Una delle caratteristiche proprie ad ogni liturgia tradizionale è quella d'essere intangibile, ossia di non essere manipolabile, modificabile, cambiabile.
E' notorio che la liturgia nelle comunità cristiane si è formata contemporaneamente a loro. San Paolo, nelle sue lettere, testimonia l'esistenza di liturgie primitive nelle quali i cristiani cantavano "salmi, inni e cantici spirituali" (Ef 5,19).
Gli odierni sostenitori cattolici delle improvvisazioni liturgiche guardano a quest'epoca, ritenendo che qui ci fosse quello spontaneismo in grado di "vivificare" la preghiera, altrimenti "stancamente ripetitiva". Essi dimenticano che la Chiesa ha voluto, prima possibile, fissare delle forme perché ben poco può essere manipolato (1) pena la decadenza dello spirituale nel puro temporale. L'antico motivo fondamentale dell'intangibilità di testi e orientamenti liturigici sta, infatti, nel mantenere intatto un percorso di tipo ascetico e spirituale, disposto non da intellettuali e studiosi ma da uomini spirituali.
Perciò con l'affiorare delle eresie, mentre pian piano si strutturava il vocabolario teologico, la liturgia assunse sempre maggiori elementi intangibili fino a divenire, dopo alcuni secoli, totalmente intangibile e stabile (IX-X sec).
Questo non ha proibito le Chiese locali d'avere delle consuetudini, di stabilire delle liturgie particolari (che in seguito furono denominate "riti").
Quando il motivo ascetico non fu più chiaro, soprattutto con la decadenza del monachesimo in Occidente (XI-XII sec), si mantenne un rigoroso rispetto per quanto si riceveva dalla tradizione poiché s'era radicata la mentalità di conservare le cose com'erano.
Nella storia della liturgia romana se notiamo lo stesso fenomeno dell'intangibilità, notiamo pure che, lungo il tempo, avvengono aggiunte, piccoli adattamenti, qualche soppressione.
E' noto come il messale del 1570 sopprimesse gran parte delle sequenze medioevali. In quello stesso messale si fecero piccoli ritocchi.
Ricordiamo quello della preghiera "Fiat commixtio et consecratio" che diviene "Haec commixtio et consecratio", per indicare semplicemente l'azione liturgica in corso nel momento in cui il sacerdote getta nel calice parte della particola consacrata poco prima della comunione (2).
Ricordiamo pure la soppressione della penultima strofa della sequenza "Victimae paschali laudes", nella quale, esaltando la fede nelle pie donne la si contrappone alla fallace disposizione verso Cristo delle masse giudee: "Credendum est magis soli Mariae veraci, quam Judaeorum turbae fallaci". Il testo completo di questa sequenza cercò di permanere a lungo, nonostante la soppressione di questo versetto nel messale romano del 1570. Lo ritroviamo, ad esempio, nel "Libro delle Ore" in uso nella diocesi di Lione (3).
Questo fatto dimostra come le Chiese locali fossero tutt'altro che disponibili ad adattarsi ad una seppur piccola soppressione avvenuta a Roma. Nella seconda metà del XIX secolo a Lione si continuava a cantare la sequenza dell'XI secolo nella sua forma integrale laddove a Roma si aveva preferito una forma abbreviata nella quale non compariva più la frase contro l'incredulità giudaica.
Il Concilio di Trento (1545-1563) stabilì che i riti autorizzati nella Chiesa dovessero avere almeno 200 anni di vita, com'era il caso per il rito domenicano. La garanzia per una liturgia, dunque, non era data dalla novità ma da una lunga prassi, tale da potersi ascrivere in una tradizione radicata.
E' importante che il lettore comprenda la mentalità di fondo soggiacente a questo apparente "immobilismo" liturgico. Secondo la mentalità tradizionale, le formule della liturgia non sono elementi lasciati all'interpretazione e al gusto del soggetto. Clero e laici non hanno alcuna libertà d'intervenire per manipolarli a piacimento (4). Questo perché la liturgia, in se stessa, non veicola solo una fede ma un modo di credere, un'atmosfera spirituale. Per fare un'analogia, la liturgia non solo "inclina" il credente verso una direzione ma stabilisce pure "il modo" in cui egli s'inclina. E tutto ciò contribuisce, a livello generale, a dare un'identità precisa ad una Chiesa. L'intangibilità, lo abbiamo appena visto, non significa che, nei secoli, qualcosa non sia stato ritoccato. Significa, invece, che l'insieme della liturgia ha mantenuto il suo aspetto originale.
