Card. Giacomo Biffi,
LAMENTAZIONE
SUI TEMPI PRESENTI.
L'ideologia postconciliare
Essa
deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma
attraverso un processo di "distillazione fraudolenta"
immediatamente posto in atto all'indomani dell'assise ecumenica.
L'operazione
potrebbe schematicamente essere descritta così:la prima fase sta
nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra
quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio;nella
seconda fase si riconosce come vero insegnamento del
concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa
assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza
di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito;con
la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del
concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che
avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più
illuminati, più coraggiosi, più coerenti.
Con
un metodo esegetico siffatto - non enunciato mai in modo esplicito,
ma non per questo meno implacabilmente applicato - è facile
immaginare i risultati.
I
quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono
sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche
timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di
"preconciliare", quando non è addirittura classificato coi
tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti.
E
poiché tra i "distillati di frodo" dal Vaticano II c'è
anche il principio che nessun errore può essere condannato nella
Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del
dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i
veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.
Concilio
e "postconcilio"
Credo
che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere
accuratamente il concilio dal "postconcilio", in modo che
si possa accogliere il primo con totale cordialità e valutare il
secondo alla luce del primo e di tutto l'insegnamento rivelato con
animo libero da qualunque intimidazione e da qualunque ricatto
culturale.
Questa
distinzione non deve turbare un cuore credente. Chi alla luce della
fede riflette sulla storia della salvezza, sa benissimo che nella
nostra vicenda come non c'è evento nefasto dal quale Dio non ricavi
qualche bene per i suoi figli, così non c'è divino capolavoro che
il demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di
malessere e di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera
senza dubbio provvidenziale e supernamente ispirata.
Gli
"idoli" postconciliari
Propiziati
dal "postconcilio", nella coscienza della cristianità
contemporanea si celano, come nella sella del cammello di Rachele (Gn
31,19.34), molti svariati idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti
ovviamente; ci limitiamo a segnalare quelli che più vistosamente
influenzano tanto la ricerca teoretica quanto l'attività pastorale.
1.
La "antropolatria"
Nei
primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che "il
segreto della teologia è l'antropologia" e vagheggiava
l'avvento di una teologia di nuovo genere, contrassegnata dal fatto
"che essa pone nell'al di qua l'essere divino che la teologia
comune, per paura e incomprensione, pone nell'al di là".
Viene
da pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia
fatto scuola presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX
e che la sua aberrante intuizione, probabilmente veicolata dalla
grande ubriacatura marxista, dopo tanto tempo sia stata tacitamente
ricevuta.
L'uomo
sembra divenuto l'unico oggetto dei nostri pensieri, dei nostri
interessi, della nostra adorazione. E, nel desiderio di coglierlo in
se stesso, nella sua autonoma e singolare natura, si è addirittura
proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare l'uomo "ut
si Deus non daretur", come se Dio non ci fosse, prescindendo
cioè dal suo Creatore e valutando soltanto l'umanità come tale,
presa a sé e separata da qualunque dipendenza e da qualunque
superiore significazione.
Sennonché
l'uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento
"immagine di Dio" e totale relazione a lui; e dunque
escludere Dio sia pur metodologicamente dalla prospettiva sull'uomo
vuol dire snaturare l'uomo e non coglierlo nella sua verità.
Se
con l'espressione "autonomia delle realtà temporali"
si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l'uomo può
adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che
credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La
creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro
che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso
la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature.
Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa (Gaudium, et
spes, 36).
Si
arriva così anzi a una contraddizione esistenziale. Noi siamo
"adoratori costituzionali": privati ideologicamente del
vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili
impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni
altra l'uomo. D'altra parte, l'uomo avulso dal suo Archetipo e dalla
sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell'atto
stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua
profanazione.
E'
facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito
fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla
venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli.
Naturalmente
questa "antropolatria" non ha niente a che vedere con
l'"antropocentrismo" di chi riconosce nell'uomo "il
culmine dell'universo e la suprema bellezza del creato", colui
che detiene "la sovranità su tutti gli esseri viventi",
come dice sant'Ambrogio.
