Una società che odia Dio è una società che corre verso l’autodistruzione
di Francesco Lamendola - 02/04/2012Se questo è vero, e crediamo che la cosa sia abbastanza evidente da non richiedere una speciale dimostrazione, allora bisognerebbe domandarsi quali conseguenze ciò abbia, non solo sul piano teologico e morale, ma anche su quello pratico e sociale.Già in un precedente scritto abbiamo sostenuto che l’umanità moderna ha proclamato non solo la morte, ma l’assassinio di Dio per propria mano (come nello «Zarathustra» di Nietzsche), soprattutto per non sentirsi più interpellare sul destino del proprio fratello Abele; per non dover rendere conto, cioè, del male fatto al suo simile e poter procedere indisturbato e senza rimorsi lungo la strada di un egoismo sfrenatamente distruttivo.
Oltre a questo, che la vecchia teologia chiamava «odium abominationis» (odio di avversione) contro Dio, c’è anche quello che essa chiamava «odium inimicitiae» (odio di inimicizia), ancora più radicale, che discende dall’invidia dell’uomo rispetto a Dio, dal non voler ammettere la propria condizione creaturale, dalla brama di farsi Dio di se stesso; e, pertanto, l’avversione furiosa, tenace, anche se impotente, contro Dio, la cui perfezione è oggetto di rancore e gelosia. Anche questo è un tratto tipicamente moderno; nessuna società pre-moderna lo ha mai conosciuto, se non per quanto riguarda dei singoli individui.
Ciò significa che, nella modernità, sono presenti le condizioni perché un tale odio, una tale teofobia, necessariamente vengano in luce; ecco dunque che l’avversione contro il divino non è un accidente della storia, un esito conclamato ma, in se stesso, non necessario, né inevitabile, bensì il logico sbocco di una serie di tratti caratteristici e costitutivi della cultura moderna.
Si è detto e ripetuto, da parte di alcuni teologi, che il rifiuto e l’avversione per Dio, da parte dell’uomo moderno, sono funzionali al suo bisogno di emancipazione; che, se questa rivolta non vi fosse stata, l’uomo si sarebbe sentito perennemente in una condizione di minorità; e che, insomma, è grazie ad essa che l’uomo ha acquistato piena coscienza del proprio valore, della propria autonomia, della propria capacità di cavarsela da solo, con le proprie forze.
Certo, può essere.
Tuttavia sarebbe come dire che un ragazzo, per rendersi autonomo dai propri genitori, deve per forza odiarli e, possibilmente, sopprimerli, come talvolta accade in certi fatti di cronaca nera; ma una simile teoria, se può piacere ai freudiani e a tutti quegli psicanalisti che scambiano la psiche malata per la psiche normale, non soddisfa però tutti gli altri, per l’evidente paradossalità delle sue premesse e per l’inaccettabile distruttività delle sue conclusioni.
Un figlio può e deve conquistare la propria autonomia senza bisogno alcuno di odiare, né, tanto meno, di desiderare di ammazzare il proprio padre e la propria madre; la sua maturità si rivela anzi precisamente nel fatto di rendersi autonomo, conservando però verso di essi un sentimento di affetto e di gratitudine, riconoscendo, cioè, il bene da essi ricevuto, per quanto possano aver mancato, a vario titolo, nello svolgere adeguatamente il loro ruolo di genitori.
Se subentra l’odio, se subentra il desiderio del parricidio, allora vuol dire che qualcosa non funziona, nella crescita psicologica e morale del ragazzo; e la stessa cosa vale se estendiamo il nostro ragionamento alla società nel suo complesso e all’atteggiamento da essa sviluppato nei confronti del proprio Padre celeste.
Scriveva a questo proposito il teologo benedettino tedesco Anselm Günthör nella sua opera «Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale» (titolo originale: «Anruf und Antwort. Eine neue Moraltheologie»; traduzione italiana di Carlo Danna, Roma, Edizioni Paoline, 1975, 1981, vol. 2, pp. 318-20):
«Non si dà solo la mancanza di amore verso Dio da parte del peccatore che a Dio preferisce una creatura e, in fondo, se stesso, ma di dà anche l’atto tematico dell’opposizione, del disgusto, della avversione, del rifiuto e della maledizione di Dio; in poche parole: si dà anche l’odio verso e proprio contro Dio. È quanto testimonia la Sacra Scrittura.