Lo studioso Klaus Gamber paragonava la liturgia ad un albero al quale, lungo il tempo, possono essere stati tagliati dei rami. Tale, però, è sempre rimasto. Gamber osservava, pure, che questo non era il caso per la riforma liturgica voluta recentemente nella Chiesa cattolica. In quella riforma, infatti, scompare pure il tronco e, con pezzi del suo legno, assieme ad altri di eterogenea provenienza, è stato fatto qualcosa di totalmente nuovo, prescindendo completamente da ogni sviluppo organico della liturgia, come tradizionalmente è sempre avvenuto. Tale rito, egli concludeva, non si può chiamarlo romano se non molto impropriamente. Si dovrebbe, infatti, chiamarlo semplicemente "moderno". Il vero rito romano o è morto o non è affatto questo.
Ci si chiede se il "rito moderno" è legittimo.
Dal momento che la liturgia trasmette qualcosa di sopra-individuale (5) può, una commissione di studiosi per quanto sostenuta dalle più alte autorità, rifondare tutto un ordinamento liturgico? Sono convinto di no. Anch'essi devono comprendere che c'è un limite alla loro azione: la custodia, la chiarificazione o la semplificazione della liturgia può essere consentita. Una sua rifondazione no, dal momento che la liturgia è paragonabile ad un atto fondativo come la Costituzione di uno Stato. La Costituzione può avere chiarificazioni o semplificazioni ma cambiarla nella sua essenza significa, in definitiva, cambiare lo Stato. Se questo vale per il mondo laico perché non dovrebbe valere per quello ecclesiastico?
Analogamente, cambiare la Liturgia con riforme radicali - com'è successo nella Chiesa cattolica da qualche decennio a questa parte - significa cambiare la Chiesa stessa. E' difficile sostenere il contrario ribadendo artificialmente e a tutti i costi una continuità, pure a dispetto della reale difformità dall'ordine tradizionale.
Martin Lutero, all'inizio della riforma da lui propugnata, non aveva alcuna intenzione di rompere la comunione ecclesiale. Questo lo si nota dal fatto che, inizialmente, mantenne l'ordine liturgico che lui stesso aveva ricevuto. Nacque una nuova Confessione nel momento in cui egli decise d' abolire la "Messa papista", com'egli la definiva, riducendo, in seguito, il numero dei Sacramenti e stabilendo una nuova funzione per il sacerdote, da allora denominato "pastore".
La variazione della liturgia, anche in Inghilterra, stabilì l'effettiva nascita di una nuova Chiesa per quanto gli anglicani non raggiunsero mai l'assetto luterano, mantenendo un tenore liturgico assai simile a quello dell'attuale Cattolicesimo.
A differenza di questi ultimi esempi, tutte le Chiese tradizionali avvertono la liturgia come qualcosa d'intangibile. Così era sentito pure nel mondo cattolico fino a 70 anni fa.
Dom Prosper Gueranger (1805-1875), il fondatore dell'abbazia di Solesmes, nella sua opera Institutions liturgiques, si scagliava con veemenza contro gli innovatori liturgici, coloro, cioè, che osavano introdurre variazioni alla liturgia. Ogni innovatore, così sosteneva, ha l'intenzione più o meno recondita di modificare il modo di credere. Egli concludeva che la liturgia romana si era mantenuta al riparo da certi errori nei quali era caduta quella gallicana, proprio perché manifestava un'istintiva avversione per ogni innovazione.
La fiera opposizione a ciò che cambia sostanzialmente l'identità ecclesiastica fu quello che attirò John Henry Newmann verso la Chiesa cattolica nella seconda metà dell' 800. Egli, a differenza degli uomini attuali, non sentiva tedio per la perennità delle formule liturgiche e, anzi, scriveva: "Io potrei assistere eternamente alla Messa senza mai stancarmi; infatti non si tratta di una semplice formulazione di parole, ma di un grande atto, del più grande atto che possa aver luogo sulla terra" (6).
Breviario Romano nell'edizione torinese del 1827, precedente alla riforma di Pio X |
Purtroppo dal momento in cui s'iniziano ad introdurre sempre maggiori modifiche, si ha l'impressione che venga demolito dalla Chiesa un muro di cinta; si lancia un implicito messaggio che suggerisce l'inesistenza di limiti o l'estrema relatività di essi: se il testo liturgico può essere ampiamente elaborato (seppur da commissioni autorizzate), allora perché il soggetto non lo può ritoccare? Ecco, dunque, che si è costretti a dare un certo spazio pure al singolo sacerdote il quale, da semplice trasmettitore, diviene "creatore". Ufficialmente gli si concedono ampi spazi nelle cosiddette "monizioni" durante la Messa ma molti vanno ben più in là, facendo interpolazioni o modifiche personali al testo liturgico. Le cosiddette "comunità di base", ai margini ma pur sempre nel mondo cattolico, ancor oggi compongono delle preghiere eucaristiche.