L'antropocentrismo
è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest'ordine di cose
liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il
Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al
centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé,
facendoli partecipare, mediante l'inabitazione dello Spirito Santo,
prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il
vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il
rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e
non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria.
Antropolatria
e antropocentrismo, anche se all'esterno possono presentare qualche
somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili.
L'antropolatria
è propria di chi ha "cambiato
la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura
dell'uomo corruttibile"
(Rm
1,23); ed è l'approdo
obbligato di chi, perdendo di vista l'Autore dell'essere e della
vita, ha in sostanza una visione atea del mondo. L'antropocentrismo è
proprio di chi onora l'uomo per quello che l'uomo è; esso non
insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui
ci si può lanciare al riconoscimento del Padre.
La
cultura antropolatrica dà regolarmente origine a società disumane,
nelle quali l'uomo - teoricamente adorato - è di fatto avvilito,
reso servo, privato di ogni scopo plausibile dell'esistere. La
cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al suo
disegno d'amore, senza di che l'uomo non solo non può essere visto
come il centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento
trascurabile di materia alla deriva sul mare dell'insignificanza.
L'esteriore
somiglianza può talvolta indurre in equivoci; ma non - c'è dialogo
o convivenza possibile tra antropolatria e antropocentrismo, a meno
che l'una o l'altra comincino a non essere più nei fatti quello che
il loro nome significa in sé.
In
realtà la questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni
serio discorso su un umanesimo non illusorio.
Una
delle citazioni più frequentemente ripetute in questi anni è la
splendente frase di Ireneo: "La gloria di Dio è l'uomo
vivente". Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe
il pericolo di travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si
dimostrerebbe maggior rispetto verso il pensiero dell'antico
scrittore, se ci si abituasse a riferirla nella sua integrità: "La
gloria di Dio é l'uomo vivente; ma la vita dell'uomo sta nella
contemplazione di Dio".
2.
La "cronolatria"
Il
secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di
"cronolatria" o "adorazione dell'attualità". La
lucidità della denuncia del pensatore francese non ha però impedito
che questo "culto" si estendesse e si affermasse sempre più
nella cristianità, al punto da essere ormai un'abitudine mentale
acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi.
Senza
affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso
involontario e quindi tanto più significativo dal linguaggio d'uso
corrente, nel quale l'aggettivazione del biasimo teorico non è:
falso, errato, illogico, cattivo, aberrante; ma piuttosto: superato,
sorpassato, attardato, vecchio. Non conta tanto la verità quanto la
formulazione recente. Le idee, come le uova, devono essere "di
giornata".
Talvolta
si sente perfino squalificare un teologo o un vescovo con la frase:
"è fermo al concilio di Trento"; dove è mirabile il fatto
che la condanna sia espressa con l'indicazione non di ciò che, una
volta dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad
esempio, la non consonanza con l'insegnamento del Vaticano II), ma di
ciò che dovrebbe se mai rappresentare un titolo di merito (e cioè
la fedeltà alla dottrina di un magistero solenne che, per quanto
antico, resta tuttora autorevole). E con questa disinvoltura
"cronolatrica" ci si dispensa dall'addurre le prove di una
eventuale infedeltà al magistero più recente.
Allo
stesso modo, veniamo spesso esortati a pregare per gli "uomini
del nostro tempo", come se qualcuno fosse mai tentato di
ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere nel
"mondo di oggi", contro il pericolo di sconfinare
inavvertitamente nell'epoca carolingia; o a impegnarci a "essere
moderni", che è un po' come se una mucca si impegnasse ad avere
la coda.
Non
ci si meraviglia allora di notare che il tema della "vita
eterna" si faccia sempre più raro nei discorsi ecclesiastici,
dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del "tempo
presente". Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni
alienanti, ma non "invece di quella", bensì "alla
luce di quella": solo con la coscienza sempre pungente della
"vita eterna" e della sua impareggiabile rilevanza è
possibile "redimere il tempo presente", ridonandogli senso
e spessore.
