipendono dalla Pontificia Commissione: la sua innegabile apertura ad un dissenso sul se , ad una libera discussione non limitata al come , fa parte del diritto canonico [e, sia detto per inciso, getta una nuova luce sull’appello del medesimo m.p., n. 5 lett. b), ai teologi, affinché rinnovino gli sforzi per mettere in luce la continuità del Concilio]. Non sorprende, dunque, che, allora, molti abbiano lamentato che si concedesse a Léfebvre quel “diritto al dissenso” sempre negato ai liberal. E si potrebbe rincarare la dose: gli Statuti dell'Istituto del Buon Pastore, approvati nel 2006, dotati anch'essi di forza di legge, riconoscono ai suoi membri il diritto ad una "critica seria e costruttiva" del Concilio. Più chiaro di così...

Cosa dovremmo dire, quindi? Che la Santa Sede ha riconosciuto un “diritto all’errore”? Perché di questo stiamo parlando, questo è, secondo il ragionamento di Mons. Ocáriz, il dubbio sulla possibilità di conciliare le novità con la Tradizione.

No di certo. Nessuna legge, men che meno la canonica, potrebbe accordar tutela all’errore. E non si tratta neppure di “tolleranza”, nel senso Cattolico: nulla, nel testo, depone in tal senso. Il tenore del Protocollo si spiega solo se ammettiamo che gli argomenti contro le innovazioni conciliari siano tali da guadagnarsi l’assenso di un uomo prudente; che si qualifichino, cioè, non come errori, ma come opinioni probabili . Da ciò derivano due conseguenze: l’ obiettiva incertezza sul senso complessivo del Concilio e il carattere vincolante di taluni suoi asserti (che perciò stesso non obbligano : lex incerta nequit certam inducere obligationem ); la piena legittimità di una discussione in merito, ferme restando, naturalmente, la carità e la sottomissione al Magistero.

Questo, senza dubbio, su alcuni punti è intervenuto in senso chiarificatore (p.es., la controversa nozione di Chiesa che troviamo in LG 1 è spiegata dal Catechismo della Chiesa Cattolica in termini che trovo del tutto soddisfacenti); tuttavia, ad oggi il nocciolo della controversia non è stato affrontato né tantomeno risolto. Perciò, non avrebbe senso, oggi, negare quel che si è accordato nel 1988 e, per giunta, ribadito solo nel 2006. Ma aggiungerei un ultimo punto, non meno importante: l’atto magisteriale, meglio se definitivo, definitorio e infallibile, che dichiarasse, ad es., che laDignitatis Humanae non contraddice la dottrina dello Stato Cattolico e risolvesse, punto per punto, tutti i dubbi sollevati in proposito dovrebbe riconoscere – almeno implicitamente – che la Dichiarazione conciliare presta il fianco a censure teologiche severe. Se non per la sostanza, almeno per la forma in cui è redatta; perché nessuno, io credo, vorrà negare che, ictu oculi, il senso del testo sia quello liberale e modernista. In altri termini: nel momento in cui i dubbi sulla continuità assurgono ad opinioni probabili, evidentemente ci sono difetti seri nei testi del Concilio. Almeno nella forma, e fors’anche nella sostanza. Questo, a mio parere, l’ambito in cui dovrebbe esercitarsi la benvenuta “libera discussione”.
 Savona, lì 5 Dicembre 2011
Guido Ferro Canale

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