Perciò lo stesso fatto che il sacerdote, nel Messale cattolico riformato, abbia un'ampia scelta di anafore, piuttosto che vederla come una "ricchezza", a me pare essere come "caramelle" gettate a chi è animato da continue voglie di cambiamenti; sembra un disperato tentativo di placare questo fenomeno concedendo un contentino, come se ciò bastasse a frenare le originalità che continuano a germinare! Questi atteggiamenti innovativi paiono rimandare ad un'inquietudine, che sembra d'origine prettamente spirituale. Essa si dovrebbe placare con ben altri mezzi, di origine ascetica, in mancanza dei quali non conosce sosta.
Si ricordano, a tal proposito, tutte le liturgie ad experimentum avvenute nel periodo postconciliare e che ancora avvengono, soprattutto all'interno di certi gruppi. L'idea di una liturgia come "ripetizione solenne di gesti e parole", stomaca la maggioranza dei chierici cattolici attuali, formati più per essere degli intrattenitori-animatori (7) che dei sacerdoti nel senso forte del termine.
Se è possibile l'improvvisazione per il testo liturgico, allora anche lo spazio liturgico può essere stravolto. Ed ecco spiegata l'inesistenza di spazi recintati e intangibili ai laici o le squallide "chiese-garages" odierne. Se il testo liturgico ha perso l'intangibilità perché la dovrebbe conservare lo spazio adibito alla liturgia?
Tutte le ininterrotte improvvisazioni e cambiamenti liturgici non sono altro che logiche conseguenze discendenti dagli orientamenti presi dal mondo cattolico 50 anni fa con l'abolizione di fatto dell'intangibilità liturgica (8). Gli stessi libri liturgici odierni sono effettivamente aperti ad ulteriori variazioni dettate da luoghi e tempi diversi. Tutto ciò supera di molto un semplice adattamento di testi preesistenti a nuove condizioni. E' l'intangibilità che è venuta meno. Ne ha tratto certamente vantaggio l'editoria con la vendita di ulteriori nuove edizioni, non certo chi, nella Chiesa, cerca una stabilità spirituale.
Ma quando l'idea stessa d'intangibilità della Liturgia viene meno, con essa viene meno l'identità stabile di una Chiesa. E dov'è, allora, la roccia ferma della fede di Pietro? Stando così le cose, rimane un puro asserto verbale!
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(1) In questo, il processo di assestamento e fissazione dei testi liturgici sembra seguire quello del Canone scritturistico. E' noto come ogni Chiesa avesse un suo elenco di libri biblici e che, solo attorno al IV-V secolo, si stabilì un elenco preciso. Se si dovesse stare al principio dei sostenitori dell'improvvisazione liturgica, si dovrebbe, dunque, rimettere in discussione il Canone biblico stesso favorendo, nel corso della Messa, letture di vario genere. Coerentemente a tale principio, ciò è già avvenuto: in Olanda, nei primi anni '70, alcune chiese cattoliche avevano la consuetudine di leggere, assieme alla Bibbia, stralci tratti dai quotidiani dell'epoca.
(2) Vedi Michael Kunzler, La liturgia della Chiesa, 10, Milano, 2003, p. 341.
Questo gesto è simile a quello che avviene nella Divina Liturgia bizantina quando il sacerdote getta nel calice tutti i frammenti di pane consacrato che compongono l' "Agnello". La differenza con l'Occidente è che, mentre qui la comunione avviene sotto le due specie (per cui tutto il pane va nel calice dove s'imbeve di vino), in Occidente è solo una parte della particola ad imbeversi di vino poiché solo il sacerdote si comunica con entrambe le specie.
(3) Heures à l'usage du Diocèse de Lyon, Gauthier Libraire-éditeur, Lyon, 1864, p. 285. In questo libro, la sequenza compare collocata nei Vesperi assieme al graduale.
(4) Questo è sostenuto pure da papa Benedetto XVI, ammiratore di Klaus Gamber. Purtroppo una tale affermazione, in un contesto quasi totalmente anti-tradizionale, è come cercare di mettere una pezza di stoffa buona in un vestito totalmente logoro. Quello che poi pare mancare, dietro a quest'affermazione papale, è una ragione più profonda e spirituale che la possa sostenere in mancanza della quale è inevitabilmente sentita come un'imposizione autoritaria e, conseguentemente, rigettata. L'attuale forte resistenza episcopale alle pur timidissime proposte tradizionali del papa è un chiarissimo segno di contrarietà a tale principio.
(5) Questa caratteristica della liturgia, la sua "sopra-individualità", è equivocata con il termine di "comunitaria". Non è affatto così. La liturgia comunitaria è quella celebrata da tutta la comunità come se fosse un corpo solo, un solo individuo e, in quanto tale, può sempre rimanere individuale, gestita e plasmata da chi la conduce e la anima.