Naturalmente
non c'è niente di male nell'uso di queste locuzioni, le quali
possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da
un atteggiamento "astratto" e troppo remoto dalle
condizioni esistenziali. Ma, considerate come un "vezzo
linguistico", sono la spia di un atteggiamento spirituale
indebitamente ossessionato dal culto dell'attualità.
Si
ha talvolta l'impressione che i credenti si ritengano piuttosto
mobilitati a riscattare il tempo presente, non dalla vanità e dalla
malizia dei "giorni cattivi" (cfr. Ef 5,16), ma proprio
dalla incombenza oppressiva dell'eterno, il quale - se è troppo
insistentemente rammemorato - si teme non lasci spazio
all'inserimento nel quotidiano.
Il
caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della libertà
con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte
dell'energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere
sono poche.
Di
solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad
attentare alla ragione. E in effetti la "cronolatria",
rovesciando la prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi
del raziocinio.
"Lo
spirito che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità,
trascende il tempo". Perciò "sottoporre le cose
dello spirito alla legge dell'effimero, che è quella della materia e
del puro fatto biologico", vuol dire soffocare la vita
stessa dell'anima.
Quando
resta se stessa e non viene traviata, "la ragione non si
preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo
stesso modo si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma
solo di essere 'ragione', perciò di essere vera".
3.
La "cosmolatria"
Di
tutte le idolatrie che ci affliggono, l'adorazione del mondo è senza
dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male
della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma
se azzarda a scrivere due righe contro il "mondo", deve
aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei
recensori più benevoli e pii.
Questa
"cosmolatria" fa tanto più spicco in quanto stride con
tutta la consuetudine linguistica dell'ascetica tradizionale: la
"fuga dal mondo", la "rinuncia al mondo", il
"disprezzo del mondo" dai primordi del cristianesimo fino a
pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della
predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non
si trova più traccia. Al loro posto si propone l' "inserimento
nel mondo" e perfino il "servizio del mondo".
A
esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per
esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere
dei fedeli) si ha l'impressione che i due vocaboli "mondo"
e "Chiesa" rispetto all'uso di prima si siano semplicemente
scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca,
riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di
potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga
riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue
necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni
del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto
in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose.
Almeno
sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la
tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di
vocabolario?
All'origine
di questo mutamento c'è la "Gaudium et spes"; ma si tratta
della "Gaudium et spes" passata al filtro della ideologia
postconciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti
strati della cristianità.
Affrontando
il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, il Vaticano II
ha compiuto un'opera preziosa di chiarificazione e di illuminazione.
Mettendosi
nella prospettiva della Genesi e della Somma teologica, vale a dire
considerando la natura umana e il mondo in ciò che li costituisce in
se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la loro
bontà radicale e l'invito al progresso che, per quanto ostacolato
dall'ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto
nella loro essenza. E mostra, non solo in maniera generale ma con
analisi molto accurata e con tutta la generosità che deriva dalla
divina carità, come la Chiesa, restando perfettamente nel campo
della sua missione esclusivamente spirituale e nell'ambito delle
"cose di Dio", possa e voglia aiutare il mondo e la specie
umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali.
A
dire il vero si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne
della Chiesa - ma con connotazioni nuove ed eccezionalmente
importanti, dal momento che è riaffermata sotto il segno della
libertà - non più per rivendicare il diritto della Chiesa di
intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al
fine di combattere il male (a questo, credo, sarà sempre obbligata,
sotto una forma o l'altra), ma per dichiarare il suo diritto, e la
sua volontà, di animare, stimolare, assistere dall'alto, ratione
boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare
all'autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il
raggiungimento di un bene più grande.
Ma
l'ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente questa
prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire
- a proposito delle relazioni tra il "mondo", di cui si
parla ripetutamente negli scritti apostolici, e la Chiesa - un
insegnamento in netto contrasto con quello delle pagine di san
Giovanni e di san Giacomo.
Il
prevalere di questa ideologia ci spiega come mai in questo tempo di
esasperato biblismo ci siano molte frasi del Nuovo Testamento che non
si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma severissima,
esercitata sul Libro di Dio.