Tuttavia non sempre quando essa usa l’espressione “odiare Dio” pensa a questo genere di peccato. Soprattutto nell’A. T. tale espressione può anche essere sinonimo semplicemente di peccato grave e di mancanza di amore. Ne Sal. 68,2 per es. il peccatore viene semplicemente definito uno che odia che odia Dio e in particolarmente viene così indicato (p. es. Es., 20, 5).
L’odio di Dio vero e proprio è testimoniato specialmente nel vangelo di Giovanni. Contro l’amore di Dio per il mondo rivelato in Cristo si eleva la marea dell’odio appunto da parte di questo mondo: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me… Chi odia me odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto tra loro opere che nessun altro mai fece, sarebbero senza colpa; ma ora, anche dopo averle vedute, hanno odiato me e il Padre mio (Gv. 15, 18, 23 sg). L’evangelista sottolinea continuamente che l’odio contro Cristo si trasforma in odio contro i discepoli di Cristo (Gv. 15, 19; 1 v. 3, 1).
Secondo Giovanni kl’odio vero e proprio di Dio presuppone che il peccatore abbia “visto”, cioè che abbia riconosciuto Cristo e il Padre. Dove ciò non si verificato neanche si può parlare di un odio reale di Dio. Ciò che non è stato conosciuto non può essere né amato, né odiato. Di conseguenza l’odio vero e proprio di Dio va nettamente distinto dal rifiuto da una falsa immagine di Dio. Chi ha imparato a conoscere Dio come un tiranno arbitrario, o come uno spettatore indifferente degli eventi del mondo o chi ha fatto solo l’esperienza di un’autorità umana dispotica e senza amore e ha trasposto questa caricatura a Dio, può rifiutare anche appassionatamente QUESTO Dio., ma il suo rifiuto non ha niente a che fare con l’autentico odio di Dio. Anzi in questo caso il rifiuto può addirittura provenire dall’assenso almeno latente al vero Dio. In nome suo si protesta contro l’immagine aberrante di Dio. Non ogni odio di Dio è effettivamente quel ch’esso sembra o dà a credere di essere. […]
Esistono due specie di odio vero e proprio di Dio. Con il primo,il cosiddetto odio di avversione, l’uomo aborre e rifiuta Dio, perché gli taglia la strada nelle sue aspirazioni e nelle sue azioni peccaminose, perché con la propria santità e con la chiamata della sua volontà, emanante dalla Sua parola e dalla coscienza, rinfaccia al peccatore il suo peccato. Invece di prestar ascolto alla accusa rivoltagli, il peccatore alza il pugno contro Dio. Gesù testimonia questa specie di odio di Dio nel vangelo di Giovanni, quando dice: “Il mondo… odia me, perché io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv. 7,7; cf. 3,20). Questo odio diventa tanto più forte, quanto più il peccatore impenitente si irretisce nel peccato.
L’odio di avversione contro Dio rappresenta sotto un certo aspetto l’opposto dell’amore di Dio orientato a se stesso. Come colui che è guidato dall’”amor concupiscentiae” ama Dio perché egli è per ui la fonte della felicità piena, così il peccatore odia Dio, perché gli impedisce di ottenere la felicità presunta, che spera di ottenere dal peccato. […]
L’uomo può arrivare fino al punto di rifiutare Dio non solo perché egli costituisce un ostacolo alla sua felicità presunta e falsa, mas a rifiutarlo semplicemente perché è Dio. Si ribella a fatto che Dio sia Dio e l’uomo solo uomo. Tale odio viene detto demoniaco, perché colui che odia Dio in questo modo ripete il “Non servirò” del demonio, pretende di detronizzare Dio e di porsi al suo posto, esattamente come il diavolo. Qui ci troviamo di fronte al “mistero dell’iniquità” (2 Ts. 2, 7).
L’odio cosciente e liberamente voluto contro Dio, soprattutto l’odio di inimicizia, è il peccato più grave di tutti. Con esso l’uomo distrugge contemporaneamente se stesso nella maniera più radicale. Come infatti l’amore di Dio anima e nobilita tutto l’uomo e la sua azione, così l’odio di Dio avvelena e perverte totalmente lui, il suo pensiero e la sua azione. Lo riempie di ostilità e di furore anche contro tutto ciò che ricorda Dio, soprattutto contro Cristo e la sua Chiesa.»