La liturgia "sopra-individuale", invece, è un insieme di testi e disposizioni che, pur composti in tempi e luoghi particolari, vogliono prescindere da individui o comunità specifiche, ai quali, però, individui e comunità specifiche si sintonizzano. Si tratta, in buona sostanza, di qualcosa che ha lo scopo di far uscire le persone dal loro individualismo in vista di una comunione e di un'esperienza mistica in Cristo. Così mentre la liturgia odierna tende ad essere sempre individualista, piuttosto chiusa in senso antropocentrico, quella "sopra-individuale", che corrisponde alla liturgia tradizionale, è aperta al Cielo, è verticale, relazionale in senso trascendente. La liturgia "sopra-individuale" è quella tradizionale e antica, quella "individuale" è, molto spesso, quella sgorgata dalla cultura odierna. La liturgia "sopra-individuale" è ecclesiale tanto quanto la liturgia individualista è anti-ecclesiale.
Ma essa è praticamente assente in Occidente, proprio perché è totalmente equivocato il significato di "tradizione" e "tradizionale", piegato pure questo in senso individualistico e antropocentrico. Il rischio di molti mondi tradizionalisti cattolici è quello di recuperare la tradizione liturgica ma di non uscire mai da quell'individualismo che contraddistingue generalmente l'attuale cultura. La tradizione liturgica, così, diviene una delle tante "divinità" nel Pantheon dell'attuale Chiesa, uno dei tanti gusti e propensioni nel "mercato del sacro". Quest'idea è indirettamente instillata dalla stessa gerarchia episcopale quando, per motivi pure comprensibili ma a mio avviso non giustificabili, adagia le Messe tradizionali sullo stesso piano di qualsiasi altra liturgia attualmente praticata, favorendo una specie d'intercambiabilità, se non proprio d'indifferentismo (= "questo o quello per me pari sono!"). Ma questo è profondamente ingiusto e sbagliato. A tale argomento sarà bene dedicare un post apposito.
(6) J.-H. Newmann, Loss and Gain. The story of a Convert, London, 1848-1858, p. 265.
(7) Il concetto stesso di "animazione liturgica" rasenta, secondo me, il blasfemo. Se una preghiera è intensamente vissuta, non ha bisogno d'essere teatralizzata. Dei credenti in silenziosa contemplazione, per gli "animatori liturgici", sono persone quasi inutili. E' necessario agitarsi, schiamazzare, partecipare esteriormente, per manifestare una liturgia vivente. Qui si scambia per vita ciò che è puro vitalismo, nonostante Cristo abbia chiaramente indicato dei criteri regolatori per la preghiera (Cfr Mt 6,6).
Recentemente mi è capitato di chiedere ad un sacerdote di mezza età cosa pensasse all'idea d' "intangibilità" della Messa. Per ben tre volte ha risposto: "Non riesco a capire cosa sia l'intangibilità. La liturgia dev'essere vissuta con i fedeli ed aiutarli a farla comprendere. L'idea dell'intangibilità mi lascia di stucco". Lo stesso, però, aggiungeva d'essere rimasto amareggiato davanti a giovani preti i quali avevano celebrato una messa totalmente inventata. "Solo le parole della consacrazione erano prese dal Messale, ma il vangelo era letto da un laico", aggiunse. Evidentemente, per quanto questo prete non capisca la funzione dell' "intangibilità", ha ricevuto comunque qualcosa di più rispetto alle ultime generazioni che portano alle estreme conseguenze i presupposti stabiliti già 50 anni fa.
(8) L'accelerazione dei cambiamenti nel messale romano poco prima e durante il Concilio Vaticano II è simile all'assedio di una città, sempre più stringente, poco prima del crollo di quest'ultima. L'inserzione del nome di san Giuseppe, all'interno del Canone Romano, voluto nel 1962 da papa Giovanni XXIII, turbò alcuni. Il Canone Romano o Anafora, era infatti rimasto intatto da tempo immemorabile e non parve ad alcuni saggio fare tale inserzione, neppure per motivi devozionali. Per costoro la tradizione era superiore ai voleri del singolo papa. Nonostante ciò, la cosa passò ma ebbe un pesante significato simbolico: se un papa, con la sua autorità, poteva intervenire nello stesso Canone Romano, il cuore della Messa, un testo venerabile e intangibile, allora, con il permesso papale, sarebbe stato possibile modificare molto più. Così infatti avvenne. Si rimane molto meravigliati di come, nel giro di pochissimi anni, la mentalità nel Cattolicesimo si sia addirittura rovesciata. Evidentemente da tempo erano stati posti molti presupposti perché ciò avvenisse, primo fra tutti l'aver anteposto l'autorità alla tradizione. Infatti, cosa dice il fedele medio? "Cosa ne pensa il papa, il vescovo, il prete?". Non dice: "Qual'è l'atteggiamento della tradizione?", come ancor oggi si dice in Oriente in chi vuol saperne di più.
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