Proprio
perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm
2,9), ne trascriviamo un po' per comodità del lettore."Il
mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che
le sue opere sono cattive" (Gv 7,7)."Ora è il
giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà
gettato fuori" (Gv12,31)."Lo Spirito di verità che
il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce"
(Gv 14,27)."Se il mondo vi odia, sappiate che prima
di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è
suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal
mondo, per questo il mondo vi odia" (Gv 15,18-19)."Quando
sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla
giustizia, al giudizio" (Gv 16,8)."Voi
piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà"
(Gv 16,20)."Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!"
(Gv 17,9)."Io ho dato loro la mia parola e il mondo
li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del
mondo" (Gv 17,14)."Padre giusto, il mondo non
ti ha conosciuto" (Gv 17,25)."Non amate né il
mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre
non è in lui" (1 Gv 2,15)."Il mondo passa con
la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!"
(1 Gv 2,17)."La ragione per cui il mondo non ci
conosce è perché non ha conosciuto lui" (1 Gv 3,1)."Non
meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia" (1
Gv 3,13)."Tutto ciò che è nato da Dio vince il
mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra
fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il
Figlio di Dio?" (1 Gv 5,4-5)."Noi sappiamo che
siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del
maligno" (1 Gv 5,19)."Una religione pura e
senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli
orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo
mondo" (Gc 1,27)."Gente infedele! Non sapete
che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del
mondo si rende nemico di Dio!" (Gc 4,4)."Il
mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio" (1
Cor 1,21)."Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del
mondo, ma lo Spirito di Dio" (1 Cor 2,12)."La
sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio" (1
Cor 3,19)."La tristezza del mondo produce la morte"
(2 Cor 7,10)."Quanto a me non ci sia altro vanto che
nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il
mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo" (Gal
6,14).
Sappiamo
benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento
altre espressioni nelle quali la parola "mondo" indica la
creazione di Dio che è buona, e l'umanità che è in attesa della
salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono
passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti;
sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes,
fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo
sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella
cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato
soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni
questa dottrina si cela?
Tutto
sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una
terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che
non ha più posto nell'odierna riflessione teologica e pastorale.
Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l'organismo
ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella
"cosmolatria" che stiamo qui denunciando.
Occorre
ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza
operarvi nessuna aprioristica selezione.
Una
frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la
multiformità della parola di Dio a proposito di "mondo"."Egli
era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo
non lo riconobbe" (Gv 1,10).In due righe il vocabolo compare tre
volte e sempre con sfumature diverse."Era nel mondo": si
riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella
realtà creaturale. E' una indicazione che non implica alcuna
valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: "il
campo è il mondo" (Mt 13,38).
"Il
mondo fu fatto per mezzo di lui": qui è implicitamente
affermata l'originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile
disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo
è detto che "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito" (Gv 3,16).
"Eppure
il mondo non lo riconobbe": qui la parola "mondo"
esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente,
ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre
l'iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente
ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa
tragica realtà.
Il
mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona
ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e
cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata
Ciò
che non c'è nel Nuovo Testamento è l'idea che la Chiesa debba
essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure
c'è l'idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver
bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa.
Chi
muove dalla pur giusta convinzione dell'intrinseco e inalienabile
valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come "buone"
(cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da
dire sul "mondo", rischia obiettivamente di non riconoscere
la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione
e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti
rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del "mondo"
sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza;
un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste.
L'irenismo
a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia
per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il
serpente); o, se si vuole, è un'abusiva pregustazione dello stato
d'animo che ci rallegrerà nell'eterna Gerusalemme: rispetto al tempo
di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione.
Il
"servizio del mondo". Parrebbe anche utile una breve
riflessione circa il "servizio del mondo", che ci viene
indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti.
L'affermazione
è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga
provocare una visione distorta dell'impegno cristiano. Gli equivoci
possibili sono due: sul concetto di "mondo" e sul dovere
del "servizio".
Per
"mondo" qui si può intendere solo l'umanità che -
dolorante, sviata, senza luce - è in attesa della salvezza. Non
certo il "mondo" per il quale il Signore non ha pregato e
che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura
esistenza non dobbiamo mai dimenticarci.