Effettivamente, c’è qualcosa di demoniaco nell’avversione furibonda, che scatta come un riflesso condizionato, non appena si parla di Dio e di Cristo, in un arco vastissimo di ambienti sociali, che va dai compagni di bevute all’osteria, fino ai più raffinati intellettuali “laici” e “progressisti”, frequentatori abituali dei salotti televisivi.
C’è qualcosa che ricorda le reazioni scomposte, aberranti dell’indemoniato durante il rito dell’esorcismo; qualcosa che lascia profondamente pensosi, se appena si riflette che un “normale” ateismo non si carica di segnali di avversione così forti, anche perché, a rigore, l’ateo non prova, né può provare, alcun sentimento verso la divinità, dal momento che si rifiuta di credere nel modo più rigoroso, sia pure come semplice ipotesi di lavoro, alla sua esistenza.
San Paolo era convinto che questo male radicale, questo odio contro Dio che non nasce dai limiti ch’Egli pone all’uomo sul terreno morale, ma che nasce dal fatto che Egli, per il semplice fatto di esistere (anche se lo si nega a parole), limita e frustra il desiderio umano di onnipotenza, attinga la sua forza dal Male stesso, in una terribile convergenza dell’odio demoniaco e di quello umano verso il sovvertimento dell’ordine cosmico.
Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, infatti, l’apostolo scrive: «Ora sapete perché quel malvagio non riesce a manifestarsi: c’è qualcosa che lo trattiene fino a quando non sarà venuto il suo momento. La forza misteriosa del male è già in azione, ma perché si manifesti pienamente è necessario che sia tolto di mezzo chi la impedisce. Soltanto allora quel malvagio si manifesterà, ma il Signore Gesù, come dice la Bibbia, “lo ucciderà con il soffio della sua bocca”, lo distruggerà con lo splendore del suo ritorno.»
Suor Faustina Kowalska, nel suo diario spirituale, descriveva la visione dei tormenti delle anime che si sono allontanate da Dio e che sfogano contro di Lui tutto il loro odio rabbioso; mentre la grande veggente Katharina Emmerich, fra XVIII e XIX secolo, parlava di una «era del Diavolo» che si stava scatenando nel mondo, secondo quanto preannunciato dal libro dell’Apocalisse.
Il non cristiano è portato ad alzare le spalle di fronte a simili discorsi, come se si trattasse di cose che non lo riguardano, delle allucinazioni e dei delirî di qualche anima mistica - vale a dire, nella sua prospettiva materialista, di qualche persona con serie patologie psichiche.
Eppure, riteniamo che si tratti di un atteggiamento profondamente sbagliato; anche per il non cristiano, anche per il non credente, questa è una cosa della massima importanza: se l’uomo odia Dio, o se odia quel Dio che lo limita nei suoi misfatti e nella sua smania di onnipotenza, allora le conseguenze possono essere realmente devastanti, perché - come osservava Dostojevskij - «se Dio non c’è, allora tutto è permesso».
Ci sembra che non sia necessario possedere una vista particolarmente acuta o un’intelligenza superiore alla media per rendersi contro che esistono già i sintomi di una simile deriva verso l’autodistruzione dell’uomo e della società in cui egli vive, fiero e orgoglioso, peraltro, dei suoi manufatti, della sua tecnica, della sua intelligenza.
Noi non vogliamo vedere il Diavolo, questo è il fatto; e, così facendo, gli stiamo rendendo - lo notava acutamente Baudelaire, che certo non era un credente nel senso tradizionale del termine - il servizio più prezioso, del quale egli si compiace particolarmente.
Per il credente, l’aspirazione a Dio è parte integrante della natura umana, per cui negarla e odiare Dio significa anche, per l’uomo, rivolgere il proprio furore contro se stesso, mutilare la propria natura, perpetrando il più grave dei peccati.
Ma anche il non credente che non crede al peccato, purché sinceramente pensoso del destino umano, non può non essere preoccupato: abbandonandosi alla propria «hybris», alla dismisura di volersi fare Dio lui stesso, l’uomo si consegna, di fatto, alla propria parte demoniaca, in uno scellerato patto faustiano, il cui prezzo è l’integrità della propria anima.
Ma se non c’è un Dio che la possa riscattare, se non c’è un Dio capace di perdonare, come potrà farlo l’uomo, con le sue sole forze; come potrà riscattarsi e come potrà perdonarsi le proprie colpe?
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=42985
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