E
il "servizio" più urgente e necessario che può essere
reso agli uomini decaduti e infelici è l'annuncio del Salvatore e
del progetto d'amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la
vera "promozione umana", che poi diventa la molla
propulsiva di ogni altro "progresso" nel benessere, nella
pace sociale, nella giustizia terrena.
Va
anche detto che l'unico a dover essere propriamente e direttamente
servito da noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. "Ci sono
diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore" (1 Cor
12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come padrone.
Vero
è che l'unico nostro Signore si è fatto "servo" di tutti:
e noi, se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo
servirlo anche associandoci a lui in questo servizio degli altri e
attendendo dunque alle necessità reali di tutti.
La
delucidazione, che può sembrare sottile e puntigliosa, è invece
essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi degli
uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò
che a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il
"foro".
Un
secondo esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo,
che, chiudendosi nel microcosmo del monastero per inseguire l'ideale
di una vita evangelica perfettamente coerente, di fatto ha
contribuito in modo determinante al sorgere della nuova Europa. E'
curioso notare nella storia ecclesiale che il programma spirituale e
culturale della "fuga dal mondo" di solito riesce ad
animare un'azione incisiva nella società e a riplasmarla
effettivamente alla luce del Vangelo. Basti pensare all'incidenza
nella realtà sociale e politica del suo tempo di sant'Ambrogio, che
pure ha scritto un "De fuga saeculi" e teorizza
continuamente nei suoi scritti l'urgenza della solitudine.
4.
La "schizolatria"
La
quarta "latria" nasce ed è alimentata da una "fobia".
La paura ossessiva dell'integralismo - cioè dell'abitudine mentale a
risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo
immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede - induce alcuni
incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla
esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l'altro
dell'impegno umano.
Alcune
annotazioni si impongono a questo proposito. L'inerzia mentale, lo
schematismo linguistico, l'incapacità a seguire l'effettivo
succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli
occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico - che pur ha
avuto una sua lunga e deleteria stagione - oggi non esiste più se
non in frange trascurabili della cristianità. E' morto da un pezzo,
anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni
sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c'è
pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si
slanciano in queste battaglie.
Per
contro esistono - graffianti, acritici, sicuri di sé - altri
integralismi di vario colore: c'è un integralismo marxista, un
integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo
liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni "parrocchia"
politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della
realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese
quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti
dell'impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero
ecclesiale. Tutte queste "parrocchie" si adoperano a tenere
viva la fobia dell'integralismo cattolico; e il più delle volte
viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza
cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di
irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c'è da stupirsene;
stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in
molti credenti anche sinceri.
Ma
la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione
cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente
l'esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in
vista del quale tutto esiste, sia nell'ordine della redenzione sia
nell'ordine della creazione. Conseguentemente colpisce al cuore
l'unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di
questo universo di fatto esistente.
Ci
sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos
Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione.
"Il
primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la
distinzione tra piano creaturale/o di natura, e piano redentivo/o
della grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino
alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile.
Essa viene a misconoscere il dato primo dell'attuale e concreto
ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e
totalizzante - su cui abbiamo già insistito - consistente nella
predestinazione dell'uomo e dell'universo in Gesù Cristo risorto da
morte. E', indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine
di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede - che fa uditori
della Parola - trasmette integralmente questo disegno originario di
fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni
modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non
esistenza o l'ipotesi.
Una
teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso
giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che
si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di
natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo,
di 'pura' entità 'creaturale' (ossia dipendente dalla pura
creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere
l'atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini
inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile.
Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe
impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente
dicotomia.
Manca
un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una
dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un'altra: nel
disegno originario in Gesù Cristo è compresa la "ragione",
la "filosofia", l'incontrovertibilità, dell'essere e vi è
compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità.
Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette
di essere tale: l'accoglienza per fede del disegno divino in Cristo
non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di
mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche
più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di
fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la
ragione a se stessa.
Un
secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un
lato il dato della fede, dall'altro il dato della storia, e quindi
della temporalità, della politica, come se alla fede non
appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola:
l'antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di
struttura antropologica
la
cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso
disegno originario. Il cristiano non prende a prestito dalla
filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell'uomo: piuttosto,
eventualmente, riconosce che al di fuori dell'orizzonte della fede
consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di
salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto - in
concreto! - dal piano "creaturale" come abbiamo ora detto.
Facendo
storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che
rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede,
mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del
disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca,
confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia
spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo
senso che non c'è passaggio diretto dalla fede alla politica, è
altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono
discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S'è
parlato, con preciso fondamento, di 'umanesimo integrale'.
Occorrerebbe
più compiutamente parlare di 'cristianesimo integrale'. Ancora: si è
detto - e giustamente in una determinata prospettiva - che si deve
distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve
'distinguere nell'unito'. Una mediazione che fosse configurata come
lo sforzo o l'impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il
vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è
una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo
versante dall'ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta
piuttosto miticamente la storia come entità a sé da 'battezzare'.
L'originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà
caratterizzanti: essa è un compito del credente - e ognuno, dotto o
indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. E' vero che il
cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è
perché l'uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere
'filosofico', con quel che ne consegue".
5.
La "bibliolatria"
Il
culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli
studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa
conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è
letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si
abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo
più risoluto.
Pure
c'è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro
di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo
candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi
e mal giudicati.
Noi
non siamo il "popolo del Libro"; a rigore non siamo neppure
il "popolo della Parola": siamo il "popolo
dell'avvenimento". La Parola di Dio risuona all'interno
dell'evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una
illuminazione, non solo una "res" ma anche un "signum"
eloquente, non solo un "mistero" ma anche un "evangelo",
lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci
porti alla partecipazione intera della vita.
La
"pagina sacra" è il mezzo privilegiato con cui possiamo
arrivare alla "Parola" per nutrircene e vivere con
intelligenza nell'evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata
all'avvenimento. L'avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la
Bibbia non avrà più sussistenza e valore.
Per
circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri
cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche
elemento essenziale. Anche quando i vangeli non erano ancora stati
scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la
Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la
salvezza era presente e operante.
Chi
si colloca integralmente all'interno dell'avvenimento, si pone nelle
condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne
il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con
sempre rinnovata coscienza, all'interno dell'avvenimento, per quanto
numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue
citazioni è sempre in pericolo di rimanere all'esterno del Libro di
Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza.
A
cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare
bravissimo nell'addurre i passi ispirati a sostegno delle sue
argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è
caratterizzata dall'abbondante ricorso da parte degli eretici ai
testi scritturistici. E per la verità anche ai nostri giorni
assistiamo talvolta ad "alluvioni" di frasi bibliche che
nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio.
Ma
c'è una insidia più subdola e perniciosa: l'uso abbondante e quasi
ossessivo della Bibbia - staccato però dalla consapevolezza sempre
richiamata dell'avvenimento salvifico, il quale include anche la
Sacra Scrittura e la trascende - può condurre a una visione
meramente "culturale" del cristianesimo e rendere l'atto di
fede non più un "assenso reale" ma un puro "assenso
nozionale" mentre - come splendidamente dice san Tommaso, "actus
credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem": l'atto
di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una
realtà.
La
distinzione tra "assenso nozionale" e "assenso reale"
è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell'assenso, di
J.H. Newman. In realtà, in campo teologico la questione è ancora
più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di
dire. Il pericolo sta nell'insensibile ma sempre più vasto
affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a
considerare la "res" - attinta nell'atto di fede, quando
l'atto di fede c'è veramente - scientificamente inconoscibile come
il "noumeno" kantiano, e quindi non più oggetto di
attività teologica, la quale si esercita soltanto sul "fenomeno".
Di qui la risoluzione della teologia nell'esegesi, e poi anche nella
storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le
filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia
religiosa ecc.
Sventurato
quel teologo o quell'esegeta che, pensando a Gesù Cristo,
primariamente e come d'istinto si richiama a un personaggio della
catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al
Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto
antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni
testimonianza, come qualcuno che vive.
Un
uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: "Dov'é
Gesù?" risponde in modo del tutto ovvio e naturale: "In
cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo",
senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la
Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l'indirizzo di una persona reale
e concreta. Guai se l'interrogazione cominciasse ad avere come
risposta: "Si trova nel vangelo di Luca, nel 'corpus'
giovanneo, nella lettera agli Ebrei"; cominciasse cioè ad
avere come risposta l'indicazione di un "luogo" letterario.
Nei
modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa
non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al
mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il
Signore Gesù. Così sarebbe un "idolo".
Da
questo " idolo " deve essere purificato il santuario del
nostro cuore e il "tempio" della comunità cristiana
radunata in Cristo e offerta al Padre dall'impeto dello Spirito.
Alcuni
segni di sanità teologica e pastorale
La
rassegna delle più diffuse "idolatrie" non deve indurci a
credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più
veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito
Santo è all'opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi
prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale
che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione.
E
così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un'acutissima
mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall'incontro con
persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni
spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa
adesione all'Evangelo e a una totale partecipazione all'evento
salvifico.
Il
fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo
squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è
composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta
analisi e di una pacata valutazione.
Da
quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento
storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via
via affiorando nel mondo cristiano?
Dopo
l'esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci
parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che
non sia astratto e puramente nominale, l'attenzione a tre note
caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse
le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono
aiutare nell'ora presente.
La
prima è il sentimento
acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che
tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la
persuasione che in questo scontro - che è ancora in atto e lo sarà
fino alla venuta del Signore - ciascuno di noi è chiamato a
combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli
sono date
La
seconda è la
convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e
risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere
salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua
vittoria.
Perciò
a lui - e quindi al cristianesimo - è necessario ricorrere perché
l'uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue
schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo
l'apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere
ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai
nostri tempi (1).
La
terza è la percezione
della bellezza della Chiesa e l'ammirato stupore per questo
capolavoro dell'amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la
Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che
l'infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra
polverosa e dalla nostra umanità disastrata.
NOTE
(1)
La retorica circa il "dialogo" e il "confronto"-
che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i
nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione - ha innegabilmente
contribuito a una "smobilitazione generale" dei cristiani,
che ha pochi precedenti nella storia.
Anche
l'uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a
proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi
dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna,
per non restare nel vago.
"Bisogna
distinguere tra l'errore e l'errante". Principio
giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto
l'affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l'errore e
la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell'errore non
deve restare un'inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in
guardia anche da colui che di fatto semina l'errore, naturalmente
senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il
giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.
"Bisogna
guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci
divide". Questo
principio vale solo in proporzione alla vastità e all'importanza di
ciò che ci unisce e all'esiguità di ciò che ci divide. Quando si
ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio,
crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente
litigare su quando e come vada cantato l'alleluia. Ma quando la
divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e
quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la
propria identità; così l'ecumenismo diventa davvero, come
amaramente è stato detto, una "comune apostasia".
"La
Chiesa deve diventare credibile". Così
come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa
delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per
giudicare l'azione e la realtà dei cristiani, mentre l'unico metro
resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di
essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più
credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la
verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che
non hanno nessuna voglia di credere.
"Bisogna
guardarsi dai profeti di sventura". Se
la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le
ragioni della speranza cristiana (tra le quali emergono l'esistenza
di Cristo vivo e Signore, e l'inalienabile bellezza della Chiesa)
allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire
a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora
è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno
annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli
annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di
immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr.
Ger 14,13-16; 23,17;
27,9-10).
"Non
bisogna essere manichei".
Il manicheismo consiste nel credere all'esistenza di due princìpi
assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non
crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria
finale. Questa è un'aberrazione da condannare. Definire manicheo
invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il
cattivo, tra il giusto e l'ingiusto, tra ciò che è conforme alla
volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è
perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il
cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.
GIACOMO
BIFFI, La bella, la bestia e il cavaliere. Saggio di teologia
inattuale, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 20-41.
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